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RIPARTI DA TE! CON IL MICROCREDITO DI LIBERTA’
RIPARTI DA TE! CON IL MICROCREDITO DI LIBERTA’
Daniela Brancati - Giornalista
Ho sempre detestato il colore rosa-bambina. Quel colore così intensamente melenso che nessuna donna adulta oserebbe mai indossarlo, tranne che a carnevale si travesta da confetto. Lo detestavo ma non sapevo perché.
Era il 1973. Nell’aria c’era un fermento, un’inquietudine positiva, a tratti allegra e spensierata e a tratti polemica e dura. Chiamatelo se volete femminismo. Spesso si trattava solamente di un naturale istinto di affermazione, il desiderio di fare qualcosa nella vita. Combattute fra i consigli dei genitori “la famiglia prima di tutto” e la voglia di assecondare le nostre inclinazioni, esattamente come veniva consentito ai maschi di casa.
Poi, uscì Dalla parte delle bambine, di Elena Gianini Belotti. Un libro rivelatore, che razionalizzava quello che inconsciamente avevamo sempre saputo: in parole povere, il potere di un genere sull’altro si poggia su una discriminazione culturale, che porta con sé quella economica e infine sociale.
Fu allora che capii. Il rosa non mi piaceva perché era il simbolo della rigidità dei generi fin dalla culla: rosa per lei, azzurro per lui che, da neonato azzurro, diventerà poi il principe azzurro. Il giovane uomo salvifico, che trarrà d’impaccio le donne da ogni situazione, poiché da sole… non ce la possono fare.
Non pretendo di riassumere qui il contenuto di un libro che secondo me dovrebbe essere consigliato a ogni coppia di aspiranti genitori. Voglio solo ricordarne il senso: la discriminazione nasce innanzitutto da un fattore culturale che assegna a ogni genere un suo ruolo nella società. Sulla persistenza di questi ruoli si basa il potere di un genere sull’altro.
Negli ultimi decenni questo potere è stato scardinato in parte, e in parte addirittura sovvertito. Il famoso glass ceiling, l’invisibile ma solido tetto di cristallo che impedisce alle donne la scalata sociale, è stato rotto in più parti e ormai in moltissimi lavori le donne sono entrate in massa. Anche se alle prime crisi purtroppo sono le prime a esserne espulse in massa.1 Non ancora altrettanto corposo il numero delle donne nelle sfere dirigenziali e nei luoghi del potere. Ma gli strumenti legislativi per ottenere la parità ci sono, dunque ora si vada avanti in base al merito, e vinca il migliore. Che, come insegna l’esperienza, non è solamente il più preparato tecnicamente, ma anche quello che sa tessere più trame, relazioni, incrociare interessi legittimi non verbalizzati. Chi sa esercitare leadership. In un mio vecchissimo scritto2 spiegavo ironicamente che il principale tappo alla carriera di molte donne era di non frequentare i corridoi e... i bagni maschili. Vale a dire i luoghi dove si intrecciano battute che favoriscono il cameratismo, relazioni meno formali che al momento giusto spingeranno il leader a dire ‘scelgo lui’. Fuori di battuta, le relazioni sono importanti quasi quanto le capacità, ma le donne non investono molto in questo perché a fine turno scappano a casa, sentendo il lavoro di cura come “il proprio vero lavoro”, quello per cui il giusto salario è il placare finalmente il senso di colpa. Accompagnare i figli allo sport, seguire l’anziano, assicurarsi il frigo pieno. Quello è l’impegno morale inderogabile. Perché quello ci si aspetta da loro. E non è un caso che molte donne fanno figli sempre più tardi, perché – a queste condizioni - ritengono inconciliabile maternità e lavoro. Nessuno ha mai chiesto a un uomo se la sua carriera sia conciliabile con la paternità. Torniamo sempre al fattore culturale.
Spesso la famiglia è il luogo dove si annidano sacche di maggiore resistenza al cambiamento. Molto meno fra le coppie giovani, per fortuna. Se vi capita di rubare conversazioni al bar o negli uffici, sentirete l’impiegata che dice “mio marito mi aiuta tantissimo”, ovvero il ruolo della cura famigliare è mio, lui cortesemente si concede. Laddove il percorso di parità indica una sola strada: condividere i lavori di cura.
Questo modello culturale, questa resistenza ad accettare un ruolo sociale diverso per la donna; in definitiva questa arretratezza culturale che fa vivere a un uomo ogni conquista femminile come una propria sconfitta, è l’humus che nutre anche – fortunatamente solo in casi estremi - la violenza. Secondo l’ultima nota Istat sulle vittime di omicidio, nel 2021 le donne uccise in una relazione di coppia o in famiglia sono il 45,9% del totale. Di queste il 58,8% delle donne è vittima di un partner o ex partner. Fra i partner assassini nel 77,8% dei casi si tratta del marito, mentre tra gli ex prevalgono ex conviventi ed ex fidanzati. Il 25,2% delle donne è invece vittima di un altro parente, il 5% di un conoscente e il 10,9% di uno sconosciuto.
Qualcuno obietta che non si può ricondurre tutto a una mera questione di potere di un genere sull’altro. Forse è vero, ma non cambia la sostanza dei fatti, che impone di riflettere sulle modalità con le quali di solito si realizza la violenza famigliare, fino all’estremo e definitivo femminicidio.
Il primo passo è generalmente di natura psicologica, l’uomo violento esercita una fortissima pressione sulla moglie/partner perché lasci il lavoro, allontani parenti e amici, si dedichi insomma completamente a un mondo che abbia lui come centro.
Poi mina la sua autostima, la fa sentire inferiore e impotente, e normalmente solo quando lei è psicologicamente assoggettata a lui, inizia la violenza fisica. Ed è logico, perché se la donna avesse mantenuto la propria autonomia economica, psicologica, relazionale, al primo cenno di violenza avrebbe rotto una relazione sbagliata, tossica, pericolosa. Senza il potere assoluto di lui, lei si ribellerebbe.
Così invece diventa vittima. La scommessa per l’intera società è che uscire dallo status anche psicologico di vittime, si può. Far loro imboccare il percorso inverso, si può, puntando sul recupero di autostima e autonomia psicologica, relazionale, economica. Della violenza economica si parla poco, perché ovviamente l’allarme sociale prevalente è per la violenza fisica. Eppure, è uno dei fattori fondanti della violenza. Impedire a una donna la gestione autonoma di risorse proprie, vuol dire esercitare una violenza inizialmente subdola e poi sempre più palese. Vuol dire inibire piccoli gesti del quotidiano: la scelta autonoma di un capo di vestiario, di un parrucchiere, di una sosta al bar con le amiche, un regalino per i figli. Vuole dire anche levarle la possibilità di sottrarsi ai soprusi e diventare ogni giorno più sottomessa. Perfino costringendola a firmare documenti che la impegnano finanziariamente e la renderanno insolvente davanti alle banche, mentre il partner resta “pulito” e impunito.
Per questo, alla fine di un intenso percorso di recupero, un aiuto verso l’autonomia economica è determinante.
Sul superamento della violenza economica vuole agire il Microcredito di libertà. Si tratta di un insieme di misure predisposto dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio con altri partner, fra i quali l’Ente Nazionale per il Microcredito (vedi box).
L’Ente Nazionale per il Microcredito è stato incaricato di coordinare il progetto, ma è ben consapevole di volere e poterlo fare solo con la collaborazione del maggior numero di soggetti – associazioni femminili, centri antiviolenza, operatori del sociale - che già meritoriamente e coraggiosamente operano in tal senso. Così come con la necessaria collaborazione di istituti di credito che hanno risposto numerosi al nostro appello, accettando di assumersi un compito difficile, assai diverso dalle loro prassi consolidate, in nome di quella responsabilità sociale che sempre più si va diffondendo. Misure tutte tese alla ricostruzione di un percorso di vita basato sulla fiducia in sé stesse, sull’idea di potercela fare puntando sulle proprie capacità, aiutate, certamente, ma autonome. Una fortunata campagna che l’ENM ha realizzato anni fa diceva alle donne, per invitarle a usufruire del microcredito: “Ricomincia da te”.
Vi propongo la testimonianza di una donna di origine marocchina, che con due figli viveva a Brescia da molti anni. Trovata la forza di ribellarsi al marito violento e denunciarlo, aveva una vita difficile. A un certo punto, però concluse: “Per molti anni ho pensato e sperato che arrivasse un principe azzurro a salvarmi. Ora l’ho capito: il mio principe azzurro, il mio salvatore sono io. Prenderò in mano il mio destino e ce la farò”. Per ogni donna che dice ce la farò, noi dobbiamo esserci, con la formazione, con un prestito per mettere su casa, con l’aiuto a mettere su la propria piccola azienda.
La libertà economica è il primo gradino verso il pieno godimento della propria autonomia. Il microcredito di libertà è un piccolo ma significativo aiuto per le donne uscite dalla violenza.
NOTE
1 Vedi dati Istat pre e post Covid
2 In La disparità virtuale, donne e mass media a cura di Gioia di Cristofaro Longo, Armando editore 1995, frutto del lavoro al Tavolo delle giornaliste presso la Presidenza del Consiglio voluto da Tina Anselmi