SPECIALE EVENTO

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Elisa Pandolfi

“ETICA, ECONOMIA E LEGALITÀ”

EVENTO DELL’ENTE NAZIONALE PER IL MICROCREDITO ALLE SCUDERIE

DI PALAZZO ALTIERI

L’Ente Nazionale per il Microcredito sta promuovendo un ciclo di incontri per sostenere le ragioni del microcredito e della finanza etica all’interno del mondo del lavoro.

In questa occasione, l’incontro “ETICA, ECONOMIA E LEGALITÀ” all’interno delle Scuderie di Palazzo Altieri, con il Presidente Patuelli e con la lectio magistralis di Sua Eminenza Monsignor Rino Fisichella, che si sono soffermati sulle regioni dei valori che sottendono al lavoro e su quanto la persona sia il centro del nostro agire.

Di seguito riportiamo gli interventi della giornata.

Antonio Patuelli

Presidente dell’Associazione Bancaria Italiana

Il tema di questo pomeriggio ci sta particolarmente a cuore, quindi non è solamente ospitare ma cercare di partecipare intellettualmente e intensamente a questa riflessione.

Etica, economia e legalità, sono dei presupposti delle attività economiche a cominciare da quelle più complesse, che se mi permettete, sono quelle bancarie, perché sono l’anello di congiunzione di tutte le attività di carattere economico e quindi la legalità è il presupposto fondamentale. Vorrei essere chiaro, la legalità non è il massimo dell’etica, è il minimo obbligatorio per tutti dell’etica, è il minimo codificato, chi va sotto l’asticella della legalità commette un reato, ma non è vietato, rispetto all’asticella della legalità avere comportamenti più rigorosi, più prudenziali e più etici. Questo è il punto chiave, non deve essere confusa l’asticella della legalità con il massimo dell’etica, quando è invece il minimo dell’etica. La ricerca soprattutto in economia dell’etica è un obiettivo fondamentale. Sono molto legato a un principio, ovvero sia, che se un’operazione economica è rispondente alla legalità è legittima è giuridicamente permessa ma contrasta con l’etica anche se è permessa l’etica di ciascuno, chi ne sente il valore deve far sì che non ponga in essere quella operazione economica.

Noi, l’etica la decliniamo al singolare, in effetti dovremmo declinarla al plurale, vi sono varie sensibilità etiche, debbo dire che nei decenni le varie sensibilità etiche, almeno in Italia hanno superato delle obiezioni antiche e degli steccati che avevano le radici in due secoli fa. Chi ha letto come voi tutti con attenzione la dottrina sociale della Chiesa, almeno nel suo compendio, ha certamente notato che il respiro della dottrina sociale non è un respiro Nazionale e non è nemmeno un respiro Europeo ma è un respiro Mondiale, è un respiro che supera quelli che sono stati gli eventi storici che si sono sovrapposti negli ultimi secoli, perché punta a definire la valorizzazione dei diritti e delle responsabilità della persona, di ciascuna persona di qualsiasi continente ed estrazione, perché vi è l’uguaglianza del minimo della dignità della persona umana.

Le altre etiche sono quelle che vengono da altre esperienze, da altri filoni, in Italia sono le etiche risorgimentali, le etiche laiche, che non hanno più quel conflitto antico che durò più di un secolo e che ha poi avuto un più facilitato confronto da ormai un quarantennio.

Il nuovo concordato di cui è stato ricordato nei mesi scorsi, il quarantennale e di cui rivolgo un pensiero grato anche alla parte ecclesiastica. Il Cardinale Silvestrini che lo negoziò per la Santa Sede.

L’etica deve venire in rafforzamento della legalità, innanzitutto in tutte le attività dell’economia che hanno oggi come primo obiettivo la lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, ovunque esso sia.

Mario Baccini

Presidente dell’Ente Nazionale per il Microcredito

I valori che portiamo avanti contraddistinguono l’operato dell’Ente Nazionale per il Microcredito che nasce per la lotta contro l’esclusione sociale e finanziaria in Italia e nel mondo. Ciò che attraverso l’azione microfinanziaria vogliamo portare a termine è un’azione etica che rappresenta quell’economia sociale e di mercato che si contrappone ad un automatismo del mercato che non valorizza la persona e i suoi bisogni.

Per far conoscere le best practices che portiamo avanti sin dal 2005, anno internazionale del microcredito, istituito dalle Nazioni Unite, creiamo un dibattito intorno a quello che per noi rappresenta un’azione valoriale ed etica.

Nella sede dell’ABI vogliamo sostenere i nostri principi, confrontandoci da un lato con il mondo bancario, che sostiene i nostri progetti economico finanziari e dall’altro con la chiesa di Francesco che attraverso le parole di Sua Eccellenza Monsignor Rino Fisichella esprime bene e interpreta i valori etici del lavoro, come dimensione di espressione umana di libertà e Indipendenza.

La dialettica sviluppata nell’incontro in ABI è incentrata su tre temi – etica, economia e legalità – sui quali il pensiero filosofico, economico e giuridico ha riflettuto a lungo e che sono al centro della dottrina sociale della Chiesa. Si tratta di questioni che richiedono una visione d’insieme perché si rivelano sempre più interconnesse, si condizionano a vicenda e riguardano tutta la famiglia umana.

Questo vuol dire che dobbiamo sempre partire dall’uomo, dell’intangibilità della sua dignità e dalla valorizzazione della sua dimensione relazionale. Occorre che tutti i programmi sociali, economici, scientifici e culturali, siano presieduti dalla consapevolezza del primato di ogni essere umano, che non deve essere visto in modo riduttivo nella sua individualità, ma deve essere proiettato verso il prossimo, perché l’ “io” si realizza solo in riferimento al “tu”, esce da se stesso, dalla conservazione egoistica della propria vita, per entrare in una relazione di dialogo e di comunione con l’altro.

Per tale motivo, ogni progresso del sistema economico non può considerarsi tale se misurato solo su parametri di quantità e di efficacia nel produrre profitto, ma va commisurato anche sulla base della qualità della vita che produce e dell’estensione sociale del benessere che diffonde.

Il benessere, perciò, va valutato con criteri più ampi della dimensione del prodotto interno lordo di un Paese, dovendo invece tener conto anche di altri parametri, quali – parafrasando il pensiero del premio Nobel per l’Economia, Amartya Sen, relativo al “benessere interno lordo” - la sicurezza, la salute, la crescita del capitale umano, la qualità della vita sociale e del lavoro. E il profitto va certo perseguito, ma mai “ad ogni costo”, né come fine ultimo dell’azione economica. Ad esempio, commercializzare prodotti o servizi di per sé leciti, in una situazione di asimmetria informativa, approfittando delle lacune cognitive o della debolezza contrattuale di una delle controparti, costituisce di per sé una violazione della debita correttezza relazionale, prima ancora che della norma di specie, ed è una grave infrazione dal punto di vista etico, prima ancora che giuridico.

Un sistema economico e finanziario sano ed etico esige, pertanto, anche la massima informazione possibile, così che ogni persona, fisica o giuridica, possa tutelare in piena libertà i propri interessi e compiere scelte consapevoli. Vorrei approfittare, solo per un attimo, del fatto di trovarci nella sede dell’ABI per sottolineare ciò che il Presidente Patuelli ha più volte ribadito con forza, cioè come sia importante sapere in che modo i nostri capitali vengono impiegati, così come conoscere chiaramente il grado di rischio e la congruità del prezzo dei prodotti finanziari che si sottoscrivono. E come, per altro verso, nel momento in cui l’industria finanziaria offre prodotti di risparmio o di credito, essa stessa debba essere pienamente consapevole dell’impatto ambientale, sociale e di governance che potranno essere generati. L’avanzare della cosiddetta finanza sostenibile può certamente favorire questo processo che tende a coniugare profitto ed impatto; è importante che le banche e gli intermediari non vivano questo momento come sola necessità di risposta al regolatore.

In definitiva, credo che occorra sviluppare una nuova economia, più attenta ai principi etici, neutralizzando gli aspetti speculativi e valorizzando il servizio all’economia reale, le cui prassi e regole siano rivolte al progresso del bene comune e rispettose della dignità umana.

In questo ci può aiutare rileggere l’Enciclica “Fratelli tutti”, sulla quale l’Ente Nazionale per il Microcredito ha promosso i primi due appuntamenti di questo ciclo di conferenze, in Senato e alla Camera, con Monsignor Galantino e con il Cardinale Gambetti. Gli altri si sono svolti al CNEL, in Banca d’Italia, in Confindustria e hanno rappresentato un’occasione preziosa per riflettere a fondo sul senso dell’economia e del lavoro nella società odierna, in un mondo ancora contrassegnato da disuguaglianze, disoccupazione e vulnerabilità di ogni tipo. Nella “Fratelli tutti”, Papa Francesco afferma chiaramente che l’attività economica va esercitata secondo una visione etica, che metta al centro lo sviluppo integrale dell’uomo, promuovendo la dignità della persona ed il bene dell’intera società; così ci ricorda come la prima declinazione di questa visione etica dell’economia sia il riconoscimento del diritto ad un lavoro dignitoso per tutti: un obiettivo doveroso per ogni sistema economico e giuridico che sia orientato alla giustizia e al bene comune.

La stretta relazione tra etica ed economia, dove il punto di riferimento non è il perseguimento del massimo profitto ma la promozione umana e sociale delle persone, è anche alla base di quella “economia sociale di mercato” che ha ispirato la “via italiana al microcredito”: un’esperienza ormai consolidata, che l’Ente Nazionale per il Microcredito ha promosso e portato avanti con determinazione, a partire dall’appello lanciato nel 2005 dall’allora Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan, al fine di combattere la povertà e l’esclusione sociale e finanziaria.

Voglio qui ribadire come il microcredito si configuri quale vero strumento di finanza etica, inclusiva e solidaristica, che considera l’accesso al credito un diritto della persona, al pari di altri diritti fondamentali: il diritto di creare una famiglia, di avere un’abitazione ed un lavoro dignitoso, il diritto alla sicurezza sociale, alla salute, al benessere, all’istruzione. In questo senso, il microcredito ha un risvolto importante in termini di sviluppo, perché innesca un circolo virtuoso che consente di far emergere le potenzialità degli individui, portando benefici anche al territorio nel quale vivono. Potremmo certamente dire – senza timori di importanti smentite – che il microcredito è lo strumento che ha anticipato questo recente trend della finanza sostenibile. Il microcredito, infatti, è strumento di mercato a tutti gli effetti, ma si distingue per caratteri tecnico-economici che sanno mettere in relazione le dimensioni classiche della finanza – rischio e rendimento – con quelle dell’etica che guarda all’impatto sociale generato.

Anche grazie al ruolo fondamentale svolto dai servizi obbligatori di tutoraggio e accompagnamento, il microcredito è in grado di produrre importanti risultati, tanto sul piano economico quanto su quello sociale ed occupazionale: facilitando l’accesso ad un credito sano; favorendo la creazione di nuovi posti di lavoro; promuovendo processi di empowerment; sviluppando capitale sociale; prevenendo fenomeni di usura o di sovraindebitamento; contrastando l’economia sommersa.

Prima di concludere, desidero richiamare brevemente un passo biblico relativo alle norme da osservare negli anni giubilari, che allora si celebravano ogni 50 anni. Dice il Libro del Levitico al capitolo 25 che, nell’anno del Giubileo, le terre saranno restituite ai proprietari originari, i debiti saranno condonati, gli schiavi saranno liberati, tutti torneranno alle loro città ed alle loro famiglie. Tali prescrizioni, volte a combattere la povertà e la disuguaglianza, assicurare la stabilità di una società fondata sulla famiglia e sui beni familiari e promuovere un’equa distribuzione della terra, si fondano sull’idea che la terra appartiene a Dio ed agli uomini è stata solo affidata; nessuno, pertanto, può arrogarsene il possesso esclusivo, creando o tollerando situazioni non eque.

Potremmo dire che si tratta di una applicazione ante litteram dell’integrazione tra etica ed economia. Sulla scia di queste prescrizioni bibliche, la Conferenza Episcopale Italiana ha annunciato nei giorni scorsi una propria iniziativa in vista del Giubileo del 2025, affidando alla Caritas Italiana lo studio di un progetto di microcredito sociale che preveda l’istituzione di un fondo volto al sostegno di quanti hanno difficoltà ad accedere al credito ordinario, con il supporto di servizi di accompagnamento delle persone. Sarà un progetto che non si esaurirà nell’intervento economico a favore dei singoli, ma che coinvolgerà e impegnerà le Chiese locali nella loro pluralità di soggetti, con l’ulteriore obiettivo di far crescere la rete delle Caritas locali e delle Fondazioni antiusura diocesane.

L’Ente Nazionale per il Microcredito, che possiede una competenza specifica sulla progettazione e realizzazione delle iniziative di microcredito, esprime la piena disponibilità a collaborare alla definizione ed alla gestione di questo nuovo importante progetto, in sinergia con la CEI, la Caritas ed ovviamente con il Suo Dicastero, egregio Monsignore, in quanto incaricato direttamente dal Santo Padre di preparare e celebrare gli eventi del prossimo anno giubilare.

Così pure, prima di chiudere, mi piace rivolgere un invito ai padroni di casa dell’iniziativa odierna. Lo sviluppo del mercato del microcredito richiede in questa fase uno sforzo collettivo; questo non deve essere prodotto solo in casa propria, ma anche guardando a sinergie e possibili partenariati.

Le banche, in questi anni, hanno sostenuto lo strumento microcreditizio con iniziative meritorie; il legislatore – su input dell’Ente Nazionale per il Microcredito – ha messo a disposizione anche strumenti che facilitano azioni di sistema; la necessità di far crescere le dimensioni operative e gestionali degli Operatori di Microcredito, ad esempio, può passare da canali di doppia intermediazione, promossi dal sistema bancario, a valere sulla garanzia attiva per operazioni simili presso il Fondo Centrale per le PMI. Anche in tale ottica la disponibilità dell’ENM a collaborare in modo attivo è piena, e pienamente confermata.

S.E. Mons. Rino Fisichella

Pro-Prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione - sezione per le questioni fondamentali dell’Evangelizzazione nel Mondo

Nel suo primo documento programmatico del pontificato, Evangelii gaudium, Papa Francesco ha fatto riferimento ad “Alcune sfide del mondo attuale”; la prima con cui confrontarsi è quella della “Economia dell’esclusione”. Scriveva il Papa: “Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in sé stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive” (EG 53).

Si può sempre discutere quando si parla di economia perché alla base si possono avere diverse visioni del mondo e teorie differenti della stessa materia; e, tuttavia, nel testo si trova qualcosa che non può lasciare indifferenti: “Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” … con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive”. Il discorso, come si nota, non è in primo luogo riferito all’ordine economico, ma fa riferimento al senso stesso di appartenenza alla società di riferimento. Elemento essenziale per la vita personale di chiunque. L’economia per sua stessa natura è un voler mettere ordine in casa; alla base, come si sa, vi è il concetto di oikos che esprime accoglienza, familiarità, sicurezza, certezza… in una società dove diventa sempre più evidente la sproporzione tra ricchezza e povertà sarà inevitabile soffermarsi per cercare di comprendere non solo le cause economiche da cui deriva la sproporzione, ma soprattutto se è realmente presente il principio da cui tutto dovrebbe trarre origine: l’etica.

Semantica di un termine

Questo riferimento diventa obbligatorio nel momento in cui veniamo a confrontarci con una nuova cultura, quella digitale, che presenta alcuni tratti da cui emerge in maniera netta una nuova concezione antropologica di cui ancora non c’è piena consapevolezza nelle sedi dovute per l’entusiasmo emotivo delle conquiste tecnologiche che portano a risparmio di tempo e ovviamente a maggior incremento finanziario. La tecnologia è figlia primogenita della scienza e pensare di demonizzarla equivarrebbe a non comprendere l’uomo stesso che ne è il produttore. Il progresso tecnologico sembra inarrestabile e per questo si impone ancora di più il riferimento all’etica perché vi sono direttamente coinvolti l’uomo, la società e le rispettive comprensioni e interpretazioni che ne derivano.

Solo a livello di esemplificazione, si può far riferimento a fatti dei nostri giorni con notizie della stampa. “IA. Negli Usa volano i compensi degli esperti. C’è chi tra le aziende è disposto a pagare cifre esorbitanti per un esperto di IA. Secondo il Wall Street Journal i datori di lavoro sono a caccia di data scientist ed esperti di machine learning e sono disposti a offrigli stipendi a sei cifre”. A questa notizia bisogna aggiungerne subito un’altra apparsa il giorno dopo su un altro quotidiano, che ne ridimensiona la portata. “Il New York Times dichiara guerra all’IA. Il quotidiano Usa ha infatti deciso di bloccare il web crawler (un software per la raccolta di dati internet) di OpenAI, impedendo così alla società che ha generato ChatGPt di accedere agli articoli e ai contenuti del giornale per addestrare i suoi modelli di intelligenza artificiale. Non solo. Il New York Times si starebbe anche preparando a fare causa a OpenAI per violazione del copyright”. Tralasciare l’aspetto economico sarebbe ingenuo e non si addice a quanti intendono studiare il fenomeno per comprenderne la natura e gli effetti che produrrà nella vita delle persone. Dall’altra parte, si nota il rovescio della medaglia. L’autore “umano” non intende essere strumentalizzato dall’autore “macchina”; quindi, non solo non gli fornisce materiale che a questo è vitale per produrre, ma tanto per cambiare lo porta in tribunale per essere risarcito nella violazione del copyright. Siamo solo all’inizio e quanto sarà il futuro è solo facile immaginarlo.

Con l’IA si deve subire inevitabilmente un limite alla privacy. Che piaccia o no, in molti casi viene richiesto il riconoscimento facciale per procedere. Il fatto non è indolore perché porta con sé la lettura da parte dell’IA dei sentimenti, delle emozioni e delle qualità connesse. La notizia può sorridere, ma negli Usa è allo studio un sistema di riconoscimento facciale in grado di riconoscere l’età della persona. Al momento il dibattito verte su un duplice versante: da una parte, ben accolto perché in questo modo si potrebbe proibire l’accesso ad alcuni siti di video giochi o di pornografia; dall’altro negativo perché intaccherebbe la privacy delle persone in quanto il rischio di precisione della scoperta ancora varia nell’individuazione dell’età con una forbice di 2-3 anni. D’altronde, questa tecnica richiede che l’utente si faccia un selfie che il solito algoritmo dovrà analizzare per assicurarsi che si tratta di una persona vera e non di un robot, che non sia una fotografia e neppure un falso… Insomma, anche la famigerata “identità digitale” così tanto decantata come soluzione per numerosi problemi porta con sé inevitabili limiti per la vita delle persone, perché sottoposta all’alchimia dell’algoritmo di turno.

L’immenso interesse economico e finanziario, che sta alle spalle e di cui pochi conoscono i referenti, allora è urgente domandarsi come porsi coscientemente di fronte a questa sfida della scienza. In questi giorni, tante persone hanno conosciuto direttamente la problematica connessa per l’aumento ingiustificato dei prezzi. La tecnologia porta a sfruttare situazioni per il guadagno esagerato di pochi e le difficoltà economiche di molti. Si pensi solo all’uso dell’algoritmo delle compagnie aeree che determinano gli improvvisi rincari dei biglietti. Questo algoritmo, infatti, sembra che sappia calcolare per quanti navigano nel web alla ricerca del biglietto aereo a miglior prezzo, dove abitano, quanto guadagnano, quanto spendono al mese e perfino il modello di cellulare con cui si connettono al sito della compagnia aerea… tutti questi elementi vengono esaminati dall’algoritmo che determina il costo del biglietto. Pratiche inaccettabili in una società e che, tuttavia, sono all’ordine del giorno per il proliferare di proposte e di richieste realizzate attraverso la tecnica del web.

Per diverso tempo, l’etica è apparsa a molti come un trattato filosofico di altri tempi che poco o nulla ha da spartire con la vita quotidiana. Non è così. Fortunatamente, aumenta la sensibilità e la consapevolezza che conduce a riprendere interesse per il tema, e perfino l’urgenza la sua presenza nel dibattito pubblico. All’etica si guarda di nuovo con non celato interesse, con un pizzico di passione e un po’ di curiosità per verificare se realmente è in grado se non a risolvere molti problemi che stanno sul tappeto della storia di questi decenni, almeno a offrire un orientamento che permetta di uscire dall’incertezza e dall’indifferenza.

Una riflessione sul termine stesso, comunque, non sarà ovvia soprattutto per togliere da quel conflitto di interpretazioni a cui spesso siamo tutti sottoposti. Scriveva Aristotele intorno agli anni 345-330 a.C.: “Nulla di imperfetto può ammettersi in ciò che appartiene alla felicità. Ma una vita di tal genere sarebbe superiore alla natura; poiché a nessuno gli sarà possibile vivere in questo modo in quanto uomo, ma solo perché vi è in lui qualcosa di divino. Tanto eccelle questa cosa sulla materia umana che tanto eccelle ogni sua attività sulle normali attività compiute. Se, dunque, l’intelletto è qualcosa di divino in confronto con l’uomo, anche la vita secondo l’intelletto sarà vita divina in confronto con la vita umana. Non conviene, quindi, seguire l’esortazione di quanti dicono che chi possiede una natura umana si deve limitare alle cose umane e a chi è mortale le cose mortali. Al contrario: conviene, per quanto possibile, farsi immortale e far di tutto per vivere secondo quella parte in noi che è la più eccellente: anche se piccola per misura, è superiore di gran lunga a tutte le altre per potenza e per dignità. E se questa parte è davvero quella superiore e migliore di tutte, si potrebbe anche dire che ciascuno si identifica con essa. Pertanto sarebbe assurdo che qualcuno scegliesse non la vita che gli è propria ma un’altra” 1.

Lo sforzo del filosofo appare davvero gigantesco. Egli propone all’uomo una meta sublime: la dignità del suo essere deve porsi in relazione con la vita del pensiero; essere uomo equivale ad avere autocoscienza di se stesso. Rinunciare a questa dimensione comporterebbe rinunciare alla propria natura e, quindi, rimanere relegato in uno spazio che non ci appartiene. Quando si parla di “etica” non si ha bisogno di alcuna qualificazione. L’etica –come si vedrà subito- è etica sic et simpliciter. Distinta dall’etica è la “morale”. Con questo termine identifichiamo l’agire della persona consequenziale alla sua fede. In questo caso esiste, chiaramente, una morale cattolica, luterana, mussulmana, ebrea… La distinzione sembra di lana caprina, ma non lo è. Poiché noi esprimiamo nel nostro linguaggio i concetti e il modo di vedere la realtà –anche se con il limite imposto al linguaggio stesso- con i due termini in questione evidenziamo che esiste un’etica che si costruisce alla luce della ragione e, pertanto, è universale e una morale che si presenta come conseguenza di una fede nella rivelazione. Non necessariamente le due si contrappongono, anzi; comunque, non si identificano. Se l’etica ha principi che sono universali per la forza della ragione che li produce, la morale cattolica avanza la pretesa della verità di Gesù Cristo che ha un valore universale. La prima, si accetta per via di ragionamento, la seconda per la libertà della fede. L’etica mostra la via della felicità, la morale quella della salvezza. Il ragionamento mostra la correttezza dell’agire, la fede evidenzia come la ragione non sia l’unica modalità della conoscenza e, pertanto, apre lo spazio a una visione più ampia dell’esistenza. L’etica si ferma alla soglia dell’umano, la morale prende l’umano e lo trasferisce oltre nello spazio del divino. Come si nota, esiste una relazione tra i due elementi, ma ognuno va qualificato per la peculiarità che possiede.

Come essere felice

L’etica, come scienza che studia il comportamento della persona, considera tra i suoi compiti particolari l’individuazione di quei principi che la ragione, come tale, coglie nel suo desiderio di essere felice. È merito di Socrate aver mostrato che l’individuo può andare oltre sé stesso e percepire qualcosa che lo trascende. La ragione indaga e comprende la distinzione tra il bene e il male, che ha valore per tutti. L’uomo, pertanto, non desidera mai il male ma scopo della sua vita è perseguire il bene che comprende come la sua felicità. La felicità si presenta ai nostri occhi come l’orizzonte ultimo del desiderio che, come tale, non viene immediatamente identificato con un oggetto materiale, ma come un valore, come qualcosa che può permettere di raggiungere in maniera veritiera e reale la felicità. Il grande filosofo Agostino descrive così questa dimensione: “Fine del bene non è là dove termina, sicché cesserebbe di essere, ma là dove raggiunge la compiutezza poiché ha la pienezza” 2.

Per esemplificare quanto dice il filosofo dovremmo dire che l’aumento dello stipendio o del capitale, un telefonino dell’ultimo grido o l’ultimo modello della Ferrari, l’acquisto di una nuova azienda o di un’intera banca possono rendere contenti e soddisfatti a un primo impatto, ma non sono come tali il valore a cui la volontà tende per essere felice. In questo spazio entra in gioco il libero arbitrio che tutti possediamo. Esso ha il compito determinante di compiere un giudizio; e questo non consiste nella scelta degli oggetti; quanto, piuttosto, nella scelta di ciò che permette la realizzazione della persona e della sua vera felicità. Le scelte che quotidianamente compio, quindi, sono sostenute dal mio libero arbitrio nella misura in cui accrescono in me la tensione verso la realizzazione piena della mia identità o, all’opposto, sono frutto dell’ignoranza e dell’emotività se allontanano dal perseguimento del mio vero bene e della mia personale maturità.

Ogni desiderio verso la felicità, comunque, è accompagnato dalla responsabilità. Ognuno deve “rendere conto” –questo significa essere responsabile- dei propri atti verso altre persone. Responsabilità deriva da re-spondere cioè assumere un impegno in cambio, assolvere un impegno. Ora, nessuno di noi può rispondere di un atto se questo non è veramente “suo”; ciò implica che prima di essere responsabile presso un altro, devo essere responsabile presso me stesso; devo, pertanto, riconoscermi come il vero autore del mio atto, come colui che con la propria scelta e libertà ha posto in essere un atto di cui sente la responsabilità. Questa considerazione porta a una prima conclusione: un mio atto sarà tanto più libero, quindi più sarà umano, quanto più sono presente a me stesso in ciò che desidero e in ciò che faccio. La libertà, a questo punto, suppone la lucidità sia nei confronti di me stesso e della coscienza che ho di me, sia nei confronti dell’oggetto che pongo come fine della mia volontà nella ricerca di essere felice. In altre parole, nessuno di noi è senza un desiderio di felicità; questo appartiene all’uomo in quanto tale e solo una forma patologica potrebbe allontanare da questa passione. Si deve aggiungere subito, comunque, che il desiderio non può rimanere come qualcosa di vago e generico; c’è bisogno che sia identificato e perseguito.

In questo momento entra in gioco la coscienza. Se la coscienza si assopisce e non è più in grado di giudicare in piena libertà e responsabilità i propri desideri e il fine verso cui tende, allora l’oggetto del desiderio non sarà mai chiaro e verrà spesso confuso ed equivocato. Che la coscienza sia l’ultimo giudizio è talmente vero che non ha bisogno di dimostrazione alcuna. Il cristianesimo, da questa prospettiva, a differenza di altre religioni che legano in maniera vincolante alla legge, ne ha sempre fatto un suo principio fondamentale. La coscienza, quindi, è realmente l’ultima istanza del giudizio etico. Se questa, tuttavia, non permane nella vigilanza, non è formata per arrivare al giudizio ed è assopita, stanca o compromessa quando deve identificare e comprendere il fine verso cui tendere, allora non sarà capace di individuare più il vero bene verso cui indirizzare se stessa e, pertanto, sarà una coscienza confusa o vittima dell’ignoranza.

Etica nell’impresa

Quanto abbiamo finora esposto è solo propedeutico per cercare di comprendere l’applicazione dell’etica all’impresa e al mercato. Sorgono inevitabilmente diverse questioni che toccano non solo la natura del mercato e dell’impresa, ma anche i contesti in cui questi nascono e si sviluppano. Sarebbe ingenuo nascondersi che viviamo in un contesto di globalizzazione tale che impone una lettura del fenomeno in termini rinnovati, oltre le tradizionali letture a cui si era abituati. Alla stessa stregua, diventa difficile fare un discorso generalizzato sull’impresa non considerando la diversa natura che queste possiedono, La riflessione, insomma, varia se si parla di un’impresa farmaceutica o di una spaziale. Il tasso di eticità con cui condurre la riflessione è evidentemente sottoposto a un differente impatto. Una cosa è se si parla del mercato delle arachidi e altra se si parla di mercato di organi umani. L’esemplificazione serve solo per evidenziare –se mai ce ne fosse bisogno- la complessità del rapporto etica, impresa, mercato, legalità e la diversa valutazione etica che ne deriva.

Uno sguardo molto generale al nostro tema mostra un’evoluzione nel concetto stesso di impresa. La teoria tradizionale inseriva l’impresa all’interno di uno schema concettuale piuttosto statico e meccanico; un luogo asettico, quasi neutrale privo di riferimento valoriale che fermandosi alle sole relazioni economico-sociali, di fatto prescindeva dal contenuto centrale: la persona. Il campo di ricerca si riduceva concretamente ad un esame di laboratorio, e l’impresa alla fine veniva relegata ad un semplice algoritmo che coniugava input e output 3 Una simile visione non considerava con lucidità uno degli scopi più immediati dell’impresa, vale a dire la soddisfazione del cliente e, pertanto, il miglioramento continuo dei prodotti e dei processi produttivi, avendo cura di costruire rapporti favorevoli, stabili e duraturi con tutte le parti che la compongono4. In altri termini, non si è riflettuto a sufficienza sulla natura dinamica dell’impresa che consiste nel sottoporre a verifica sistematica l’idea imprenditoriale5, nella sua funzione di motore di sviluppo e, quindi, di valore multidimensionale6. In una parola, abbiamo assistito a un adombramento nella rilevanza non solo dei problemi connessi con l’idea stessa di impresa e con i suoi risultati in prospettiva di crescita di un giusto benessere materiale, ma si è ignorato anche l’insieme di elementi necessari per comprendere e porre in essere una coerente cultura d’impresa.

Se si parte dalla prospettiva etica, è evidente che il primato spetta in ogni caso alla persona e ai valori che essa incarna nella realizzazione di sé e di ciò che compie. È bene ricordare che una simile prospettiva giunge a comprendere la persona che realizza l’impresa e che in essa vive si trova al crocevia dello sviluppo, dove rischio, sofferenza, incomprensione sono all’ordine del giorno e portano con sé una serie di doni quali la virtù, l’abilità, la fantasia, l’intelligenza, le conoscenze tecnologiche e scientifiche, le professionalità che ne derivano e, non ultimo, il capitale finanziario. Così, ad esempio, capire il modo in cui dalla fatica e dal sacrificio quotidiano si può produrre maggior sviluppo, oltre ad essere il compito principale dell’imprenditore e del dirigente, rappresenta un impegno razionale che trova a suo fondamento un’esigenza di natura etica e impone stile di vita corrispondenti.

Perché si possa procedere verso un’economia imprenditoriale che porti impressa in sé i segni indelebili di vera libertà è necessario che si pongano a fondamento una visione antropologica che sorregge lo stesso impianto etico. Perché questo avvenga, è importante evitare di rimanere impantanati tra un moralismo ottuso e un razionalismo dogmatico; ciò che serve, piuttosto, è inserire l’idea di impresa e di imprenditorialità all’interno di una dinamica più vasta dove l’agire economico è all’interno di un dinamismo più ampio e onnicomprensivo dell’agire personale e non viceversa. In questa prospettiva, l’impresa dovrebbe far emergere al meglio le capacità creative della persona che consentono non solo di accrescere l’organizzazione del lavoro produttivo, ma soprattutto di esprimere la propria umanità in modo sempre più maturo e coerente. L’attitudine personale, l’esigenza di produzione e la realizzazione di beni destinati al mercato, pertanto, hanno bisogno di essere coniugati con un equilibrio che permette di vedere in essere principi etici e non una sola esigenza realizzata a danno dell’altra.

Nell’enciclica Centesimus annus del 1991, Giovanni Paolo II inseriva in questa visione anche il concetto di “soddisfazione del cliente”. La cosa appariva tanto importante quanto notevole era la novità in un insegnamento magisteriale; è importante, osservare, comunque, che il miglioramento dei prodotti e dei processi produttivi quando viene fatto ponendo attenzione ai rapporti tra le diverse parti che compongono l’impresa è di per sé una condizione necessaria ed eticamente perseguibile.

Una simile prospettiva, inevitabilmente, apre alla possibilità di verificare la natura dinamica dell’impresa e, quindi, anche la sua propensione a produrre ricchezza. In questo senso, sorge la questione etica soprattutto quando si verifica il carattere sperimentale a cui l’impresa è sottoposta. Ciò che ci si deve domandare è non solo la liceità della sperimentazione in sé che viene compiuta, ma anche la proporzione tra questa, i risultati che si vogliono raggiungere, il capitale che è investito e i rischi a cui i componenti dell’impresa sono sottoposti. Questo giudizio prima di essere di ordine prettamente economico è di ordine etico.

Non si può negare, infatti, che soprattutto ai nostri giorni siamo posti dinanzi a una nuova forma di “proprietà”. È quella che deriva dalla conoscenza scientifica e dalla produzione tecnologica. In alcuni Paesi tra i più industrializzati la rincorsa verso questo tipo di proprietà è l’obiettivo primario che alcune aziende perseguono. Questa forma di proprietà è tanto ambita quanto ingente è la ricchezza che produce. Può esistere, quindi, un tenace perseguimento –a volte utopico- di progresso che incrina l’idea stessa di scienza e crea condizione di conflittualità sociale così come la rincorsa del profitto senza ottenere un reale sviluppo.

D’altra parte, si è dinanzi, spesso a un profitto che è ottenuto a dispetto della qualità del prodotto e delle relazioni tra le parti che compongono l’impresa. Non si può dimenticare, inoltre, che può esistere anche un profitto figlio del monopolio, dove il mercato concorrenziale leale, frutto delle regole e del rispetto dei patti, cede all’abuso di coloro che contravvenendo alle regole democratiche, detengono posizioni dominanti. Se ci si guarda intorno, insomma, non si può fingere di non vedere come in molti casi il profitto non produca necessariamente progresso in termini di accumulazione tecnologica e di conoscenza organizzativa. Così come appare evidente che esiste un profitto che scaturisce da relazioni patologiche tra poteri, un sistema di connivenze più o meno occulto e illegale che coinvolge, rispettivamente, parti rilevanti che gestiscono il denaro pubblico e pseudo imprenditori privati. Tra le altre possibili forme di profitto si possono rinvenire quello puramente “posizionale”, dove una ricchezza viene trasferita di generazione in generazione, assottigliandosi sempre di più ad ogni cambio generazionale; oppure si dovrebbe considerare l’ipotesi –tutt’altro che remota- circa i profitti di guerra, i profitti che derivano dall’uso arbitrario e dispotico del potere politico, quelli che sono conseguenza di irresponsabili speculazioni finanziarie poste in essere da investitori che non tengono minimamente conto delle conseguenze sul piano sociale delle loro azioni economiche e, infine, siamo posti dinanzi alle diverse forme di profitto illegale frutto della rapina, della malversazione, della frode, dell’inganno e della violenza.

Questa semplice esemplificazione mostra che il profitto non rappresenta l’unico indice di sviluppo economico e, di conseguenza, del buon andamento di un’azienda. Esiste, purtroppo, un profitto che devasta tutto ciò che incontra e di cui si serve: un profitto che impoverisce la terra, che rende invivibili le città, che contribuisce a disgregare le famiglie, che indebolisce la capacità imprenditoriale e, di conseguenza, mina le fondamenta stesse dello sviluppo economico. Esiste un profitto di pura facciata, che scarica parte dei costi di produzione in bilanci diversi da quelli dell’impresa; questa forma non solo evidenzia problemi etica di rilevanza sociale, in quanto pretende di raccogliere là dove non ha seminato, ma è ugualmente molto pericolosa in quanto sterilizza il capitale impedendo che venga messo a disposizione della collettività per ulteriore progresso e ricchezza. In questa prospettiva, il giudizio etico si impone non solo come critica nei confronti dell’impresa che mira alla sola produzione del profitto, ma soprattutto come assunzione di responsabilità dinanzi alla società.

Si ritorna in questo modo alle osservazioni con cui ci siamo introdotti e da cui, di fatto, non ci si è mai allontanati. L’etica non può essere estranea alla moderna concezione di economia e di impresa perché in questo contesto si toccano direttamente istanze che sono connesse con la realizzazione della persona, con la sua dignità e l’espressione della sua libertà. Non possiamo dimenticare che l’uomo rimane sempre un uomo che vuole essere libero. Certo, la libertà non è assunta come un assoluto per imporre il proprio diritto individuale; piuttosto perché venga coniugata con la responsabilità interpersonale e sociale. Tutto questo è connesso con il valore positivo del progresso. Come scriveva Benedetto XVI: “Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo” (SS 22).

Conclusione

Per questi e altri motivi, la dottrina sociale della Chiesa, accanto al riconoscimento della giusta funzione del profitto, dello scopo, della natura e della funzione dell’impresa sottolinea l’argomento della responsabilità sociale dell’imprenditore, del dirigente, del lavoratore e di tutti coloro che partecipano al processo produttivo: dai dirigenti della pubblica amministrazione al consumatore finale, passando per i fornitori, per gli operatori del sistema bancario, per i rappresentanti sindacali. Oggi i mercati chiedono sempre più qualità, riconoscibilità del prodotto, trasparenza dei processi produttivi, “forza sociale” del brand. Ciò impone di allargare il significato del mandato fiduciario che lega i dirigenti agli azionisti ed entrambi alla comunità nella quale vive l’impresa. Si tratta di coinvolgere ciascun operatore secondo la responsabilità che gli è propria, ponendolo di fronte alle possibili e prevedibili conseguenze sociali delle proprie scelte. In un contesto nel quale l’impresa rappresenta la principale fonte di ricchezza e di benessere per il territorio e per i suoi cittadini, fonte di sviluppo e di crescita umana per l’intera comunità nella quale è inserita, la qualità delle relazioni tra questa e il contesto sociale risulta essere decisiva per il suo successo e per lo sviluppo integrale delle persone che con essa, a vario titolo, si relazionano. L’etica trova anche qui il suo spazio vitale e l’orizzonte che apre a spazi di felicità nella misura in cui il desiderio di realizzazione trova riscontro nell’esercizio di una personale libertà responsabile.

NOTE

1 Aristotele, Etica nicomachea, VII.

2 Agostino, De Civitate Dei XIX,1.

3 Compito del management è di identificare la quantità degli n fattori chiamati input e i modi possibili in cui questi fattori si combinano per ottenere il livello di prodotto o output.

4 Cfr. Peter Drucker, Manuale di management, Etas Libri, Milano 1991, pp. 69-70.

5 Cfr. George Gilder, Recapturing the Spirit of Enterprise, ICS, San Francisco 1992.

6 Cfr. F. Felice, Il valore sociale d’impresa, in Aa.Vv., Responsabilità sociale d’impresa, Francesco Perrini, ed., EGEA, Milano 2002.

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