GENDER GAP: SPERANZE E REALTÀ DI UN’ERA COMPLESSA

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Speriamo che sia femmina, è il titolo di un pluripremiato film di Mario Monicelli dove le donne rappresentano il fulcro di una storia che le vede protagoniste nell’(ri)appropriarsi del proprio futuro. L’auspicio dell’arrivo di un nuovo nato di sesso femminile sottolineava una diversa idea e prospettiva di vita, migliore, evidentemente, in fatto di resilienza e di opportunità.

Se proviamo a ripercorre il tempo all’indietro, sappiamo che è stato intrapreso un lungo viaggio verso il superamento della cosiddetta questione femminile. Basterà pensare che solo nel non lontanissimo 1975 in Italia viene riformato il diritto di famiglia, sancendo la parità di diritti dei coniugi all’interno del nucleo familiare. Eppure, ancora oggi, nel 2025, a cinquant’anni di distanza da quella storica riforma, nascere donna rappresenta uno svantaggio. E lo è in termini economici, laddove la disparità lavorativa e occupazionale restano profonde; in termini familiari, a causa del ruolo di cura affidato soprattutto alle donne per la gestione della prole e, sempre di più a causa dell’invecchiamento della popolazione, per l’accudimento dei componenti anziani della famiglia; ma anche in termini di opportunità.

Lavoro: lo svantaggio di essere donna

Nonostante raccolgano risultati migliori degli uomini sul piano della formazione scolastica e universitaria, le donne nel mondo del lavoro continuano a essere sottoimpiegate e sottopagate rispetto alla componente maschile.

In questo senso, il Gender Policy Report 2024 dell’Inapp ha tracciato un quadro dettagliato. Sebbene sia in miglioramento il livello occupazionale con un incremento dell’1,4% del tasso di occupazione femminile, ciò sembra non intaccare lo svantaggio lavorativo di genere. Il gap di genere tra i tassi di occupazione resta infatti in media a 18 punti percentuali di differenza. Il Rapporto mette in luce, inoltre, come il 64% dell’inattività in Italia continua a essere femminile e come sia motivata prevalentemente da esigenze di carattere familiare, mentre per gli uomini la motivazione risiede nello studio e nella formazione.

A livello europeo, secondo i dati dell’Eurostat (2022), le donne guadagnano di meno rispetto agli uomini con un Gender Pay Gap1 pari al 12,7%. Mentre, in Italia, l’Istat rileva che questo divario sale nel comparto privato ed è pari al 15,9%, nel comparto a controllo pubblico scende al 5,2%2. Sebbene il principio della parità di retribuzione sia sancito dai Trattati europei (art. 157 del TFUE) fin dal 1957, fa riflettere che continui a essere disatteso nella maggior parte dei Paesi europei. Ma ancora, mediamente nei paesi Ocse, le laureate guadagnano l’83% dell’intero salario percepito dai laureati; in Italia questo dato scende al 58%, segnando il divario salariale più alto dei Paesi considerati.

Vi è poi un fenomeno individuato come “segregazione settoriale”3 per il quale il divario retributivo di genere è legato alla sovrarappresentazione delle donne in settori occupazionali poco remunerativi, come l’assistenza, la sanità e l’istruzione. A ciò si aggiunga che le donne fanno registrare mediamente un numero di ore lavorative settimanali superiore a quello degli uomini, ma dedicano più ore al lavoro non retribuito.

Un caso esemplificativo può essere rappresentato dall’osservazione del settore della salute. Secondo l’ultimo Rapporto pubblicato da Eurispes ed Enpam4, nella Sanità la presenza femminile è cresciuta costantemente negli anni, al punto che due terzi dei lavoratori del comparto oggi sono donne. Tuttavia, le posizioni dirigenziali e apicali sono ancora occupate da uomini; e il lavoro su turni, le difficoltà organizzative, la carenza di servizi di conciliazione vita/lavoro gravano particolarmente sulle professioniste. A dicembre 2021, sono 450.066 le donne che lavorano con contratto a tempo indeterminato presso le strutture del SSN. Più di un medico su due è donna (51,3%), una percentuale destinata a crescere, considerata la prevalenza femminile nelle classi di età più giovani. Permangono, d’altra parte, forti squilibri di potere: nel 2022 dei 106 presidenti degli Ordini professionali provinciali, 11 soltanto sono donne (10%), e solo il 19,2% dei primari è di sesso femminile. Una situazione analoga emerge quando si osservano i dati del personale docente e ricercatore in Scienze mediche presso le Università italiane: le professoresse ordinarie costituiscono appena il 19,3% del totale e, per vedere aumentata la loro presenza, è necessario scendere verso le posizioni più basse della gerarchia accademica.

E una volta conclusa la vita lavorativa, le donne si trovano di fronte a un altro sistema, quello delle pensioni che, ugualmente a quello occupazionale, non è immune dalle disparità, laddove l’Inps rileva un divario pensionistico di genere di circa il 30% a sfavore della componente femminile5.

Sicuramente quello del lavoro è uno degli ambiti nei quali la condizione femminile vive le maggiori criticità. E non solo in termini di retribuzione o di qualità dell’occupazione. Episodi di molestie e discriminazioni sul luogo di lavoro sono molto più frequenti di quanto si potrebbe immaginare e continuano a rappresentare il lato oscuro di una parità che stenta ancora a radicarsi prima di tutto dal punto di vista sociale.

Secondo le rilevazioni dell’Eurispes, infatti, quattro donne su dieci hanno sperimentato “insinuazioni” rispetto a una carriera raggiunta facilmente grazie al proprio corpo di donna. Il 44,4% ha ricevuto apprezzamenti espliciti e non richiesti da parte di un/una superiore o di un collega (47,9%). Ancora di più sono le donne, sei su dieci, che affermano di doversi impegnare di più sul lavoro, rispetto a un collega uomo, per essere apprezzate. Un importante numero di donne (41,7%) ha esperienza di lavoro in nero, senza tutele6.

Artificiale e non femminile: il pericolo che si annida negli algoritmi dell’AI

Nonostante l’avanzamento delle nostre società, è innegabile che ci troviamo continuamente di fronte a diversi divari di genere, in ambiti differenti, dove lo svantaggio femminile deve ancora essere colmato.

Un’altra importante discriminazione della figura e del ruolo della donna da non sottovalutare, perché ha a che fare con il nostro futuro, è l’avvento dell’Intelligenza artificiale e la creazione e l’utilizzo degli algoritmi.

La rappresentanza femminile nel settore dell’Intelligenza artificiale a livello globale è solo del 22%, in Italia il dato è di poco più elevato (26%), sebbene la presenza delle donne nell’AI diminuisca drasticamente nei ruoli dirigenziali e di vertice (12,4%). Dalle nuove opportunità offerte dall’uso dell’Intelligenza artificiale ancora una volta rischiano di essere tagliate fuori le donne sia sul piano della inclusione e della presenza in questa nuova industria sia a causa delle modalità di generazione degli algoritmi. Come rilevato recentemente dal Rapporto Ocse circa gli effetti dell’AI sul lavoro e la vita delle donne, il pericolo che gli algoritmi si basino su parametri discriminatori è una realtà. Ciò avviene in virtù del fatto che gli algoritmi alla base dell’AI vengono “educati” prettamente da uomini che, in maniera involontaria o no, possono inficiare l’orientamento e le conoscenze di questi “strumenti pensanti” anche per il solo fatto di rappresentare una realtà parziale e da un punto di vista unico ed esclusivo. Quindi nell’AI verrebbero inseriti elementi distorsivi e riproposti stereotipi poiché ci si rifà non solo all’esperienza personale di chi “educa” ma anche perché verrebbero riproposti modelli sociali, economici, culturali, lavorativi esistenti (e spesso già caratterizzati da elementi di esclusione femminile) senza alcun filtro. Si pensi ad esempio se l’AI dovesse essere impiegata in un’azienda per la selezione di nuovi lavoratori, essa si potrebbe rifare ai criteri usati da molti uffici delle risorse umane come ad esempio l’esclusione delle donne per alcune particolari posizioni.

Inoltre, gli aspetti legati alla sempre maggiore diffusione dell’Intelligenza artificiale e alla scarsa presenza delle donne nei luoghi di sviluppo di questa tecnologia potrebbe ulteriormente acuire il livello del divario digitale di genere già esistente. Si tratta di un gap particolarmente importante nel nostro Paese che ci vede al 21° posto su 28 paesi nella classifica WiD (Women in Digital) 2022, nella quale vengono valutate le prestazioni dei Paesi europei in termini di inclusione delle donne nell’uso di Internet, di competenze digitali e di carriere e imprenditorialità digitali: meno della metà delle italiane (43%) possiede competenze digitali di base, mentre la media europea è del 52% e solamente due su dieci possono vantare competenze avanzate.

La discriminazione sul piano economico

Sul piano economico le donne sembrano vivere una maggiore difficoltà rispetto agli uomini. E questo elemento si individua chiaramente in alcuni dei risultati emersi dalle ultime indagini dell’Eurispes (2024). Solo una donna su quattro riesce a risparmiare, ma molte di più affermano di dover utilizzare i propri risparmi per arrivare alla fine del mese (quattro su dieci).

A causa dei problemi economici il 32,9% delle donne sono ricorse al sostegno finanziario della famiglia d’origine. In molte (41,7%) hanno fatto acquisti rateizzando i pagamenti. Non manca chi si trovata a dover chiedere un prestito in banca (15,7%) o addirittura lo ha fatto rivolgendosi a privati (non parenti/amici) non potendo accedere a prestiti bancari (13,9%). Quest’ultimo è un elemento importante dal quale si può evincere la presenza di fenomeni legati all’usura nelle quali possono essere incappate alcune donne nel momento del bisogno.

Fenomeni di esclusione e discriminazione sono ricollegabili d’altronde anche alla necessità di contenere le spese per servizi fondamentali come quelli legati alla salute. Anche se si tratta di una quota minoritaria, sono state registrate rinunce importanti come visite mediche specialistiche o cure/interventi odontoiatrici, ma anche il semplice acquisto di medicinali.

Possedere competenze economiche e finanziarie diventa, dunque, per le donne un atto importante di autodeterminazione e di indipendenza. Il 64,5% delle donne concorda con l’introduzione dell’educazione finanziaria nelle scuole, un insegnamento che si concentra sullo studio dei principali strumenti finanziari e delle regole di funzionamento di base dei mercati, affinché risparmiatori, consumatori e investitori possano compiere scelte informate e consapevoli. Ciò nel nostro ordinamento è previsto dalla legge 21 del 2024 (art.25 “Misure in materia di educazione finanziaria”) che ha introdotto l’educazione finanziaria nei programmi scolastici. In questo senso, la speranza è di un sempre maggiore spazio affidato a questa materia, che alcuni commentatori vedono come troppo “diluita” all’interno del già frastagliato insegnamento dell’educazione civica.

Il corpo delle donne

Le modalità discriminatorie con le quali le donne devono convivere passano anche attraverso molteplici aspetti legati alla nostra società e a stereotipi e pregiudizi nuovi o ancora vivi. Il corpo della donna è il centro di ogni interesse; nella società moderna, schiava delle immagini veicolate tramite Social, la bellezza femminile è diventata un valore sociale, un’ambizione costante e un compito da ottemperare.

Una recente indagine dell’Eurispes7 si è concentrata proprio su questo tema, con risultati che meritano una riflessione approfondita. La larga maggioranza delle donne si trova a combattere con il proprio peso, controllando l’alimentazione e desiderando di cambiare, almeno in parte, il proprio corpo. All’estremo, i disturbi alimentari riferibili all’anoressia e alla bulimia sono stati sperimentati in circa un caso su dieci. La maggior parte delle donne lamenta di ricevere giudizi sulla sua corporatura (troppo esile, troppo rotonda, ecc.), apprezzamenti per un avvenuto dimagrimento, incoraggiamenti a prendersi maggior cura del proprio aspetto esteriore.

È molto diffuso, inoltre, un senso di inadeguatezza rispetto ai modelli femminili proposti nei film, nelle serie Tv, sui Social o nei programmi televisivi. E non sono poche le donne che riferiscono di essere state incoraggiate a ricorrere alla chirurgia estetica per “migliorare” alcune caratteristiche fisiche (43,8%).

Il “dovere” di avere figli

Avere figli è una scelta importante nella vita di una coppia, ma capita spesso che si dia per scontato che ogni donna sia destinata a diventare madre. In effetti, sempre l’indagine dell’Eurispes ha rilevato come solo una donna su cinque (il 21,8%) riferisca che non le sia mai chiesto quando avrebbe avuto un figlio come se si trattasse di un fatto certo

Una donna su quattro non ha il desiderio di avere figli: non desiderare figli è riconducibile soprattutto alla mancanza di istinto materno, al non voler limitare la propria libertà e nella scelta di dedicarsi al lavoro.

Essere genitori significa spesso fare scelte difficili e rinunciare a molte cose per garantire il benessere dei figli e la stabilità familiare. Diventare genitori richiede una costante riorganizzazione e rinegoziazione tanto del rapporto di coppia quanto dell’identità individuale. Considerando la molteplicità degli elementi che influenzano il modo in cui la genitorialità viene affrontata, non sorprende perciò che questa esperienza possa avere un impatto significativo sulla salute mentale e sull’equilibrio psicologico dei genitori, in particolare della madre8.

Sono infatti soprattutto le donne a compiere i maggiori sacrifici in tutti gli àmbiti in qualità di genitori: il 58,7% ha fatto rinunce in àmbito economico (contro il 44,2% degli uomini), il 56% ha rinunciato ai propri interessi e svaghi (vs il 48,8%), il 55,3% ha sacrificato il tempo riservato alle relazioni con gli amici e alla cura di sé (contro, rispettivamente il 46,8% e il 46,1% degli uomini), il 52,7% ha sottratto tempo ed energie al rapporto di coppia (vs il 47,4%) e il 44,7% delle donne ha rinunciato a opportunità in àmbito lavorativo (contro il 26,8%). In questo quadro, la depressione post partum colpisce almeno 3 donne su 10.

La violenza di genere

Un’indagine realizzata dall’Eurispes e dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale9, con l’ausilio del Servizio di Analisi Criminale, ha fatto luce sugli episodi di violenza che si consumano in àmbito familiare, chiedendo ai partecipanti all’indagine se avessero subìto forme di violenza fisica o psicologica in famiglia.

Per genere, le donne hanno subìto violenza da parte del partner nel 24,5% dei casi, dell’ex partner nel 30,6% dei casi, da altro familiare nel 44,9% dei casi.

Al momento della violenza, 6 vittime su 10 si trovavano tra le mura domestiche, il 13,7% era per strada o comunque in altro luogo pubblico (12%). L’8% delle vittime ha subìto violenze mentre era sul posto di lavoro, il 5,7% sui mezzi pubblici. La violenza subita nella maggioranza dei casi non si è ripetuta (52,6%), mentre per il 47,4% delle vittime non si è trattato di un caso isolato. Una violenza su tre è avvenuta alla presenza di un minore.

Non solo in casa: nel Web le donne rischiano più degli uomini di rimanere vittime di Cyber stalking (persecuzione tramite cellulare, email, Social Network, ecc.; Revenge porn (pubblicazione di sue foto/video intimi senza il suo consenso, per vendetta, ricatto, ecc.; Violazione della privacy (con pubblicazione senza il suo consenso di foto/video in cui è presente)10

Un cambiamento di tipo culturale

Il Global Gender Gap Report 2024 conferma che l’Italia ha ancora molta strada da fare per raggiungere una vera parità, collocandosi all’87° posto su 146 Paesi per equità di genere. Una migliore ripartizione dei congedi parentali, una adeguata offerta pubblica di servizi di assistenza all’infanzia, maggiore flessibilità sul lavoro sono iniziative, così come vengono promosse in Europa, che da sole non possono bastare a creare un equilibrio tra i generi.

Negli anni si è posto l’accento sulla valutazione quantitativa più che sull’effettivo progredire della parità. Ciò significa che è necessario lavorare, più che sul piano fattuale della riuscita numerica, sul piano culturale per un cambiamento che ha ancora bisogno di realizzarsi e va accompagnato poiché non ancora maturo.

Un aspetto del quale le statistiche non parlano è la difficoltà anche per molte donne di superare retaggi ancestrali. Possono alcuni decenni di consapevolezza del ruolo della donna e di politiche di inclusione più attive superare stereotipi e soprattutto abitudini presenti nelle nostre società da millenni? Le statistiche, appunto, non lo dicono, poiché chiaramente si fermano al dato, all’aspetto esteriore e quantificabile dei fenomeni. Ma sicuramente il superamento dei retaggi culturali, esperienziali e di vita quotidiana stratificati in un tempo lunghissimo rappresentano una difficoltà, un ostacolo che non è appannaggio esclusivo del mondo maschile: investe purtroppo, e per quanto inconsapevolmente, anche l’universo femminile.

In questo senso, sempre più dovranno essere individuati strumenti per stimolare e sostenere una vita partecipativa a ogni livello, non solo creare spazi per le donne ma “formare le donne”, renderle consapevoli ed autonome.

Potrebbe servire, a questo scopo, immaginare un senso diverso del concetto di inclusione. Un termine che letto in maniera semantica significa “inserire, comprendere in un tutto”, come se qualcuno, una mano invisibile come quella dell’economia per Adam Smith, dovesse raccogliere tutta la popolazione femminile e traghettarla in un mondo fatto di parità. Occorre, a mio parere, lavorare in modo importante sul concetto di inclusione, accanto al quale deve essere innestato il seme della partecipazione attiva delle donne in tutti i campi, e adoperarsi per un cambiamento culturale profondo che possa in questo caso includere soprattutto gli uomini. Nessun cambiamento può realizzarsi infatti senza la compartecipazione di tutte le componenti di una società, nessuna legge o modifica degli ordinamenti avrà mai un effetto efficace se non trova posto anche nelle sensibilità, nel quotidiano, negli usi e nella mentalità delle persone, uomini o donne che siano.

In conclusione, oggi finalmente le donne possono rappresentare un elemento innovativo e “disgregante” rispetto a una visione univoca e maschile del mondo, ma non devono attendere che il ruolo e i luoghi da occupare vengano calati dall’alto attraverso la sola ed esclusiva creazione di normative adeguate. Sono le donne a dover essere, esse stesse, promotrici della propria presenza proattiva nella società. Per fare questo non ha senso tentare di sovrapporsi all’universo maschile, varrebbe piuttosto la pena fare leva sulla capacità femminile, che è poi una prerogativa indiscussa, di aggregare, di accogliere, di migliorare per immaginare spazi futuri nei quali il benessere e le opportunità non saranno più una mera questione di genere.

NOTE

1 Indicatore del divario salariare di genere, ossia il differenziale di salario medio annuo percepito da donne e uomini.

2 Istat, Report sulla struttura delle retribuzioni in Italia nel 2022.

3 Gender segregation in the labour market - Root causes, implications and policy responses in the EU, European Commission 2009.

4 3°Rapporto sulla Salute e il Sistema Sanitario, Eurispes-Enpam, 2024.

5 Rapporto Annuale Inps, 2024.

6 Rapporto Italia 2024, Eurispes.

7 Eurispes - “Piacersi e piacere. Il rapporto delle donne con il loro corpo”, dicembre 2023.

8 Eurispes, Rapporto Italia 2023.

9 Eurispes, Rapporto Italia 2024.

10 Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Direzione Centrale della Polizia Criminale – Eurispes, Rapporto “La criminalità tra realtà e percezione”.

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