In un momento storico caratterizzato da conflitti globali e divisioni sociali, il concetto di “amore politico” emerge come un faro di speranza e un potente strumento per promuovere la pace e la democrazia. S.Em. Card. Matteo Zuppi, Presidente CEI, nel suo recente intervento al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, avvenuto lo scorso 11 dicembre davanti gli sguardi attenti di molti diplomatici e dello stesso Ministro Tajani e del Presidente dell’Ente Nazionale per il Microcredito, Mario Baccini, ha evidenziato le sfide che la comunità internazionale si trova ad affrontare, sottolineando l’importanza di un approccio collaborativo che veda la diplomazia come un mezzo fondamentale per risolvere le crisi.
Uno dei punti centrali del suo discorso è stata la questione del “potere anonimo”, un fenomeno che rischia di minare le fondamenta della democrazia.
Il Cardinale Zuppi ha fatto riferimento a forze invisibili, come il potere digitale, che influenzano le decisioni politiche senza una chiara responsabilità. In una democrazia sana, il potere deve essere trasparente e accessibile ai cittadini. Questo richiamo alla responsabilità è cruciale, soprattutto in un’epoca in cui le dinamiche globali possono sembrare distaccate dalla realtà quotidiana delle persone.
Il Cardinale Zuppi ha anche sottolineato l’importanza della collaborazione con la Santa Sede nella politica estera, in particolare per l’Italia, un Paese con una profonda storia di interazione tra stato e chiesa. Questa sinergia può apportare un valore aggiunto, promuovendo iniziative diplomatiche che mirano a risolvere conflitti attraverso il dialogo e la riconciliazione. L’esempio della “formula italiana” per la pace in Mozambico è un modello che dimostra come l’amore politico e diplomatico possano generare risultati concreti e duraturi.
Il richiamo di Papa Francesco ai valori della democrazia, descritta come “un cuore ferito”, è un invito a riflettere su come le società moderne possano affrontare le esclusioni sociali e le divisioni. S.Em. Zuppi ha evidenziato che la cultura dello scarto rappresenta una minaccia non solo per i più vulnerabili, ma per l’intera coesione sociale. L’amore politico, pertanto, deve essere orientato all’interesse generale, superando gli interessi personali e promuovendo una vera partecipazione democratica.
In un contesto di crescente tensione e conflitti, il Cardinale Zuppi ha ribadito che la pace e la democrazia sono interconnesse. La guerra distrugge l’unità e il dialogo, mentre la democrazia richiede un continuo confronto e una capacità di ascolto reciproco. La responsabilità di promuovere la pace e la giustizia ricade su tutti, non solo sulle istituzioni, ma anche su ciascun cittadino.
La sfida che ci attende è quella di riaffermare l’importanza della diplomazia e del dialogo in un mondo sempre più polarizzato. Come sottolineato da S.Em. Zuppi, è necessario moltiplicare gli sforzi diplomatici, cercare convergenze e compromessi, e non arrendersi mai alla tentazione della guerra. Solo attraverso un continuo impegno verso la pace possiamo sperare di affrontare le crisi globali e costruire un futuro migliore per tutti.
L’amore politico, dunque, non è solo un’idea astratta, ma un imperativo pratico. È un invito ad agire con responsabilità, a cercare il dialogo e a costruire ponti tra le diverse comunità. In un mondo segnato da divisioni, il richiamo di Cardinale Zuppi ci esorta a tornare a pensare alla pace come un valore fondamentale, capace di unire e riconciliare, e a fare dell’amore politico la base per una democrazia autentica e inclusiva.
Il ruolo dell’amore politico nella costruzione della pace, il discorso S.Em. Card. Zuppi
L’amore politico come strumento di pace e democrazia è un tema che ci sta a cuore e un dramma che stiamo vivendo. Ci sono tanti aspetti di questa guerra mondiale che si sono intensificati e che presentano sfide per tutti. Naturalmente, anche per chi crede nel valore dell’amore politico e diplomatico, che è ugualmente fondamentale. Ho alcune considerazioni da fare. La prima riguarda il potere anonimo, perché talvolta corre il rischio di scolorire. Esiste poi un potere anonimo esercitato da forze con grande autorità, che possono rimanere invisibili. Pensiamo a gruppi o realtà che condizionano la politica degli Stati e agiscono nell’ombra. Consideriamo il potere digitale e ciò che può significare nelle decisioni politiche dei Paesi; si tratta di una concentrazione di potere davvero anonima, e per certi versi ancora più pericolosa, poiché il potere non dovrebbe essere anonimo in una democrazia.
La seconda considerazione riguarda il ruolo della collaborazione con la Santa Sede, che apporta un valore aggiunto alla politica estera di tutti i Paesi, in particolare a quella dell’Italia, vista la sua storia e la presenza della Chiesa e del Papa. È una storia di collaborazione che rispetta l’assoluta distinzione e la piena laicità, un impegno per la pace che coinvolge diversi soggetti.
Il 4 ottobre 1992, qui alla Farnesina, venne firmata, dall’allora Ministro degli Esteri, Colombo, la pace in Mozambico. Boutros Boutros-Ghali la definì la “formula italiana”, in cui istituzioni, organizzazioni non governative e la Chiesa mozambicana si unirono per risolvere il tragico conflitto di quel Paese. Spero che la formula italiana e altre simili, nate dall’amore politico e diplomatico, possano aiutare ad affrontare grandi sfide. Non si tratta di diplomazia parallela, poiché la diplomazia è una sola, e le versioni parallele non si incrociano. Si tratta piuttosto di collaborazione, e quella con la Santa Sede può fornire un valore aggiunto. I numerosi missionari e le presenze italiane, anche non governative, contribuiscono a una migliore comprensione dei problemi dei singoli Paesi in una visione unitaria.
Per questo motivo, è fondamentale la riflessione di oggi, che si svolge in questa sala, dove è stato firmato un accordo di pace che ha funzionato grazie all’efficace coinvolgimento anche delle Nazioni Unite. Speriamo che questo esempio possa ripetersi in molti conflitti che continuano e che rischiano di diventare cronici.
Nel mese di luglio, durante la cinquantesima settimana sociale dei cattolici, Papa Francesco ha richiamato tutti ai valori della democrazia, oggi “infragilita e con molti nemici”, definendola un “cuore ferito”. Ha affermato che ciò che “limita la partecipazione è sotto i nostri occhi, e se la costruzione e l’intelligenza mostrano un cuore infartuato, devono preoccuparci anche le forme di esclusione sociale”.
Secondo Francesco, “la cultura dello scarto aumenta i rischi per tutti e diventa un problema per l’intera società. Escludere i poveri e gli emarginati non solo pesa sulla struttura sociale del Paese, ma indebolisce le sue istituzioni, creando divisioni tra i cittadini. Questo può provocare una rottura della coesione sociale, che è un bene decisivo per qualunque Stato. Pertanto, l’amore politico significa innanzitutto guardare all’interesse generale”.
Potremmo dire: L’interesse generale senza ulteriori interessi, perché è amore. Solo l’amore politico può guardare all’interesse generale, e solo in un secondo momento possiamo ragionare in termini di competizione tra progetti di società diversi, legittimi e decisivi per la democrazia. La competizione politica e l’alternanza al governo sono salutari per la democrazia, ma prima di tutto deve prevalere l’interesse generale, che può essere definito anche come interesse nazionale.
Una casa divisa in se stessa declina e non riesce ad affrontare le tempeste della storia, che sono caotiche e molto aggressive. Esiste il locale e l’universale, e forse c’è un passaggio ulteriore: penso all’Europa e alla sua importanza. Credo che un ministro che ha presieduto con grande efficacia il Parlamento europeo sappia bene quanto sia fondamentale l’Europa e quanto sia ancora più importante che oggi sia forte e coesa su ciò che è essenziale.
Il Papa ha approfondito il suo discorso a Trieste, parlando della qualità di una democrazia e di ciò che la rende forte. Ha affermato che “la parola stessa democrazia non coincide semplicemente con il voto del popolo, cioè con la sovranità popolare”. Le cosiddette democrazie popolari di ben nota memoria si basavano su risultati elettorali, talvolta gonfiati, per affermare che la volontà popolare era suprema. Sappiamo invece che una vera democrazia si costruisce su un equilibrio tra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, e la competizione tra questi poteri crea i controlli e bilanciamenti che rendono l’equilibrio virtuoso ma anche efficace.
Non possiamo accettare convinzioni grezze; è sempre decisivo e fondamentale il dialogo. Il Presidente Mattarella ha detto: “la democrazia non è la vittoria della maggioranza, è qualcosa di più”. In realtà, la democrazia è sempre un perenne negoziato, come affermava Ernest Renan: “è un perenne negoziato, un referendum ogni giorno”.
La democrazia, dice il Papa, “richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal fare il tifo al dialogare. Chi non è pronto alla trattativa continua non sa cos’è la vera democrazia, che significa mettere insieme pezzi diversi e saper distribuire tra chi è diseguale”. Fare unità e fare giustizia è il compito della democrazia; ciò significa che l’amore politico mira alla pace, poiché democrazia e pace vanno a braccetto.
La guerra distrugge l’unità, divide i popoli e deturpa l’anima di un popolo, indipendentemente dal fatto che sia aggredito o aggressore, facendo emergere il peggio da ciascuno. La guerra rende impossibile il dialogo, mentre la democrazia ha sempre bisogno di dialogo; è la sua aria, senza la quale non respira e muore. Per questo motivo, pace e democrazia devono andare insieme. La tragicità delle situazioni e dei conflitti è evidente: ci sono 59 guerre nel mondo, secondo esperti, due delle quali sono particolarmente grandi e preoccupanti: l’Ucraina e la Terra Santa. Ma ci sono anche il Sudan e Kiev, innumerevoli conflitti. In pochi anni abbiamo assistito a un cambiamento profondo, e la pace in molte situazioni è scivolata via dai dibattiti internazionali. Ora, in primo piano c’è la guerra, mentre l’arte della diplomazia viene spesso trascurata, talvolta considerata inutile, come se il dialogo non avesse importanza, ma fosse solo un complemento.
Si considera la pace come un’idea di un’anima bella, talvolta apprezzata, altre volte criticata per la sua apparente ingenuità. I mediatori della società civile e i diplomatici che lo sono di professione finiscono per essere considerati ingenui, incapaci di comprendere il mondo attuale o, per lo meno, inefficaci, limitandosi solo a conoscere la storia. Per noi europei, sembra di essere tornati indietro, prima della Grande Guerra, al tempo dei sonnambuli, che caddero nella trappola bellica quasi senza accorgersene. Si studia troppo poco la storia, si coltiva troppo poco la memoria; si vive solo nel presente, rischiando di non accorgersi della realtà e confondendo ciò che sembra il contrario, cioè il realismo.
Come sfuggire al ricatto dell’ingranaggio della guerra? Anche molte organizzazioni, penso in particolare all’ONU, si trovano in difficoltà, e il multilateralismo è in crisi. Queste sono domande diffuse e molti si interrogano su cosa fare.
Se la diplomazia sembra indebolita, anche la politica appare fragile e frastornata. Spesso, molte riunioni internazionali sembrano incapaci di rispondere efficacemente alle crisi profonde che stiamo vivendo. Le guerre sembrano perpetuarsi, diventare infinite, conflitti intrattabili, come si dice in gergo diplomatico. Nella sapienza della Chiesa, e in particolare dei papi del secolo scorso, i cattolici hanno compreso che la guerra non è uno strumento come un altro; è un ingranaggio del male che sfugge al controllo umano, come una palla di neve che rotola giù per una montagna e cresce fino a travolgere tutto.
In particolare, la guerra appare per ciò che è “inutile”, come disse Papa Benedetto XV all’inizio e durante la Prima Guerra Mondiale, e ricordiamoci che Papa Benedetto ha scelto il suo nome in onore di Papa Benedetto XV. La vittoria è una chimera per tutti; più conflitti generano nuovi conflitti o terrorismo, più guerra produce più vendette. È l’eternalizzazione dei conflitti nell’attuale situazione geopolitica, una guerra che non ha mai fine e non raggiunge nessuno degli obiettivi prefissati, da qualunque parte la si guardi.
Per uscire dal tunnel, è necessario tornare a parlare di pace e delle ragioni della pace. Non è un’impresa futile, perché è necessaria per purificare l’aria che respiriamo da troppi discorsi di guerra. La pace non è mai perfetta, ma è sempre giusta, poiché richiede giustizia. È sempre giusta perché la pace è giusta, ma bisogna rimetterla al centro dell’agenda internazionale con tutti gli strumenti e l’efficacia che essa comporta.
È fondamentale moltiplicare l’iniziativa diplomatica, creare contatti, far uscire tutti dall’isolamento, esplorare le prospettive dei vari attori. Non arrendersi mai, trovare convergenze e compromessi. Questo è ciò che si deve fare, perché non si può vivere sempre in guerra. Questo è il messaggio di Papa Francesco.
Parlare di pace significa affrontare la guerra e le sue conseguenze per quello che realmente è, partire non da ragionamenti astratti, ideologici, giuridici o politicisti, ma dalle vite spezzate e dalla sofferenza. Da che parte sta la Chiesa? La Chiesa non è neutrale; sta dalla parte delle vittime. Il nostro punto di vista vuole essere quello delle vittime, soprattutto dei bambini, degli anziani, delle donne e dei più poveri, di coloro che non possono fuggire.
Dobbiamo ricordare che la guerra nasconde e genera brutture di ogni tipo e trasforma chi combatte in peggio. La guerra deturpa l’anima dei popoli, facendo emergere davvero il peggio di ciascuno. La pace non è semplice, lo sappiamo, ma deve essere assunta come prospettiva, come un ribaltamento della cultura di guerra.
Questo è il desiderio spesso inespresso di tanti popoli, di tutti i popoli. È l’eredità della storia per gli europei, da cui è nata l’Europa, che dovrebbe ricordare gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. L’Europa è nata da lì, dagli orrori della Shoah. Sulla base di questa memoria, è stata realizzata la ricostruzione democratica in Italia, e lo spirito è iscritto nella Costituzione italiana, che non dobbiamo mai abbandonare e che vale per tutti.
Il ripudio della guerra non è scritto dall’Europa, ma l’Europa nasce da questo. C’è in realtà una domanda di pace nel mondo molto diffusa, ancora da ascoltare. La guerra è sempre fratricida, nemica della vita, un male da abbreviare al più presto e a ogni costo.
Per Papa Francesco, ogni guerra è sacrilega, contraria alla sacralità della vita umana; è “una sconfitta vergognosa”. Per noi, la guerra è il vero nemico e rappresenta la follia del male che va arrestata al più presto. Più il conflitto dura, più si favorisce il ciclo infinito delle vendette. Davanti alle tempeste del tempo presente, ci poniamo anche la domanda sulla democrazia e sul valore dei diritti umani, cioè sulla legge internazionale.
Ciò che spaventa della democrazia liberale è la sua presunta incapacità di gestire le sfide dei tempi, impedendo le guerre, i disordini e il caos economico. La globalizzazione ha separato molto di più di quanto abbia unito, e oggi è in crisi, insieme a molti valori e al multilateralismo. Le regole internazionali non sono più rispettate, e tutti vorrebbero cambiarle; alcuni vorrebbero tornare alle antiche sfere di influenza, mentre altri alla politica dei blocchi.
Le democrazie occidentali si concentrano sui diritti individuali, ma applicano un doppio standard; altri sistemi puntano piuttosto su valori e diritti comuni, cioè delle comunità. Progressivamente, anche nelle democrazie occidentali cresce quella parte di cittadini che accetterebbe una limitazione della libertà pubblica, non di quella privata, in cambio di maggiore sicurezza e migliori performance economiche. Ci sono Paesi in cui si aggirano ancora vecchi fantasmi, ma esiste una condizione imprescindibile: se il modello illiberale non riesce a realizzare lo scambio “controllo – prosperità”, è destinato a fallire.
In tal caso, per mantenersi, gli resta solo l’antica risorsa del nemico esterno come capro espiatorio cui addossare le colpe; in ultima analisi, la guerra comincia sempre come una guerra interna contro i più poveri, i diversi, i devianti, gli ultimi, per poi rivolgersi contro lo straniero. Il modello democratico illiberale si configura dunque non come un regime repressivo, ma come preventivo delle libertà pubbliche, in particolare utilizzando la tecnologia di tracciamento, il riconoscimento facciale e la sorveglianza digitale. Possiamo osservare che il desiderio di controllare le reazioni sociali è diventato l’aspirazione di tutte le democrazie, comprese quelle più avanzate in termini di diritti.
In questo senso, la democrazia controllata o limitata non rappresenta un ritorno indietro a vecchie forme, ma piuttosto un’evoluzione inaspettata che prospetta un futuro collettivo. Ciò che rimane sono regimi che utilizzano la legge e la giurisdizione per mantenere il potere, addomesticando il potere giudiziario. Ma se i valori perdono il loro significato universalistico e diventano identitari, si trasformano in armi.
Nella zona grigia si stanno sviluppando modelli di governance diversi dagli autoritarismi del passato. Questa zona grigia si allarga, e un elemento comune è certamente l’alleanza con il neoliberismo, che rigetta ogni vecchia politica dirigista, autarchica o statalista. Il multilateralismo viene accettato, ma come quadro di lotta tra influenze piuttosto che come spazio democratico paritario e di dialogo.
Va detto che anche le democrazie liberali non hanno brillato in questo contesto, come vediamo ogni giorno. Riguardo alle migrazioni, cresce un rifiuto generalizzato dello straniero in cerca di aiuto da parte dei governi. Anche sulla guerra non c’è molta differenza tra democrazie liberali e illiberali; la democrazia sta mutando sotto i nostri occhi.
La Chiesa ha esempi illustri di chi ha cercato di difendere democrazia e pace allo stesso tempo, puntando sul valore della convivenza mediante lo strumento dell’amore politico. Potrei fare molti esempi, ma mi limiterò a quello di Giorgio La Pira, il “sindaco santo”, che voleva fare della sua città un centro di dialogo, superando la cortina di ferro e anche l’odio tra ebrei e musulmani, tra israeliani e palestinesi. Firenze divenne per un certo periodo un crogiolo di convivenza mediterranea.
I dialoghi mediterranei organizzati ogni anno dal Ministero degli Affari Esteri dovrebbero tenere conto di questo aspetto e già lo fanno. Un altro esempio illuminante è la decisione di Papa Giovanni Paolo II di fare di Assisi il cuore del mondo mediante la preghiera interreligiosa del 1986.
Posso testimoniare la grande leadership morale che il Papa ha dimostrato, riconosciuta da tutti, e il cammino di dialogo proseguito dai suoi successori. L’incontro fraterno è utile per costruire un terreno comune. Questo è tanto più necessario oggi, in un tempo di guerre spaventose, e rappresenta una dimostrazione concreta di amore politico per il nostro mondo caotico. Fa parte di ciò che Papa Francesco ha chiamato “la capacità di organizzare la speranza”, e questo è forse il vero senso dell’amore politico: dare risposte, ripudiare la guerra, trovare strumenti e potenziare le risorse per risolvere i conflitti attraverso il dialogo.
“Dobbiamo essere voci”, dice Francesco, “una voce che denuncia e propone in una società spesso afona, dove troppi non hanno voce. Questo”, cito sempre Papa Francesco, “è l’amore politico, che non si accontenta di curare gli effetti, ma cerca di affrontare le cause”. Potremmo dire di risolvere le cause e trovare gli strumenti per farlo. In questo senso, tutta l’attività della Santa Sede a favore del multilateralismo è volta a risolvere le cause e a trovare gli strumenti necessari.
Questo è l’amore politico, secondo Papa Francesco; è “una forma di carità che permette alla politica di essere all’altezza delle sue responsabilità e di uscire dalle polarizzazioni, queste polarizzazioni che miseriscono e non aiutano a capire e affrontare le sfide”. Mi sembrano le parole più chiare su cui non c’è nulla da aggiungere, e che diventano il nostro programma.