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L’integrazione passa per la lingua italiana intervista a Emilio Porcaro Direttore CPIA di Bologna
L’immigrazione è per molti un argomento scomodo, per chi se ne occupa da anni, invece, diventa uno strumento di forza per sostenere la multiculturalità che attraverso l’integrazione porta al miglioramento del tessuto economico e sociale locale e nazionale. Come è cambiato il volto dei migranti e come si possano integrare attraverso una formazione che diventi anche opportunità di lavoro in Italia, è uno dei compiti dei CPIA. A Bologna questa realtà opera sotto l’egida di Emilio Porcaro, dirigente di lungo corso che ha fatto della formazione una missione, tanto da aver ricevuto il 17 marzo u.s. il premio “Il Portico” dal Consiglio Comunale. Porcaro, preside del Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti (CPIA) è stato premiato dal Consiglio comunale per aver saputo promuovere il senso civico e i valori dell’inclusione, della solidarietà e della partecipazione facendo notevolmente aumentare le richieste di iscrizione per la formazione.
Lei ha ricevuto un riconoscimento per l’integrazione, ci racconti come è cambiata negli ultimi anni e cosa, secondo la sua esperienza, è utile per i migranti?
Ormai sono quasi vent’anni, anche prima del lavoro nei CPIA, che mi occupo di cittadini stranieri, di integrazione linguistica, di apprendimento della lingua italiana, insomma di cercare e trovare tutte le modalità didattiche, educative, relazionali per favorire una buona, per quanto possibile, integrazione prima linguistica e poi ovviamente sociale, lavorativa, professionale per far sì che le persone che provengono da altri Paesi possano diventare cittadini a tutti gli effetti. Questo mi ha accompagnato negli ultimi vent’anni. Io sono nel CPIA dalla sua nascita, quindi dal primo settembre del 2014, prima dirigevo un CTP che è un po’ quello che c’era prima del CPIA e ho sempre collaborato all’integrazione linguistica e sociale delle persone migranti, dei cittadini di Paesi terzi o delle persone in generale con background migratorio. Dalla scuola primaria all’educazione degli adulti, quindi genitori, persone in qualche modo fuori dall’obbligo scolastico ma che vengono, si rivolgono a noi sia per apprendere la lingua italiana (e rimanere nel Paese) o per poter utilizzare i titoli che hanno valore anche rispetto alla documentazione sui permessi di soggiorno e anche sulla cittadinanza, perché dal 2010 la conoscenza attestata della lingua è un requisito per ottenere le diverse tipologie di permesso di soggiorno.
I nostri utenti sono per il 96-97% cittadini stranieri e provengono (attualmente) da 97 Paesi del mondo. Noi cerchiamo di far vivere anche un’esperienza di apprendimento che sia significativa, curando il rapporto con le persone che vengono da noi e accompagnandole in un’esperienza che vada oltre il conseguimento del titolo di studio, e lasci il segno da un punto di vista delle emozioni, delle relazioni, dello star bene assieme anche se per poco tempo, perché i nostri percorsi durano al massimo un anno scolastico e un anno scolastico significa 6-7 mesi, quindi non è tanto, ma cerchiamo di far vivere loro questi 6-7 mesi nel migliore dei modi, cercando di favorire quanto più possibile le relazioni. Io cerco di districarmi fra queste cose da un punto di vista gestionale: l’organizzazione della scuola, le attività che facciamo sul territorio, i docenti, la formazione dei docenti, il colloquio anche con gli stessi studenti, perché non sempre tutto è così chiaro e limpido, c’è sempre un’attività di dialogo con studenti e studentesse, e la mia attività, prevalentemente negli ultimi anni, si svolge anche in questa direzione. C’è un grande bisogno di istruzione e di educazione fra gli adulti, anche perché viviamo una sorta di controtendenza rispetto alla narrazione dei mass media. Il cosiddetto calo demografico, la denatalità, noi non lo viviamo assolutamente, se per la scuola “tradizionale”, quella del mattino, si registra una diminuzione del numero degli studenti, così non è per la scuola degli adulti, dove invece c’è un incremento anche significativo. Quest’anno, come CPIA di Bologna, abbiamo registrato oltre 4200 domande di iscrizione, è un numero impressionante, elevato, che non riusciamo a soddisfare perché ci mancano le risorse umane e logistiche, questo è un dato significativo rispetto a un’esigenza sempre più pressante da parte delle persone adulte e straniere, sia tra quelle arrivate da poco, sia che vivono sul nostro territorio da diversi anni e di alcune che hanno in progetto di rimanere sul nostro territorio, acquisire una cittadinanza e stabilirsi in maniera più o meno duratura.
Quanto è importante per lei anche la formazione all’autoimpiego? Lei sa che noi ci occupiamo di microcredito e microfinanza anche per i migranti regolari che vogliono intraprendere un’attività con il sostegno dello Stato. Cosa ne pensa e quanto è importante questo?
Secondo me è un’area da intensificare, da valorizzare. Noi qualche anno fa abbiamo partecipato, in qualità di partner dell’Ente Nazionale per il Microcredito con un progetto per sensibilizzare i migranti rispetto al microcredito e quindi alla possibilità di avviare un’attività imprenditoriale in proprio.
Secondo me questa strada va perseguita perché molte sono le persone in cerca di lavoro e ce ne sono anche tante con qualifiche conseguite nel Paese d’origine, hanno le competenze e le possono dimostrare.
Qui a scuola abbiamo tantissimi studenti tra i venti e i ventisei anni che arrivano con un bagaglio e delle competenze tecnico-professionali molto elevate in diversi settori, quindi secondo me, l’opportunità più che la possibilità è di intercettare queste persone, di offrire loro a livello informativo, non solamente formativo, una opportunità su come attivarsi e quindi mettersi in proprio, fare un’attività di autoimprenditorialità secondo me può essere una strada molto interessante che favorisce anche l’occupabilità, se non di tutti, di una parte delle persone che frequentano i percorsi del e dei CPIA.
Secondo me quindi è una buona occasione, una buona direzione, bisogna trovare solamente le modalità e le strategie adeguate, perché è un’utenza un po’ particolare, molto fragile, c’è la necessità che queste attività si possano integrare in un percorso di apprendimento della lingua, capire quando è il momento giusto per poterla proporre e poi fare anche delle attività di orientamento professionale, orientamento specialista, non perdere tempo ma dedicarne parlando con piccoli gruppi anche a livello individuale e soprattutto cercare di trovare la motivazione necessaria e la spinta giusta, perché poi queste informazioni possano tradursi in un’azione concreta:
“A questo punto mi metto in proprio, so quali sono gli strumenti, e anche i rischi, ho le competenze linguistiche e tecnico professionali per poterlo fare”.
Quali sono i nuovi migranti, qual è la fotografia che oggi immortala i target nel nostro Paese rispetto a qualche anno fa in cui l’immigrazione era sinonimo di caregiver e braccianti stagionali?
Sicuramente è cambiata, sicuramente arrivano persone con una scolarizzazione più o meno alta, io parlo di scuola secondaria di secondo grado, se non addirittura di lauree, ad esempio dall’Iran arrivano molti laureati; dal Bangladesh, abbiamo avuto due persone espertissime in comunicazione visiva e grafica, hanno fatto delle cose meravigliose qui con noi, mettendosi anche in gioco e diventando dei peer educator rispetto agli altri studenti; due anni fa abbiamo avuto una studentessa del Pakistan che era molto competente nella gestione di programmi di grafica a livello molto alto. Quindi sicuramente c’è un tipo di utenza che arriva in Italia con delle competenze, bisogna riconoscerle, farle emergere, valorizzarle, ,cosa che non sempre riusciamo a fare perché spesso, e faccio autocritica, ci concentriamo solo sulla conoscenza della lingua italiana. Cerchiamo subito fin dall’inizio di classificare, di attribuire livelli, conosce l’italiano B1 o B2, e magari dimentichiamo le competenze, che però per fortuna durante il percorso emergono. Adesso ci sono anche altre opportunità legate in particolare agli effetti del cosiddetto decreto Cutro, c’è la possibilità di avviare la formazione sia civico-linguistica ma anche tecnico-professionale nel Paese d’origine e nell’immediato futuro questo consentirà a persone che hanno già una scolarizzazione nel Paese d’origine e delle competenze tecnico-professionali di entrare in Italia per completare la formazione e l’integrazione. Si sta andando verso una sorta di maggior presenza di cittadini stranieri con un approccio diverso rispetto a questo tipo di utenza: convivono in questo quadro sia i cittadini stranieri che hanno low skill, una bassa qualificazione, una bassa scolarizzazione che sono sempre presenti ma sta aumentando il numero e il peso dei cittadini stranieri che invece sono scolarizzati, hanno delle alte skills e quindi vengono invitati per imparare la lingua che è fondamentale, avendo loro già l’interesse a entrare nel mercato del lavoro, altrimenti la pratica per i documenti di soggiorno non potrebbe procedere. E poi c’è tutta l’utenza di chi comincia un percorso di apprendimento nel Paese d’origine e lo deve completare in Italia con i nuovi dispositivi legati al decreto Cutro, ai flussi regolari. Lo scenario si è ampliato e deve far fronte a nuove esigenze inventando, adeguando o adattando i percorsi formativi.
Credo che non sia un caso se negli ultimi mesi dal Ministero ci sia arrivato la suggestione di far sì che anche i CPIA possano attivare, anche se in via sperimentale, percorsi di secondario e di secondo grado, in particolare per la gestione diretta degli istituti tecnici. Significa che dal prossimo anno scolastico, o comunque in un futuro non troppo remoto, il CPIA diventerà una scuola onnicomprensiva, nel senso che all’interno della stessa istituzione scolastica i nostri studenti avranno la possibilità di proseguire nel secondo ciclo, quindi con un canale ancora più diretto verso il mondo del lavoro o anche verso l’università o anche verso gli ITS (Istituti Tecnici Superiori) che sono canali di alta specializzazione e di alta formazione. Uno scenario che se confermato vedrà ancora una volta il CPIA al centro di un processo di integrazione e di inclusione, non solo linguistica ma anche lavorativa.
Cosa funziona e cosa non funziona nei CPIA?
Quello che non funziona e su cui forse le politiche dovrebbero in qualche modo insistere maggiormente, è:
la questione delle sedi, ancora oggi i CPIA, che negli ultimi dieci anni hanno fatto un lavoro enorme da un punto di vista dell’assorbimento di persone e farle reintrodurre nel sistema formale, sono scuole che non hanno edifici propri. Per cui forse sarebbe importante che almeno nelle città capoluogo, venissero costruiti o progettati edifici dedicati per l’apprendimento degli adulti, che è cosa completamente differente dall’istruzione dei bambini;
le risorse umane e di organico. Abbiamo fatto un’indagine statistica come Rete Nazionale dei CPIA, sull’anno scolastico 2023-2024 e abbiamo circa 270 mila persone adulte e giovani adulti nei nostri corsi, contro un organico docenti di 4mila persone, per cui se si fa la proporzione ogni insegnante del CPIA ha oltre un centinaio di utenti, invece nella “scuola del mattino” il rapporto è 1 a 6, 1 a 7.
Quindi significa che c’è una carenza di organico, che assieme alla scarsità logistica, alla mancanza di sedi, fa sì che ci siano liste d’attesa molto lunghe. A Bologna quest’anno abbiamo avuto oltre 4 mila persone che sono venute in segreteria a portare la loro domanda di iscrizione, noi riusciamo ad accoglierne 2.200.
Cosa invece funziona?
Funziona il fatto che questi pochi docenti e poco personale, ci mettono la passione totale, c’è una motivazione estrema da parte dei docenti per far funzionare il tutto, non è solo passione, è anche professionalità, perché spesso chi sceglie il CPIA lo sceglie, non è un caso che si trasferisca qui da noi e quindi professionalità e passione fanno sì che la gran parte dei docenti viva questa esperienza lavorativa, il CPIA non come un mero adempimento lavorativo e professionale, quindi c’è un contratto di lavoro, io faccio le mie 18 ore, ma vada oltre quello che un contratto di lavoro stabilisce e anche il mansionario, quindi oltre le attività classiche eppure di insegnamento, perché c’è tutto un tema di accoglienza, di cura, di relazione iniziale che a queste persone, ai nostri docenti, nessuno gliel’ha insegnato, quindi siamo noi che facciamo la formazione, lo imparano facendo esperienza e imparano queste cose magari guardando e lavorando con chi le ha già fatte. C’è un modo di tramandare competenze e abilità, quindi sicuramente questa è una cosa che funziona.
L’altra cosa che funziona è la fitta rete di connessioni che in questi anni i CPIA hanno saputo realizzare con il territorio, insieme ad associazioni, ed enti del terzo settore, ai centri per l’impiego, insieme a soggetti pubblici e privati, insieme alla formazione professionale, insieme a enti nazionali che in qualche modo sono legati al mondo del lavoro. Negli ultimi 2-3 anni la parola lavoro sta entrando in maniera forte nei CPIA, alcuni hanno anche organizzato degli sportelli di orientamento professionale e lavorativo in collaborazione con i centri per l’impiego, quindi è un luogo dove non c’è solo l’apprendimento ma è un luogo dove l’apprendimento può diventare anche funzionale e strumentale alla ricerca di un impiego Cos’altro funziona? Ce ne sono tante di cose che funzionano.
Sì, diciamo che le cose che funzionano sono superiori alle cose che non funzionano, anche se le cose che non funzionano spesso sono quelle più evidenti.
Cosa pensa della Formazione a distanza?
La FAD noi ce l’abbiamo nel DNA, già prima del Covid, noi facevamo FAD. Il regolamento, la nostra normativa, la prevedevano già dal 2012. Il Covid lo ha sdoganato nel senso che quella percentuale, cioè la FAD è diventata dominio di tutte le scuole, purtroppo il post-Covid lo ha nuovamente represso, ma noi continuiamo perché ci siamo resi conto che i nostri studenti erano più motivati a frequentare a distanza per tante ragioni: lavorative, professionali, familiari e non può venire fisicamente a scuola per questo le nostre iscrizioni sono aumentate, anche durante il Covid.
La FAD va sicuramente potenziata, nel senso che noi abbiamo due possibilità, due modalità di fruizione a distanza, la prima è quella che si chiama Aula Agorà, ossia il 100% di un percorso scolastico può essere fruito a distanza, purché il gruppo degli studenti si trovi a distanza però nello stesso luogo. Abbiamo utilizzato questa modalità del 100% a distanza in tre progetti conclusi da poco, utilizzando i fondi dell’articolo 23 (decreto Cutro) ossia abbiamo erogato il livello iniziale di conoscenza della lingua italiana a potenziali lavoratori che sarebbero venuti in Italia, in maniera regolare, completamente a distanza, un’opportunità perché ci consente di raggiungere sia in zone montuose oppure in zone periferiche del territorio persone che altrimenti non potrebbero frequentare, non potrebbero venire in presenza a scuola, ma con le opportunità di queste attività della formazione pre partenze abbiamo la possibilità di rivolgerci a persone che potenzialmente saranno nostri utenti perché dovranno completare il percorso, quindi in qualche modo li curiamo già prima della loro venuta in Italia.
C’è un’interlocuzione in questo momento con il Ministero per potenziare la quota FAD all’interno dei nostri percorsi per rendere in qualche modo strutturale non solamente come un’opportunità di personalizzazione del percorso.
Per risolvere il problema dell’organico immagina un sistema di intelligenza artificiale che sostituisce gli insegnanti?
Mi viene in mente quel bellissimo film di Alberto Sordi in cui decide di affidare la gestione della sua vita a un robot con le conseguenze che ne derivarono. Spero che non si arrivi a una situazione simile, credo che l’intelligenza artificiale, oppure le nuove tecnologie, possano aiutare, essere da supporto. Io sono un grande consumatore di tecnologia, in questo momento storico e rispetto alla nostra utenza possono essere un buon ausilio, ma non possono essere un ausilio completo, cioè non possono sostituire completamente il lavoro che fa, ad esempio, un insegnante per due ragioni fondamentali: una è legata al fatto che la nostra utenza non sempre ha competenze digitali adeguate, quindi bisognerebbe prima fare una sorta di programma di alfabetizzazione digitale a tappeto; seconda cosa, spesso queste persone sono anche portatori di una personalità, siamo adulti, hanno bisogno di essere ascoltati prima che di essere fruitori di un apprendimento.
Chi viene da noi si mette in gioco, in gioco veramente, perché io vedo la sera, delle mamme, delle donne che stanno qui fino alle dieci di sera a imparare, magari hanno i figli a casa, ma perché? Perché gli insegnanti non fanno solo gli insegnanti, curano anche aspetti relazionali, emotivi, di attività da proporre in gruppo, quindi c’è quella dimensione relazionale che forse una macchina non può soddisfare. Il nostro target è troppo diversificato per poter generalizzare, quindi non bisogna mai, anch’io non voglio generalizzare, in alcune situazioni potrebbe essere efficace e funzionale, in altre situazioni forse la macchina o un’intelligenza artificiale magari non funziona, noi siamo la scuola del lavoro, bisogna lavorare caso per caso, situazione per situazione, persona per persona, quindi in relazione alle esigenze, alle possibilità, alle opportunità, alle competenze che queste persone hanno. Io lo posso immaginare un lavoro di apprendimento fatto direttamente con una macchina, dove non c’è l’insegnante fisicamente, però non in maniera generalizzata.
NOTE
1 Il decreto Cutro è il decreto-legge (DL) n. 20 del 2023, convertito in legge (L.) n. 50 del 2023