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DALLA SOLIDARIETÀ ALLA SUSSIDIARIETÀ, UN ESCURSUS TRA LE ENCICLICHE CHE AFFRONTANO IL TEMA DELLA DIGNITÀ DEL LAVORO

< >FABIO ZAVATTARO

< >giornalista vaticanista

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Nel lontano 1834 il visconte di Bargemont, Jean Paul Alban de Villeneuve, dava alle stampe un volume dal titolo Èconomie politique chrétienne (Economia politica cristiana, o ricerche sulla natura e le cause del pauperismo in Francia e in Europa, e sui mezzi per alleviarle e prevenirle), dove scriveva che “bisogna raccomandare la frugalità, la sobrietà, ma soprattutto la religione: il resto non è che frode e menzogna”. Non di catechismo si trattava, ovviamente, ma di un trattato di economia che, pur legato a tempi difficili a cavallo delle rivoluzioni francesi del 1779 e del 1848, voleva essere occasione per avviare una riflessione su economia e mercato, anche se viziata, in un certo senso, da una lettura-risposta al credo dei rivoluzionari. Infatti, nelle riflessioni dei primi cattolici sociali il cattivo funzionamento del sistema economico aveva una causa nella non buona moralità dell’imprenditore e, dunque, solo la religione poteva contribuire a modificare le regole del gioco; nello stesso tempo, vi era una certa consapevolezza che le teorie economiche liberali avrebbero potuto subire blocchi e intoppi proprio a causa della mancanza di un’etica dell’economia. Ecco, dunque, l’importanza di sottolineare un legame con la fede.

Il mondo cattolico ha da sempre cercato di mettere in agenda i temi di una economia attenta all’uomo, ai più poveri, alla giustizia sociale. Di denaro si parla nei Vangeli: l’obolo della vedova, il cui valore supera qualsiasi donazione compiuta da persone benestanti; il compenso che il padrone della vigna consegna ai suoi lavoranti, uguale per tutti nonostante le effettive ore di lavoro; la parabola dei talenti. Con il denaro facciamo i conti quotidianamente, nel lavoro, nei bisogni personali e della famiglia, nella sicurezza, nel tempo libero. Importante è l’atteggiamento, cioè come ci rapportiamo nei confronti del denaro, e a cosa diamo più importanza: all’essere o all’avere; al donare o all’egoismo; ai valori materiali o a quelli spirituali. Luca, nel suo Vangelo, mette in guardia da una “dipendenza” e scrive che non si può servire due padroni, “perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona”.

Forse non prestiamo troppa attenzione, ma il denaro è ormai diventato un elemento che regola anche i rapporti tra esseri umani, stabilisce gerarchie che nulla hanno a che vedere con i reali bisogni delle persone. Anzi, più le persone sono in difficoltà, più il denaro segna la distanza: chi non ha mai sentito almeno una volta il rapporto tra i pochi che hanno tutto, il 20 per cento, e i molti che non possiedono quasi nulla, l’80 per cento. Pensate anche al gesto dell’elemosina che, in modo più o meno frequente, pratichiamo, e quanto esprime distanza quel dare nei confronti di colui che riceve.

Si apre qui una riflessione sul tema della solidarietà, sulla capacità di sostenere le economie più deboli, sull’offrire credito a chi ha un progetto da realizzare, una situazione da risolvere. Una strada che si è sviluppata nel tempo, attraverso il contributo di economisti e studiosi della materia; ma anche i Papi hanno cercato di offrire una lettura attenta alla persona. Il primo passo, una prima concreta lettura, risale alla fine del XIX, con Leone XIII che ha posto l’accento sul tema del mondo del lavoro, dei lavoratori e del giusto salario. Nella sua enciclica, Rerum Novarum, scriveva sull’opportunità di “venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo”. La preoccupazione di Papa Pecci nasceva dal presupposto della scomparsa delle corporazioni di arti e mestieri, “senza che nulla le abbia sostituite, e un progressivo allontanamento di istituzioni e leggi dallo spirito cristiano”. Gli operai venivano così a trovarsi “soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile”.

La società, in quegli anni di fine secolo, viveva la sua rivoluzione industriale, e le prospettive per molti non erano certo felici. Nella memoria, le immagini del film, intelligente, interpretato da Charlie Chaplin dal titolo Tempi moderni: la catena di montaggio, l’operaio reso più simile a un ingranaggio di una complessa macchina, piuttosto che uomo con la sua dignità. E non è un caso che il lavoratore Charlot finisca nel girare all’interno del “mostro” tra le ruote dentate, proprio come un ingranaggio della macchina.

Per Leone XIII i lavoratori non sono chiamati a vivere la condizione di “operai schiavi”, ma devono vedere rispettata la dignità della loro persona: “agli occhi della ragione e della fede - scrive il Papa - il lavoro non degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con l’opera propria”. Più di cento anni dopo un altro Papa, Francesco, a Cagliari ricorderà che “dove non c’è lavoro manca la dignità”. Un problema non solo italiano ma europeo, “conseguenza di una scelta mondiale, di un sistema economico che porta a questa tragedia; un sistema economico che ha al centro un idolo, che si chiama denaro”. Papa Pecci, nella sua enciclica, sottolineava che “veramente indegno dell’uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze”. E ancora: “si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio”. Due Papi, epoche diverse ma con una simile prospettiva: l’uomo al primo posto, la sua dignità e la sua capacità lavorativa.

Quaranta anni più tardi, maggio 1931, un altro Papa, Pio XI, affronterà il tema del lavoro e della dignità del lavoratore, in un documento dal titolo Quadrigesimo anno, affermando che la Rerum Novarum di Leone XIII “si è dimostrata come la Magna Charta, sulla quale deve posare tutta l’attività cristiana del campo sociale come sul proprio fondamento. Coloro poi che mostrano di fare poco conto di quell’enciclica e della sua commemorazione, bisogna ben dire che, o bestemmiano quel che non sanno, o non capiscono quello di cui hanno solo una

superficiale cognizione, o se la capiscono meritano d’essere solennemente tacciati d’ingiustizia e di ingratitudine”.

Papi, dunque, che hanno voluto mettere l’accento sul valore dell’attività lavorativa dell’uomo, scrivendo pagine importanti di quella che sarà poi la Dottrina Sociale della Chiesa. Di più, Papa Ratti, citando il suo predecessore, scriveva che la “pubblica ricchezza” è prodotta “dal lavoro degli operai. Non vediamo noi infatti con gli occhi nostri, come l’ingente somma dei beni, di cui è fatta la ricchezza degli uomini, esce prodotta dalle mani degli operai, le quali o lavorano da sole, o mirabilmente moltiplicano la loro efficienza valendosi di strumenti, ossia di macchine? Non v’è anzi chi ignori come nessun popolo mai dalla penuria e dall’indigenza sia arrivato a una migliore o più alta fortuna, se non mediante un grande lavoro compiuto insieme da tutti quelli del paese, tanto da coloro che dirigono, quanto da coloro che eseguiscono”. Si potrebbe inoltre ricordare che scopo dell’impresa, come è scritto nella Centesimus Annus, “non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini”.

Non un numero, dunque, il lavoratore, ricordava con forza Papa Francesco a Genova, sempre in quel primo viaggio del 2013, ma persona titolare di dignità. Così parlando all’Ilva nel capoluogo ligure, il 27 maggio 2017, Francesco ricordava agli imprenditori che “è importante riconoscere le virtù dei lavoratori e delle lavoratrici. Il loro bisogno - dei lavoratori e delle lavoratrici - è il bisogno di fare il lavoro bene perché il lavoro va fatto bene. A volte si pensa che un lavoratore lavori bene solo perché è pagato: questa è una grave disistima dei lavoratori e del lavoro, perché nega la dignità del lavoro, che inizia proprio nel lavorare bene per dignità, per onore”.

Ancora più esplicito Francesco nell’intervista concessa al Sole 24 ore, quando dice che “dietro ogni attività c’è una persona umana. Essa può rimanere anonima, ma non esiste attività che non abbia origine dall’uomo. L ’attuale centralità dell’attività finanziaria rispetto all’economia reale non è casuale: dietro a ciò c’è la scelta di qualcuno che pensa, sbagliando, che i soldi si fanno con i soldi. I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro. È il lavoro che conferisce la dignità all’uomo non il denaro. La disoccupazione che interessa diversi Paesi europei è la conseguenza di un sistema economico che non è più capace di creare lavoro, perché ha messo al centro un idolo, che si chiama denaro”.

Di particolare interesse, infine, il recente documento della Dottrina della fede e del Servizio dello sviluppo umano integrale, dal titolo Oeconomicae et pecuniariae questiones, considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario, del 17 maggio 2018. In questo documento troviamo che viene chiesto “agli operatori competenti e responsabili” di elaborare “nuove forme di economia e finanza, le cui prassi e regole siano rivolte al progresso del bene comune e rispettose della dignità umana, nel sicuro solco offerto dall’insegnamento sociale della Chiesa”. Ancora più chiaro più avanti, il testo afferma che sono valide quelle strategie economiche “che mirino anzitutto alla qualità globale della vita raggiunta, prima ancora che all’accrescimento indiscriminato dei profitti, ad un benessere che se vuol essere tale è sempre integrale, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Nessun profitto è infatti legittimo quando vengono meno l’orizzonte della promozione integrale della persona umana, della destinazione universale dei beni e dell’opzione preferenziale per i poveri. […] Per tale motivo, ogni progresso del sistema economico non può considerarsi tale se misurato solo su parametri di quantità e di efficacia nel produrre profitto, ma va commisurato anche sulla base della qualità della vita che produce e dell’estensione sociale del benessere che diffonde, un benessere che non si può limitare solo ai suoi aspetti materiali”.

Nella storia della chiesa, Karol Wojtyla è stato il primo Papa operaio che ha conosciuto la fatica del lavoro in una cava di pietra. Il suo Pontificato non aveva ancora compiuto il terzo anno quando consegnava al mondo la sua enciclica sul lavoro, Laborem Exercens. Per San Giovanni Paolo II “il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso, il suo soggetto”. Il lavoro umano, scriveva nell’enciclica, “è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo”.

Novanta anni dopo la Rerum Novarum di Leone XIII, la prospettiva del mondo del lavoro è molto cambiata e il primo Papa venuto dall’est affrontava la questione delle innovazioni nel processo industriale. Non è vero dire che la macchina lavora e l’uomo solamente attende ad essa; alla luce di questa affermazione scriveva che è lo stesso sviluppo industriale che “pone la base per riproporre in modo nuovo il problema del lavoro umano. Sia la prima industrializzazione che ha creato la cosiddetta questione operaia, sia i successivi cambiamenti industriali, dimostrano eloquentemente che, anche nell’epoca del lavoro sempre più meccanizzato, il soggetto proprio del lavoro rimane l’uomo”.

Infine, non sfuggiva, a San Giovanni Paolo II, il fatto che il capitale, “come l’insieme dei mezzi di produzione, è al tempo stesso il prodotto del lavoro di generazioni, allora è parimente vero che esso si crea incessantemente grazie al lavoro effettuato con l’aiuto di quest’insieme dei mezzi di produzione, che appaiono come un grande banco di lavoro, al quale s’impegna, giorno per giorno, la presente generazione dei lavoratori”.

Francesco, nella sua riflessione sull’economia e sul lavoro, ha toccato anche il tema del denaro che “governa”, diceva ai giornalisti nel volo di ritorno dalla Polonia il 31 luglio 2016, “con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai”. Sistema terroristico, disse. Non meno forte il pensiero di Pio XI, che manifestò preoccupazione, quasi novanta anni fa, nella sua enciclica Quadrigesimo anno, per l’affermarsi di una dittatura economica globale, che chiamò “imperialismo internazionale del denaro”. E Papa Paolo VI, nella Lettera apostolica Octogesima Adveniens, denunciò nel 1971 la “nuova forma abusiva di dominio economico sul piano sociale, culturale e anche politico”.

Per Francesco, dunque, vi è “un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità. Di questo terrorismo di base si alimentano i terrorismi derivati come il narcoterrorismo, il terrorismo di stato e quello che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso. Ma nessun popolo, nessuna religione è terrorista! È vero, ci sono piccoli gruppi fondamentalisti da ogni parte. Ma il terrorismo inizia quando hai cacciato via la meraviglia del creato, l’uomo e la donna, e hai messo lì il denaro”.

Così incontrando in Vaticano i partecipanti al terzo incontro dei Movimenti popolari, svoltosi in Vaticano il 5 novembre 2016, e commentando il documento da loro elaborato a Santa Cruz de la Sierra, che metteva al centro della riflessione la parola cambiamento, Papa Francesco disse: “la Chiesa e i profeti dicono, da millenni, quello che tanto scandalizza che lo ripeta il Papa in questo tempo in cui tutto ciò raggiunge espressioni inedite. Tutta la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei miei predecessori si ribella contro l’idolo denaro che regna invece di servire, tiranneggia e terrorizza l’umanità. Nessuna tirannia si sostiene senza sfruttare le nostre paure”.

La paura, diceva ancora il Papa, viene alimentata, manipolata, “perché la paura, oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e alla fine ci rende crudeli”.

La misericordia “è il miglior antidoto contro la paura”, aggiungeva Francesco, che così continuava: “vi siete impegnati ad abbracciare un progetto di vita che respinga il consumismo e recuperi la solidarietà, l’amore tra di noi e il rispetto per la natura come valori essenziali. È la felicità di vivere bene ciò che voi reclamate, la vita buona, e non quell’ideale egoista che ingannevolmente inverte le parole e propone la bella vita”.

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