DALLA MICROFINANZA AL BES, INTERVISTA A FRANCESCO BOCCIA

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DALLA MICROFINANZA AL BES, INTERVISTA A FRANCESCO BOCCIA

Emma Evangelista, Giorgia Burzachechi

In un periodo di crisi economico-sociale, da cui faticosamente il Paese sta tentando di riemergere, il sostegno prodotto da attività che si fondano sull’economia sociale e di mercato sembra essere ogni giorno più necessario. Questa teoria economica che dagli anni Sessanta si sta strati cando, ai giorni nostri si identi ca in azioni di micro nanza, rese attuabili nel contesto italiano solo grazie all’intervento di un’authority pubblica in grado di strutturare e mettere a sistema una rete di soggetti e un prodotto credibile con costi sostenibili per tutta la liera. Ciò rende la misura di quanto sia necessario che il Parlamento e il Governo si attivino per la di usione di questa attività. Per discutere di come l’attività legislativa e strutturale sia necessaria a tutti gli organi dello Stato e quanto la presenza dell’Ente nazionale per il microcredito sia funzionale per la nostra economia, abbiamo affrontato l’argomento con il presidente della Commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, economista attento alla generazione di nativi digitali.

Il Parlamento Italiano ha deciso di sostenere un Ente per il Microcredito. Qual’è a suo avviso la necessita di questo strumento?

Il fatto stesso che l’Ente Nazionale per il Microcredito sia stato costituito e fondato in una legislatura e poi sostenuto da quelle successive, dà il senso di quanto questo comune denominatore attraversi, non solo le diverse maggioranze, anche perché l’Ente Nazionale per il Microcredito, di solito, è sostenuto da maggioranza e opposizione, ma anche dalle diverse Assemblee, che rispecchiano “Italie” molto diverse. Certamente l’attuale Parlamento, fatto dai tre tronconi che caratterizzano il dibattito politico, e cioè, centrosinistra, centrodestra e Movimento 5 Stelle, è un’Assemblea diversa da quella del passato. Eppure l’Ente Nazionale per il Microcredito ha ancora il sostegno. C’è la visione comune di una nanza che vuole soddisfare il bisogno di individui che vogliono diventare imprenditori, che hanno l’ambizione di trasformare la loro piccola idea in un’impresa. Questo è un patrimonio collettivo, un sentire comune. Ed è questo che dà il senso alla missione dell’Ente Nazionale per il Microcredito.

Il microcredito non potrebbe esistere senza servizi aggiuntivi e dunque senza operatori. Lei ha parlato di un bilancio dello Stato più umano e della formazione di una classe dirigente responsabile. In questa responsabilità, rientra anche una nuova progettualità di operatori di microcredito che sappiano sostenere l’individuo non bancabile, a nché diventi un nuovo contribuente?

Ho de nito “bilancio più umano”, il bilancio dello Stato. Quest’anno nalmente è stata approvata la riforma profonda del bilancio dello Stato, su cui, con molti altri colleghi, abbiamo lavorato e allegato al DEF (il Documento di Economia e Finanza), il BES che è l’indicatore di Benessere Equo e Sostenibile. Abbiamo inserito i primi germi di una comparazione qualitativa alla vita di tutti i giorni degli italiani: oltre al bilancio, alle politiche economiche e all’impatto che le stesse hanno sul PIL, noi vorremmo, di qui a qualche anno, che questa valutazione avvenga quotidianamente. Ci piacerebbe anche comparare la capacità delle politiche pubbliche, in base al Benessere Equo e Sostenibile. Oggi è misurabile attraverso il rapporto BES dell’Istat. Ad esempio pensando all’ambiente, la presenza di CO2 nell’aria: se aumenta o diminuisce da un anno all’altro, si comprende quanto le politiche ambientali abbiano avuto successo. Se gli assegni nido diminuiscono o aumentano da un anno all’altro, si comprende quanto le politiche welfare abbiano avuto senso. Se i servizi di trasporto pubblico locale migliorano, le tari e si abbassano e i servizi incrementano, capisci quanto ha avuto senso investire nel trasporto pubblico locale. Questa valutazione qualitativa rende il bilancio dello Stato più umano, più leggibile, più comprensibile. Poi il bilancio si reggerà sempre, nella comparazione internazionale, sul confronto, sul PIL. Questo è evidente. Però penso che queste cose abbiano senso se diventano patrimonio del dibattito collettivo.

A cascata è evidente che le caratteristiche del credito incidono tanto. Il credito fatto attraverso il microcredito tocca i soggetti che normalmente non sono bancabili. Ma nel nostro Paese abbiamo oltre 10 milioni di persone che sono “unbanked”, cioè persone che nella loro vita non hanno mai aperto un conto corrente e non hanno mai avuto un conto, nemmeno per i servizi essenziali. Sono tantissimi. Al tempo dell’economia digitale, oltre 10 milioni di persone non sono mai entrate in banca e decidono deliberatamente di non entrarci. E’ di cile, non essendo mai entrati in banca, trovare risorse per nanziare un progetto. L’Ente Nazionale per il Microcredito non deve occuparsi di “unbanked”, ma occorre consentire a queste persone di vivere a braccetto con i servizi nanziari. Bisogna arrivare anche lì. Le banche spesso non ci arrivano, ma ci arriva certamente il microcredito. Il microcredito arriva dove il sistema bancario non potrebbero arrivare. Penso a chi ha avuto problemi di insolvenza, chi avuto problemi nanziari. Tutto questo credo sia una missione che bisogna portare avanti. La politica, di legge di bilancio in legge di bilancio, deve assumersi le proprie responsabilità, anche sulle caratteristiche e sulle nalità del microcredito.

Parliamo della programmazione 2020. L’Italia è in forte ritardo, i fondi europei sono una risorsa che dovremmo saper sfruttare meglio. Qual è la sua idea di nuova programmazione? Come prendere e come gestire i fondi europei?

Il problema non è tanto come prenderli. Tra il 1989 e il 2013, cioè l’inizio del primo quadro europeo di sostegno e la ne dell’ultimo, sono trascorsi 25 anni. Un quarto di secolo in cui le due Germanie di sono unite, ma negli stessi 25 anni il Mezzogiorno è rimasto staccato dal Nord del Paese. A parte alcune oasi felici: penso alla Puglia, ad alcune provincie della Campania, a Salerno. Però per il resto, la Sicilia, la Calabria, l’area metropolitana di Napoli, Caserta, scontano dei ritardi enormi. La cosa inaccettabile è che la politica, quando un ciclo di programmazione comunitaria è all’inizio, sa di essere in ritardo. Bisogna chiedersi come mai, al termine del ciclo, c’è una corsa spasmodica all’utilizzo dell’ultimo euro, ma in ne si a erma sempre di aver speso quasi tutto. L’Italia, in realtà, parte in ritardo e in ritardo nisce a causa della frammentazione delle risorse, per cui io combatto. Penso che 22 programmi regionali siano tanti come siano inutili 11 programmi nazionali. L’ho detto anche a questo Governo. Nelle prossime settimane il sottosegretario Vincenti verrà alla Camera, perché nelle ultime leggi di stabilità abbiamo ssato un punto fermo nella necessità di relazionare al Parlamento lo stato dell’arte sul periodo di programmazione, e lo faremo per il periodo 2007-2013. Mi si dice in questi giorni che abbiamo speso quasi tutto. Rispondo che non credo sia stato speso tutto. Abbiamo fatturato tutto. Uso un gergo aziendale, che non si usa nell’amministrazione pubblica, per dare un peso a quello che sto dicendo: abbiamo rendicontato a Bruxelles che abbiamo speso tutto. Ho qualche dubbio che sia stato speso tutto. E’ successo quello che è successo negli altri cicli di programmazione, dal 1989-2003, passando al 2007-2016, e cioè il Governo di turno, nei 4 o 5 mesi prima del termine del ciclo, ha fatto una chiamata alle armi e ha chiesto di rendicontare tutto quello che si poteva.

Il tema è: ha senso continuare a spendere le risorse comunitarie così? Io penso di no. Perché le risorse comunitarie hanno senso se stimolano investimenti privati: se stimolano investimenti privati aumenta l’occupazione e se aumenta l’occupazione, aumenta il PIL e forse anche il BES. Questo dipende dalla politica. Quello che posso garantire è che al Governo chiederemo conto dell’utilizzo delle risorse 2007-2013 e, d’accordo con lo stesso, cercheremo di far sì che sul periodo 2014-2020 - sul quale siamo partiti in ritardo come gran parte d’Europa, ma noi purtroppo non siamo un eccezione - si riducano le frammentazioni. Inoltre, le regioni che non sanno spendere i soldi è inutile lasciarle in prima linea. Le regioni, così come le amministrazioni centrali. Ci sono Ministeri che non sono in grado di programmare e che utilizzano le risorse comunitarie come sostitutivo delle risorse ordinarie. Questi errori macroscopici non possono essere rifatti. Ovviamente ci sono dei casi di successo, come la ricerca o la formazione, e bisognerà continuare a sostenerli. Questo è un tema che sarà a rontato nelle sedi opportune. Tanto c’è un iniziativa, penso proprio di ENM in autunno su questi temi. Quella sarà un’occasione per confrontarci tutti insieme.

Bisognerà creare una task force a livello interministeriale?

Le task force in Italia non portano mai bene. Quando si creano task force alla ne gemmano nuove sovrastrutture amministrative. Penso che su scala regionale occorra diminuire i progetti: occorrono pochi grandi progetti, chiari con tempi certi. Se le regioni non sono in grado che li spenda lo Stato. I Ministeri incapaci è bene evitare che facciano danni. Non ci si può salvare la coscienza alla ne del periodo di programmazione dicendo di aver speso alcune centinaia di milioni nei trasporti, salvo poi scoprire che abbiamo comprato dei vagoni ferroviari. Senza minimizzare l’utilità dei vagoni ferroviari, ma quelli si pagano con risorse ordinarie, perché paghiamo le imposte, oppure, se i vagoni sono di un’azienda privata, si pagano i biglietti. Con i soldi pubblici si facciano servizi: investimenti sulle università, su infrastrutture, porti, aeroporti. Si investa sulle reti. Non è possibile andare in Vietnam e trovare il Wi in strada, mentre a Roma e Milano non c’è. Se si hanno indicazioni chiare le task force non servono.

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