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AI: L'EVOLUZIONE DELLE RELAZIONI UOMO/MACCHINA PER AFFRONTARE IL FUTURO
Ludovico ha 11 anni e una fervente passione per gli insetti, tanto da chiedere a sua madre di avere in regalo una mantide da allevare. Lei gli spiega pazientemente che in casa si possono tenere solo gli animali cosiddetti domestici e, per rincarare la dose, forza la mano affermando che il regolamento comunale della sua città (Torino) vieta espressamente l’allevamento di mantidi. Il giorno dopo Ludovico si ripresenta alla mamma con un attestato in cui si afferma che il Comune di Torino ha ritirato il divieto, avendo riscontrato che il proprio territorio è perfetto per la crescita delle mantidi. Insetti che, tra l’altro, sono particolarmente indicati ad avvicinare i ragazzi allo studio della natura.
Sara di anni ne ha 26 e almeno una volta al mese si regala un fine settimana alla scoperta di una città europea. Viaggi veloci e a basso costo. Stavolta la scelta è ricaduta su Lussemburgo, la città Stato circondata da boschi e castelli. Il sito di ricerca le fa una buona offerta: volo andata e ritorno da Roma 110 euro. Prima di acquistare il biglietto Sara decide di informarsi su clima e itinerari da percorrere in due giorni. Quando un’ora dopo torna al sito che compara le compagnie aeree, scopre che il prezzo è salito a 138 euro.
Due storie minime - e vere - che potrebbero accadere a ognuno di noi.
Nel primo caso Ludovico non fa altro che affidare alla tecnologia (chatgpt) quello che i bambini di ogni epoca hanno fatto prima di lui: inventare una storia “credibile” per convincere i genitori. Semplicemente lo fa utilizzando un mezzo nuovo a suo servizio.
Nel secondo caso, senza saperlo Sara ha generato una richiesta di mercato attivando un algoritmo pensato da un essere umano per capitalizzare il più possibile i desideri di potenziali clienti.
Vengo al punto: È questa dunque l’intelligenza artificiale?
La risposta è no.
Prima di entrare nel merito della questione, mi permetto un’altra digressione che può essere utile a semplificare un tema che semplice non è.
È il 1950 quando Isaac Asimov (biochimico prima ancora che scrittore seppur prolifico) pubblica “I robot”. Libro che è l’esaltazione della logica pura e che già nel titolo contiene l’ambivalenza di cui oggi trattiamo.
I robot (con I articolo determinativo) o I robot (con I che in inglese sta per IO)?
Per Asimov non fa differenza perché tutti i racconti girano su un unico assunto (le tre leggi fondamentali): alla base di ogni comportamento illogico, contraddittorio e perfino pericoloso dei robot c’è sempre un errore umano. Sofisticatissimo, magari, filosofico perfino ma indiscutibilmente frutto di una umanissima decisione.
E allora partiamo da qui per capire cos’è l’Intelligenza Artificiale, quali applicazioni pratiche può avere e perché, o forse se, dobbiamo averne paura.
Di IA si parla per la prima volta nel 1956 (stesso decennio dei racconti di Asimov) e consiste, in sintesi estrema, nella capacità dei computer di “apprendere” superando il limite del semplice “eseguire”.
Già da tempo in Medicina la diagnostica per immagini si avvale della IA per supportare il dottore nell’individuare la malattia e relativa cura, cui la stessa IA contribuisce grazie alla gigantesca capacità di elaborare milioni di dati in poco tempo. Il suo utilizzo consente anche di pianificare percorsi terapeutici personalizzati proprio perché immagazzina e ordina informazioni dettagliate. Massima resa poi nella telemedicina che consente al robot (antropomorfo o meno che sia) di seguire pazienti che vivono in luoghi accidentati e isolati.
Alcuni studi settoriali assicurano che l’utilizzo su larga scala della IA in medicina consentirebbe di ridurre dell’86% gli errori del personale sanitario, ma sulle cifre è meglio mantenere un prudente distacco.
In casa la domotica è un esempio pratico di IA che permette di programmare - e quindi ottimizzare - i consumi, solo per citare uno degli usi più comuni.
Il campo di applicazione più ampio resta comunque quello del lavoro dove, non a caso, sono forti le preoccupazioni per i tagli all’occupazione come in effetti accaduto laddove sono stati introdotti robot progettati per l’automazione di processi produttivi e logistici nell’industria pesante. Nel mercato civile pure è crescente il numero di macchine utilizzate come assistenti alla vendita nei negozi per fornire informazioni ai clienti. O come camerieri nei ristoranti, come già sperimentato nei locali giapponesi.
Ma è il cosiddetto lavoro intellettuale a rischiare di farsi trovare impreparato, e quindi a essere travolto, dalla rivoluzione del terzo millennio.
Già da tempo nei tribunali si ragiona sulla possibilità di emettere sentenze “standard” per snellire e velocizzare le pratiche. Un esempio sono le richieste di separazione nelle quali lo stesso giudice anche oggi si attiene a un consolidato di casi tipizzati: casa coniugale assegnata a chi si occupa dei figli, assegno di mantenimento per i minori etc.
Nel giornalismo esistono già computer che elaborano articoli sulla scorta delle informazioni fornite da chi (e qui torna centrale la figura professionale) le ha raccolte. Resta aperto il dibattito sull’oggettività del dato per cui noi giornalisti siamo chiamati a un’ancora maggiore responsabilità. Perché se è vero che IA assorbe, elabora e rielabora tutto quello che scriviamo, il rischio che si corre è quello di una post verità dove è vero tutto e il suo contrario.
Scegliendo questo o quel giornale oggi in qualche modo sappiamo già che taglio avrà la notizia a seconda della linea editoriale di una Testata. Ma domani? La macchina continuerà a elaborare un testo sulla scorta delle informazioni di base immesse, ma come capire se chi ha immesso il dato lo fa con onestà intellettuale o per appartenenza ideologica?
Viene da chiedersi se allora non si debba limitare l’uso dell’intelligenza artificiale a quegli ambiti in cui non sia richiesto un contributo etico, morale o critico. Come, ad esempio, nella pubblica amministrazione per il disbrigo di pratiche e l’erogazione di servizi ai cittadini. Ma è proprio in questo ambito che l’altra caratteristica fondante dell’IA – ossia la sua capacità predittiva – sta trovando applicazioni che superano le aspettative. Basti pensare alla gestione delle emergenze (dall’analisi delle probabilità alla conoscenza in tempo pressoché reale della situazione su un territorio vastissimo) o alla pianificazione del traffico urbano. Alla macchina basta, infatti, prevederlo in base alle abitudini dei residenti e pianificare quando magari intervenire con la manutenzione della strada.
Dal Forum della PA del 2024 prendo questo passaggio testuale:
l’intelligenza artificiale si rivela un alleato prezioso, in grado di attuare un utilizzo più intelligente delle risorse esistenti. Algoritmi di IA possono analizzare modelli di consumo e suggerire modalità e strategie per ridurre gli sprechi, migliorare la gestione delle risorse energetiche o distribuire in modo più efficace il personale in base alle effettive necessità, contenendo lo sforzo e, al tempo stesso, promuovendo una maggiore cultura di sostenibilità all’interno dei contesti istituzionali.
L’esempio più calzante che viene proposto nel dossier riguarda ancora una volta la sanità dove l’IA può prevedere i picchi di domanda dei servizi e permettere di conseguenza una migliore distribuzione del personale e delle attrezzature sanitarie.
A questo punto la domanda è lecita. Perché siamo così diffidenti rispetto a quella che gli stessi sviluppatori considerano la più grande rivoluzione di tutti i tempi?
La risposta è facile: per le storture che ne possono derivare e per l’impatto velocissimo di qualcosa che cambia la nostra vita, senza darci il tempo di elaborare i mutamenti.
La psicologa Maria Rita Parsi parla di sindrome dell’Avatar (l’uso sistematico dei filtri ottici per modificare la propria immagine) come di una patologia crescente tra i giovani incapaci perfino di riconoscere il se stesso reale da quello creato e quindi postato.
Le cosiddette armi intelligenti sono capaci di inseguire il nemico senza stancarsi mai (se venissero programmate ad hoc) fino alla sua eliminazione prive di quella pietà umana che consente invece a un soldato in carne e ossa di abbassare il fucile di fronte a un altro uomo in fuga.
Prive di scrupoli, sentimenti, ripensamenti le macchine potrebbero superare limiti inimmaginabili e privarci nel tempo delle sfumature più profonde dell’essere umano. Ma non è quello che accade già in una qualsiasi guerra che altro non è che un lungo elenco di orrori?
Un capitolo a parte merita la commistione tra vero, falso e verosimile.
Ad oggi siamo in grado di capire che gli “abbracci impossibili” tra opposti (vedi il lupo con l’agnello o quelli tra irriducibili avversari politici) sono frutto di una campagna di comunicazione studiata ad hoc. Ma chi può sapere che la fotografia di un Vesuvio innevato visto dalle scogliere di Bacoli non esiste perché geograficamente impossibile? E come comprendere il bisogno (incomprensibile) di ritoccare al computer per rendere ancora più accattivanti scorci di città di straordinaria bellezza generando delusione (capita a cinesi e giapponesi in visita a Parigi) tra chi arriva in cerca di quell’inquadratura, di quella luce, di quei contorni che teoricamente dovrebbero migliorare quel che è già perfetto?
Da tempo le Aziende si sono dotate di esperti in grado di smascherare e smantellare campagne denigratorie costruite ad hoc per distruggerne la reputazione nel mondo degli affari. Ma quel che preoccupa è la manipolazione di immagini e documenti creati dal nulla per orientare politicamente o socialmente l’opinione pubblica.
Colpa dell’intelligenza artificiale? No. Anche in questi casi quello che deve preoccupare non è la nascita di nuovi comportamenti quanto la sofisticatezza manipolatrice. E, soprattutto, che questa possibilità di influenzare è alla portata di chiunque.
Per spiegarmi meglio: nel 1988 viene introdotto l’obbligo di indossare le cinture di sicurezza anteriori a bordo delle automobili. Pochi giorni dopo, tutti i giornali riportarono la notizia del sistema con cui i napoletani aggiravano l’imposizione indossando magliette con stampata una fascia nera trasversale. Ancora oggi qualcuno giura di averne una a casa. In realtà le t-shirt non sono mai esistite se non come frutto di una suggestione per spiegare i meccanismi di creazione delle leggende metropolitane. Autore dell’inganno, lo psichiatra Claudio Ciaravolo che utilizzò questo e altri stratagemmi per studiare come la manipolazione di massa potesse generare comportamenti virtuosi.
Questo per dire, tornando alle tre leggi di Asimov, che se è vero che oggi siamo di fronte a macchine capaci di imparare da se stesse, è altrettanto vero che sono sempre gli uomini a decidere a cosa finalizzare le strepitose potenzialità dei robot.
Mi piace concludere citando un altro libro. Siamo all’anno scorso, 2024, quando il giornalista Mauro Crippa (direttore generale dell’Informazione Mediaset) e il filosofo Giuseppe Girgenti pubblicano “Umano, poco umano”
Crippa è manager navigato, guida una corazzata che edita tre telegiornali nazionali, un canale e un sito di informazione all news e i programmi di informazione.
In trent’anni di carriera ha portato in Azienda tutte le innovazioni tecnologiche che hanno consentito a Mediaset di essere all’avanguardia. Nessuna paura del cambiamento, anzi.
Eppure un giorno, lo racconta lui stesso nelle presentazioni del libro, rimane folgorato accorgendosi di rivolgersi ad Alexa come fosse una persona e non un semplice dispositivo elettronico. Nulla di eccezionale (a chi non è capitato di insultare l’auto che non vuole saperne di partire?) visto che l’umanizzazione delle “cose” è fenomeno diffuso.
Quello che è straordinario è che Alexa (viene spontaneo scriverne il nome in maiuscolo) risponde istaurando un rapporto affettivo con l’interlocutore. Non si limita a eseguire un comando, ma si “preoccupa” di compiacere. E così facendo si insinua nel nostro bisogno di affetto e di comprensione.
E sta qui, a mio avviso, l’unico grande pericolo incombente: la progressiva rinuncia o allontanamento dai bisogni – materiali e spirituali - che fanno dell’uomo un animale sociale.
L’antidoto è dentro di noi. O per dirlo alla Kant: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.