LE PICCOLE IMPRESE FUORI DALLA CRISI. I DATI DEL RAPPORTO “IMPRENDITORIA IN BREVE” DELL'OCSE

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Tiziana Lang | ricercatrice esperta politiche del mercato del lavoro, ANPAL

È uscito a inizio ottobre il volume dell’OCSE “Imprenditoria in breve – 2017” di
presentazione delle tendenze più recenti nel settore della piccola imprenditoria, delle
dinamiche di nati-mortalità di impresa e del fenomeno crescente del lavoro autonomo,
quest’ultimo con un approfondimento dedicato al fenomeno della gig-economy e
all’influenza delle piattaforme digitali sulle auto e micro-imprese.
Secondo il rapporto, in quasi tutti i Paesi di cui sono disponibili i dati continuano ad
aumentare le nuove imprese e in alcuni territori si sono già recuperati i livelli precrisi.
È il settore dei servizi a guidare la ripresa essendo stato colpito in misura minore
rispetto al comparto produttivo; il primo mostra, infatti, divari di produttività inferiori
al secondo.
Laddove il trend discendente degli avvii d’impresa non si è interrotto sembrerebbero
essere intervenuti altri fattori, come in Italia e in Germania, dove negli ultimi anni al
calo delle nuove imprese in “auto-impiego” è corrisposto un aumento di altre forme
d’impresa.

Migliora anche l’accesso al credito mentre diminuiscono i fallimenti. Anche in Italia,
dove dall’inizio del 2017 si è registrata un’inversione di tendenza dei fallimenti
rispetto agli anni più bui della crisi economica.
Per quanto concerne il lavoro autonomo o auto-imprenditoriale2 l’evoluzione ha un
trend diverso da quello osservato negli avviamenti e fallimenti. Continuano, infatti, a
diminuire i tassi di auto-impiego di molti Paesi, tra i quali la Germania e l’Italia, anche
se il numero di lavoratori autonomi rimane stabile. In altri Paesi invece, i tassi di autoimpiego
e il numero dei lavoratori autonomi nel 2016 erano ben al di sopra di quelli
attuali.

Fig. 1 – Fallimenti d’impresa (tutte le forme legali), Q1 2007- Q1 2017

La tendenza comune nei Paesi osservati è stato l’aumento del lavoro autonomo part
time e della quota di quest’ultimo in seno al cluster del lavoro autonomo. In molti
Paesi dell’OCSE, nell’ultimo decennio l’aumento del lavoro autonomo a tempo parziale
è stato molto importante in parte riflettendo le nuove occasioni offerte dalla gigeconomy
nei diversi paesi (OCSE, 2016). Infatti, il numero effettivo degli individui
impegnati nella gig-economy è probabilmente superiore poiché questi includono non
solo coloro che si definiscono lavoratori autonomi part time, ma anche i lavoratori
dipendenti a tempo indeterminato che svolgono anche un’attività autonoma per
integrare il reddito.
L’aumento dei lavoratori della gig-economy imporrebbe una riflessione sulla scelta dei
tassi/livelli di auto-impiego quale proxy per la misurazione dei livelli di imprenditorialità
di un Paese. I lavoratori autonomi della gig-economy sono da considerare imprenditori
anche quando sono impegnati in attività di sussistenza o a basso tasso di crescita
o, ancora, quando l’auto-impiego è solo un ripiego in assenza di occasioni di lavoro
dipendente? In molti casi i lavoratori delle piattaforme digitali sono assimilabili ai
lavoratori dipendenti tranne che per il fatto di non avere garantiti tutti i diritti e i benefici

Figura 2. Auto-impiego

tipici del lavoro dipendenti. In Italia, il primo tentativo di estendere le protezioni sociali
dei lavoratori dipendenti ai lavoratori autonomi non imprenditori è contenuto nel c.d.
Jobs Act del lavoro autonomo (Legge 22 maggio 2017, n.81 “Misure per la tutela del
lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile
nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”).
Un recente studio inglese descrive la gig-economy come “la tendenza ad utilizzare
piattaforme online per trovare piccoli posti di lavoro, talvolta svolti immediatamente
dopo la richiesta (in sostanza, on demand)” (Balaram et al., 2017). Si tratta di posti di
lavoro molto flessibili che offrono l’opportunità di entrare nel mondo del lavoro a
chi in precedenza ne era escluso e che ormai coprono una vasta gamma di servizi.
Anche la quantificazione del fenomeno è difficile, per la quasi totale assenza di dati
sul lavoro nella gig-economy nei Paesi OCSE. Alcune stime parlano di oltre 1 milione di
gig-workers nel solo Regno Unito, di cui solo il 12% è impegnato tutti i giorni e l’8%
per più di 35 ore a settimana.
Il legame tra gig-economy e attività d’impresa non è scontato. Né è possibile detrarre
dal computo delle micro-imprese tutte le attività autonome nate grazie alla gigeconomy.
Infatti, coloro che partecipano alla gig-economy possono rispondere alle
caratteristiche del piccolo imprenditore, come nel caso degli artigiani che utilizzano
le piattaforme della sharing economy (economia condivisa) per mettere in vendita i
propri manufatti (gioielli, cartoline, accessori artigianali, ecc.) in tutto il mondo; oppure,
possono rientrare nel computo dei lavoratori dipendenti nel caso in cui sono legati da
una fornitura di servizi ad un’unica impresa (con tratti molto simili al lavoro standard).
Al contempo la flessibilità dell’offerta di lavoro nella gig-economy contrasta con le
caratteristiche del lavoro dipendente salariato e può effettivamente servire ai neoimprenditori
a far decollare le proprie start-up continuando a mantenersi.
Secondo l’OCSE in alcuni casi la gig-economy avrebbe addirittura danneggiato
l’attività imprenditoriale. Burtch et al. (2016) hanno per esempio osservato come
l’ingresso di Uber e Postmates nei mercati locali abbia fortemente colpito lo sviluppo

delle imprese locali che operavano nei relativi servizi (trasporto e consegna a
domicilio). OCSE afferma, inoltre, che le piattaforme della gig-economy possono essere
considerate come sostituti dell’imprenditorialità, di bassa qualità, e non come soggetto
complementare ad imprese di elevata qualità. Eppure, lo sviluppo delle tecnologie
digitali e delle piattaforme ha offerto alle micro-imprese l’occasione di penetrare nei
mercati internazionali come mai accaduto prima. Dati recenti della Future of Business
Survey (Facebook-OECD-World Bank, 2017) dimostrano che anche gli imprenditori “di
se stessi” (cioè i lavoratori autonomi senza dipendenti), nonostante la dimensione
estremamente ridotta (micro) della propria attività d’impresa, possono investire
nell’export quale attività principale proprio grazie al sostegno offerto dagli strumenti
digitali. Rispetto al passato, infatti, le micro e piccole imprese dispongono oggi di un
insieme di strumenti digitali che consentono loro di sfruttare le connessioni globali e
di commercializzare direttamente i propri prodotti presso i potenziali clienti in tutto il
mondo, superando a loro volta barriere commerciali che gravano con maggiore peso
su aziende più piccole e con minori economie di scala.
Se questo è lo scenario al 2017 appare opportuno richiamare l’attenzione dei soggetti
deputati sul come garantire continuità di risorse finanziarie alle micro-imprese e ai
lavoratori autonomi micro-imprenditori che intendono partecipare a pieno titolo
alla rivoluzione digitale del mercato dei servizi. Gli strumenti microfinanziari e il
credito possono avere un ruolo importante sia per l’aggiornamento delle competenze
digitali di lavoratori autonomi e microimprenditori, sia per l’adeguamento della
strumentazione tecnologica necessari ad ampliare il raggio d’azione delle proprie
attività imprenditoriali e commerciali.

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