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cos’è il made in italy
di Ida Molaro
Saper fare e saper come fare Due concetti, da non confondere tra loro, che rappresentano compiutamente l’essenza del made in Italy. Insieme di caratteristiche, tradizioni, sapori – da tempo si cerca di regolamentare l’italian sound, ossia la storpiatura dei nomi di prodotti enogastronomici per farli passare come nostri – che rendono il Belpaese il Bengodi degli amanti del lusso, del buono e del bello. E non solo.
Perché se il “Saper fare” racconta di mani esperte nel cucire pelli o sete pregiate, nel cesellare oro e nel creare perfetti oggetti del desiderio, è Il saper “come” fare ad aver consacrato le piccole e medie imprese italiane nel Gotha delle eccellenze mondiali anche in settori molto specializzati e quasi sempre sconosciuti ai più.
Quella della “De Lorenzo” è, ad esempio, una storia esemplare. Presente in 140 Paesi nel mondo, ha sede a Rozzano alle porte di Milano ed esporta Formazione ovunque ci sia necessità di personale qualificato o di far partire una nuova impresa. Lo fa con 55 appassionati dipendenti – che si ritrovano a ballare, uscire e festeggiare insieme i successi lavorativi –, con un agente in ogni angolo del globo e con un’idea tanto semplice quanto geniale: riprodurre in scala senza il minimo margine di errore qualsiasi macchinario industriale vi venga in mente. Pale eoliche e galleria del vento comprese. I loro simulatori, pensati innanzitutto per gli Istituti professionali, consentono - ad esempio – agli aspiranti elettricisti di esercitarsi su circuiti elettrici reali progettati – in dimensioni ridotte - come stanze di appartamento o locali industriali veri e propri.
Nata negli anni ‘50 dall’intuizione di Ugo De Lorenzo, un ex militare, dopo un breve passaggio di mano a una holding bancaria, negli anni ’80 viene rilevata da Luciano Prosperi che la guida tuttora con i figli Filippo e Matteo. E se un marchio autorevole non si cambia per non disperdere un patrimonio di credibilità in un mercato altamente specializzato, l’unica variazione apportata dal nuovo proprietario fu l’adozione del colore giallo (di immediata riconoscibilità, ci dice Filippo) per contraddistinguere i loro modellini e simulatori. Duemila moduli didattici (il loro patrimonio materiale) a disposizione di tecnici e aspiranti tali in tutto il mondo - aggiornati e ampliati per seguire l’inevitabile evoluzione delle produzioni - dal Messico al Nord Africa, fino alle Maldive perché, spiega ancora Filippo Prosperi, ovunque ci sia bisogno di creare impresa serve chi sappia come farla e sappia poi insegnare a gestirla a chi ci lavorerà. Ed è a lui che chiediamo il perché di un successo al 100% italiano. “Testata la validità del nostro pacchetto tutto compreso – simulatori + formatori – veniamo percepiti competenti, seri e onesti. Una caratteristica tutta italiana è quella di saper ascoltare e risolvere le esigenze specifiche di ogni singolo cliente. Siamo elastici, come nessun altro sa essere”.
Su elasticità e visione si fonda anche la seconda storia scelta per raccontare “l’altro made in Italy”.
Nome inglese “Trusty” (letteralmente fidato), cuore italiano per la società benefit specializzata nella tracciabilità delle filiere agroalimentari e nella conformità normativa delle filiere stesse.
Se per noi consumatori europei è scontato trovare sulle confezioni alimentari, grazie a un software ormai standardizzato, tutte le informazioni relative al ciclo produttivo – ed entro fine anno anche le garanzie di rispetto dell’etica ambientale e sociale delle direttive UE contro la deforestazione – così non è per il resto del mondo. E qui entra in gioco la visione di un gruppo di trentenni capitanati da Alessandro Chelli (nella foto insieme alla projetc manager Rossella Guarnieri e alla comunication manager Sara De Grossi) che ha voluto fare del rispetto dell’ambiente e del lavoro una filosofia aziendale e di vita. Si è partiti così dall’idea di tracciare tutta la strada percorsa dai semi del cacao e dai chicchi del caffè per arrivare sulle tavole e nei supermercati. “Offrire queste informazioni - spiega il Ceo Chelli – aumenta il valore di mercato dei prodotti vista la maggior sensibilità dei consumatori per le tematiche green, e premia le aziende davvero virtuose”. 60mila le particelle – contadini e piccoli imprenditori – connessi nella rete creata dai giovani italiani tra Costa d’Avorio, Colombia e da poco anche Asia per rispondere alle richieste di 150 clienti tra i principali produttori europei e mondiali.
Al co-fondatore della Trusty abbiamo chiesto perché la loro Società rappresenta un esempio di eccellenza italiana. “Per la capacità dimostrata di risolvere problemi in contesti diversi – ci risponde - che stride con la rigidità di altri sviluppatori. Siamo tenaci, e all’estero ce lo riconoscono tutti, perché se non esiste una soluzione, noi la costruiamo”.
Torniamo alla premessa iniziale, cioè che non esportiamo solo lusso ma anche competenza. E per dimostrarlo è interessante raccontare il “caso Dubai”.
La prima immagine cui tutti pensiamo è quella del lusso per eccellenza, dalle auto ai gioielli, dalla pelletteria all’abbigliamento. Tutto vero, ma sono soprattutto i prodotti ad alta tecnologia – insieme all’agroalimentare - a trainare l’export verso la città della movida degli Emirati Arabi. Intelligenza artificiale, robotica e blockchain i campi emergenti che vedono il Tricolore tra i partner più affidabili per una clientela molto esigente.
E poi c’è la Cultura, patrimonio immateriale e universale dell’umanità dalle grandi potenzialità anche economiche. Lo sa bene Benedetta Paravia filantropa e imprenditrice figlia d’arte (la sua famiglia è stata pioniera e leader nella produzione, installazione e manutenzione di ascensori) che ha deciso di investire su arte e bellezza. Sua l’idea del “La Dolce via Festival” per raccontare il cinema italiano negli Emirati. Un appuntamento da cui è nata l’idea di una masterclass cinematografica per promuovere carriere nel settore tra i giovani emiratini e incentivare percorsi di studio in Italia.
A lei la testimonianza di cosa serve per sostenere all’estero “l’altro made in Italy”
Che sostegno può dare il sistema Paese a chi come Lei è impegnata a promuovere il marchio Italia?
Il primo passo è smettere di comportarsi come un genio distratto e iniziare a strutturare tutto quello che può essere riassunto nella parola “incanto”. Siamo il Paese delle eccellenze ma sembriamo spesso dimenticarlo lasciando che altri raccontino – o peggio imitino – ciò che solo noi sappiamo fare con autenticità
In concreto?
Servono tre cose fondamentali. La prima è il coraggio politico di investire strategicamente nella diplomazia economico-culturale perché oggi promuovere il made in Italy non significa solo esportare prodotti, ma esportare visione, valori e stili di vita. Anche nella costruzione di un Expo si fa ricorso alla narrazione e non c’è narrazione senza sistema. La seconda cosa è il sostegno concreto all’imprenditoria creativa femminile. Le donne italiane portano avanti tradizione e innovazione con uno spirito pioneristico che merita strumenti, visibilità e credito, in ogni senso. Terzo punto, la capacità di agire come una nazione-azienda con una regia centrale che sappia coordinare le eccellenze, evitare dispersioni e presentarsi al mondo con una voce unica e autorevole. Se l’Italia venisse gestita come un brand globale, con una strategia integrata e misurabile, il Made in Italy diverrebbe il primo valore d’esportazione del Paese.
Gli Expo servono a questo: fare vetrina
Un buon segnale è che per Osaka sia stato scelto Mario Vattani che si è fatto promotore di un’idea forte di Italia: un Paese che non si limita a raccontare la bellezza ma che la pianifica, la difende e la esporta con intelligenza collettiva.
Per non sbrodolarsi lodandosi troppo, sono i numeri a restituirci in modo oggettivo la voglia di made in Italy che c’è nel mondo. Se nel resto d’Europa le micro e piccole imprese con il loro export rappresentano mediamente l’1,6 % del Pil, quelle italiane viaggiano a velocità doppia con una percentuale del 3,3%. Una crescita diretta conseguenza dall’aver intuito, ormai da anni, che si può anche restare piccoli o piccolissimi, purché si faccia rete, soprattutto attraverso i distretti territoriali.
Ancora qualche cifra per comprendere l’Italia del saper fare. Nello scorso anno sono nate 83.586 imprese artigiane, al ritmo di 321 al giorno, e negli ultimi sei anni, 502mila giovani under 30 sono stati formati e avviati al lavoro con il contratto di apprendistato nelle imprese artigiane (dati Confartigianato). Un mondo a dimensione di donna visto che il 99,7% delle imprese femminili è di micro o piccola dimensione.
A livello istituzionale ad agevolare le Pmi che vogliano esplorare i mercati oltre confine, oltre che le associazioni di categoria, c’è l’E-book Export. Vero e proprio decalogo digitale messo a punto dal Ministero degli Esteri pensato – spiega il sito della Farnesina – per le imprese che ancora non sono presenti sui mercati esteri o non lo sono in maniera stabile.
In pratica un elenco ragionato degli strumenti pubblici a supporto di chi voglia esportare.
A questo punto vale la pena fare una breve riflessione: a trainare il made in Italy è in primo luogo lo Stile Italia. Sembra un gioco di parole ma non lo è. Perché se è vero che i prodotti, materiali o immateriali, delle aziende italiane puntano su estro e qualità, i migliori ambasciatori dello stile tricolore sono proprio gli italiani all’estero.
Ce lo racconta Salvo Iavarone, presidente di Confinternational e di Asmef (Associazione Mezzogiorno Futuro).
Esistono molti italiani che hanno raggiunto il successo, avendo lavorato con fantasia e ingegno. Senza andare a scomodare personaggi come Amadeo Giannini (il fondatore della Banca d’America) in tanti hanno disegnato percorsi di successo. Un esempio? Premiata a Washington nel 2019 con il Premio Eccellenza Italiana, la famiglia Marra, originaria di Santa Lucia a Napoli, che da 12 anni produce i forni delle pizze in America, nello Stato del Maryland, appena fuori Washington DC. Nati con le importazioni food dal nostro Paese, hanno sviluppato anche Pizza University and Culinary Arts. Ma potrei citare anche Ettore Colussi, che partendo dal nulla, ha creato in Santo Domingo un impero turistico, con alberghi e resorts, dando lavoro a 1500 dipendenti.
Esempi eccellenti e poi?
Gli italiani iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiana Residenti Esteri) sono circa sei milioni, ma se andiamo a esplorare il vasto mondo che associa quelli di seconda e terza generazione arriviamo a immaginare 70/ 80 milioni circa, secondo studi della Farnesina. Una popolazione superiore a quella contenuta nei confini nazionali. Parliamo di persone nate in Argentina, negli States o in tanti altri Paesi e che hanno il padre o il nonno nato in Italia. E in molti casi conservano una forte identità italica. Nel senso che coltivano il ricordo e l’amore per il proprio paesino di origine, ma amano e rispettano anche la Nazione che li ha accolti regalando loro successo economico e sociale.
Un mondo idilliaco…
Un mondo con tante sfaccettature. Dalla CIM (Confederazione Italiani nel Mondo, di cui sono vicepresidente, abbiamo lanciato spesso messaggi e idee per mantenere viva l’identità italiana. Una proposta interessante mi sembra quella lanciata alle Camere di Commercio Italiane all’estero. Un arcipelago di 93 sedi nel mondo facente capo ad Unioncamere, a cui si propose di creare delle strutture da mettere in sinergia con i tanti italiani desiderosi di acquistare qualche appartamento nei borghi d’origine per recuperare radici ma anche un patrimonio storico e architettonico di grande attrattiva per chi sogna il suo angolo di paradiso nel Belpaese. Presentammo un progetto ad hoc. Dopo i primi commenti positivi, ora siamo in attesa di sviluppi.
Altra realtà interessante da esplorare è proprio quella delle Camere di Commercio che dall’iniziale vocazione di enti di promozione territoriale attraverso vere e proprie vetrine del “meglio di” si stanno evolvendo sempre più in punti di incontro per imprenditori che guardano oltre confine. Antesignana di una visione internazionale, Eurochambres nata nel lontano 1958 per connettere le rappresentanze di categoria degli Stati fondatori dell’Unione europea. Oggi i suoi numeri sono impressionanti: 20 milioni le imprese connesse attraverso una rete di 1700 camere di commercio regionali e locali in tutta Europa. E le imprese associate alle camere di commercio - oltre il 93% delle quali sono PMI - impiegano oltre 120 milioni di persone. (dati forniti da Eurochambres)
È del mese di maggio di quest’anno l’apertura di una sede di rappresentanza della Camera di Commercio francese a Roma – dopo quella di Napoli del 2023 - che si aggiunge alla storica presenza dell’Ente aperto a Milano fin dal 1885. “Perché se per chi fa affari la capitale economica di Italia resta il capoluogo lombardo – ha detto in occasione dell’inaugurazione il presidente della CCI France Italie Denis Delespaul - Roma non è solo il cuore geografico dell’Italia, ma soprattutto il suo centro nevralgico istituzionale. La scelta di aprire una nostra sede qui è frutto della volontà di consolidare il nostro ruolo come interlocutore economico credibile, al fianco delle imprese e delle istituzioni, per sostenere l’internazionalizzazione, lo sviluppo e l’innovazione nei territori.”
Sono le tre parole del presidente Delespaul: internazionalizzazione, sviluppo e innovazione, a suggerire la strada per le Pmi che vogliano crescere nei mercati esteri mantenendo alti gli standard di qualità. Per farlo, e qui entra in gioco il ruolo della politica, quello che piccolissimi, piccoli e medi imprenditori chiedono prioritariamente al governo è la sburocratizzazione delle procedure e politiche attive per la formazione professionale dei giovani.
Per non morire sepolti da faldoni e non disperdere un patrimonio di saper fare e sapere come fare che resta il segreto del made in Italy.