Pari opportunità, una conquista quotidiana che si affronta con il cambiamento culturale Intervista alla Ministra Eugenia Roccella

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Pari opportunità, una conquista quotidiana che si affronta con il cambiamento culturale

Intervista alla Ministra Eugenia Roccella

Emma Evangelista

Nel Terzo millennio ci viene proposta in Italia la visione di una donna divisa tra l’essere eroina di battaglie sociali ed economiche e purtroppo, l’essere ancora succube di logiche che la relegano ad uno stato di inattività che la rendono ancora vittima di un sistema. Il modo migliore per affrontare le differenze di genere, di salario, di opportunità e che permettono lo sviluppo integrale della persona e favorire l'accesso ai servizi e alla cultura. Lo sviluppo economico e sociale di una rete, dipende dal sostegno, dalle differenze e da un equilibrio tra i ruoli e non tra i generi. Se esistono delle opportunità economiche e finanziarie che possono essere utilizzate per favorire questa logica, per uno sviluppo del Sistema Paese, è necessario promuoverle e integrarle come propone il Ministero delle Pari Opportunità. A questo proposito abbiamo voluto ascoltare la voce del Ministro, Eugenia Roccella, che nelle sue considerazioni non vede mai la donna come vittima, ma come chiave del progresso in un percorso di parità che si costruisce quotidianamente attraverso la formazione e la promozione culturale.

Il Ministero delle Pari Opportunità sta sostenendo molte progettualità per il superamento del gender gap, tra queste la creazione della certificazione di genere delle imprese (intervento previsto nella missione 5 del PNRR Inclusione e Coesione a titolarità del Dipartimento per le pari opportunità, per il valore di 10 milioni di euro) quali sono gli obiettivi concreti di questa misura?

Promuovere l’idea di parità, la cultura della partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Nel numero e nel trattamento. Sul piano concreto e sul piano della consapevolezza diffusa. E inoltre contribuire, anche per questa strada, a combattere la denatalità. Se vogliamo uscire da quello che io chiamo ormai ‘inferno demografico’, bisogna infatti restituire valore sociale alla maternità. Riconoscere cioè che mettere al mondo un figlio non è un fatto privato ma qualcosa che arricchisce tutta la società perché le dà un futuro. E poiché l’impegno più gravoso – per esempio la gravidanza e l’allattamento - è in capo alle madri, bisogna mettere le donne nelle condizioni di non essere costrette a scegliere tra la maternità e la propria realizzazione professionale. Attribuire degli sgravi e dei riconoscimenti alle aziende che rispettino degli standard in tema di occupazione femminile e di trattamento delle madri lavoratrici è un incentivo utile ma soprattutto un segnale di un cambio culturale.

Signor Ministro, come donna e come parlamentare di lungo corso, cosa pensa delle quote rosa?

Non credo nelle quote come strumento strutturale. Possono però essere utili come mezzo ‘ortopedico’, per indurre dei processi. E non sempre anche in questo senso funzionano. Il loro successo si misura nel momento in cui vengono meno: se la presenza femminile resta più o meno invariata, l’ortopedia ha funzionato. È il caso della legge sulle quote di genere nei cda, che ha aiutato ad affermare come normalità la presenza di donne negli organismi societari, anche oltre la durata degli effetti di legge. Non sempre però il meccanismo funziona, e in diversi ambiti anche in presenza di quote si cerca spesso il modo per aggirarle. In politica, ad esempio, se non vogliamo essere ipocriti dobbiamo riconoscere che non sono una panacea. E credo non sia un caso che il primo Presidente del Consiglio donna della storia d’Italia venga da un percorso che non ha nulla a che vedere con tutto questo.

Esattamente 10 anni fa, l’8 marzo 2013, Christine Lagarde, allora direttore del Fondo Monetario Internazionale, diffuse un video messaggio in cui celebrava la giornata internazionale della donna e tutti coloro che cercavano un mondo più giusto in cui tutte le donne avessero diritto all’istruzione, alla sicurezza e a una vita dignitosa. La Lagarde in questi dieci anni ha ricoperto incarichi di prestigio e potere, continuando a diffondere messaggi sull’importanza di superare il gender gap attraverso la formazione delle donne. Dal suo privilegiato punto di vista cosa è cambiato realmente da allora? Cosa effettivamente può cambiare anche attraverso i programmi di sviluppo del DPO e delle linee di intervento EU?

Io credo che sia necessario per le donne uscire dalla sindrome del ‘panda’. Spesso si parla delle donne come di una categoria, di una minoranza, di una ‘specie protetta’. Le donne sono la metà dell’umanità, non un suo segmento. E aggiungo che il concetto di pari opportunità per me non significa rinunciare alle specificità e tantomeno annullare le differenze. Il traguardo in ogni caso è ancora lontano, anche se passi importanti sono stati compiuti e tante brecce sono state aperte. La formazione in questo percorso gioca un ruolo cruciale. Sia per l’affermazione in ambiti – si pensi al mondo scientifico - nei quali la presenza delle donne è in costante aumento ma si registrano ancora notevoli gap, ad esempio nelle prospettive di carriera. Sia per la prevenzione di forme sempre più diffuse di violenza come quella economica, che si contrasta anche con la preparazione. Credo che i programmi di sviluppo del Dipartimento possano dare un forte impulso come pure alcuni indirizzi in ambito europeo, come gli obiettivi del Pnrr. A patto che, ed è un rischio che l’Europa talvolta corre, non ci si lasci andare a derive ideologiche non sempre utili e a volte addirittura fuorvianti.

La donna del terzo millennio è ancora succube di violenza economica. Quali secondo lei le strade percorribili per una formazione che sia utile a rompere i lacci di questa barbarie?

Come accennavo serve aiutare a diffondere una preparazione di base, soprattutto nelle aree del Paese dove il tasso di scolarizzazione, in particolare nella fascia adulta, è più zoppicante. Ma servono anche interventi concreti. Abbiamo avviato una ricognizione molto approfondita perché si tratta di un tema delicato, che chiama in causa aspetti importanti dell’autonomia delle scelte personali. Ma le forme di violenza economica, che spesso accompagna e predispone la violenza fisica e psicologica, non di rado hanno risvolti molto pragmatici, come ad esempio quello della piena disponibilità e gestione del proprio salario o della propria pensione o della titolarità di un conto corrente proprio. Non si può pensare di agire con l’accetta ma un intervento serve. A sostegno delle donne vittime di violenza, ma anche sul fronte preventivo. La violenza economica è infatti meno evidente e clamorosa di altre forme di sopruso, ma è molto pericolosa perché toglie alle vittime l’autonomia nella determinazione della propria vita.

Il microcredito di libertà è un progetto di ampio respiro per la inclusione e il sostegno delle vittime di abuso che prevede una collaborazione fattiva dell’Ente Nazionale per il Microcredito e il sostegno del DPO per aiutare le donne a ripartire da sé stesse, cosa pensa di questo progetto?

Ne penso tutto il bene possibile. È un progetto a cui tengo molto perché va nella direzione che ritengo giusta per aiutare davvero le donne vittime di abusi o di violenza, che è quella di restituire alle donne fiducia in sé stesse e nelle proprie capacità. Lo status di vittime non significa che le donne non siano capaci di ribellarsi, di reagire, di riprendere in mano la propria vita. E il microcredito serve proprio a questo: a dare loro la possibilità di svincolarsi da una condizione di sudditanza anche economica. Spesso una delle maggiori difficoltà alle quali vanno incontro le donne vittime di violenza è quella di ricostruire una propria vita economica, professionale; quella di avere margini sufficienti per poter intraprendere un’attività e riedificare sé stesse anche attraverso la realizzazione e l’autosufficienza. Questo progetto non consiste dunque solo in un sostegno o in un aiuto economico, ma permette anche alle donne di ricominciare da se stesse e dai propri talenti.

La microfinanza e il microcredito in particolare nascono proprio dall’esigenza di riscatto sociale delle donne, giudicate nella restituzione più affidabili e concrete. Cosa pensa di questo strumento valorizzato dall’Ente Nazionale per il Microcredito con la ‘via italiana alla microfinanza’ che assiste i beneficiari e li aiuta a creare la propria impresa con la garanzia dello Stato?

Strumenti di garanzia creditizia capillari, a misura di persona, caratterizzati da finalità sociali, sono molto importanti soprattutto per le donne, che storicamente scontano una maggiore difficoltà di accesso al credito. È il contrario di un assistenzialismo fine a sé stesso che spesso perpetua le condizioni di difficoltà anziché aiutare a superarle. Anche su questo fronte il Dipartimento per le Pari Opportunità è attivo, e ad esempio è stata appena aumentata di 6,5 milioni di euro la dotazione della sezione speciale del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese dedicata alle imprese femminili. Nella stessa direzione va il lavoro importante che l’Ente Nazionale per il Microcredito svolge quotidianamente. Non sussidi a perdere, ma un aiuto a realizzare e a realizzarsi.

Intravede altri percorsi utili da intraprendere con l’Ente Nazionale per il Microcredito a sostegno delle donne e delle famiglie?

Sì, ho riscontrato una condivisione di intenti che mi fa dire che il progetto per il microcredito di libertà sia solo un capitolo di una collaborazione che continuerà. Le donne e le famiglie hanno bisogno di sapere che le istituzioni scommettono su di loro e sulla loro possibilità di realizzazione. Solo così si innescherà quel cambiamento culturale che porterà l’Italia fuori dalla secca demografica e darà al nostro Paese un futuro.

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