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LA CRISI DEL CAPITALE UMANO IN ITALIA E LA RESTRIZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO
Alessandro Verbaro – Esperto del mercato del lavoro – EbiPro
Quando si parla di mercato del lavoro e delle problematiche italiane di incontro tra domanda e offerta di lavoro, si ha sovente un approccio d’indagine frammentato e a compartimenti stagni.
La complessità della società di oggi ci dovrebbero spingere, invece, a guardare l’istituzione del mercato del lavoro in maniera organica analizzando i diversi profili che interessano la domanda di lavoro e quelli che interessano l’offerta di lavoro.
Inoltre, non si può però parlare dell’offerta di lavoro se non ci si occupa della filiera che porta a generare il capitale umano in un Paese e quindi della filiera formativa e delle esperienze di vita.
Sappiamo che il nostro mercato del lavoro è fragile, in termini di qualità del lavoro e di quantità (part time involontario, lavoro povero e sommerso). Inoltre, è noto come in maniera trasversale a tutti i settori si registrino i tre grandi divari che ci trasciniamo da decenni: quello generazionale anzitutto, che si manifesta con un tardivo ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e con un alto tasso di disoccupazione giovanile. Persiste il gap di genere che nasconde un’ampia forbice nei trattamenti salariali tra uomo e donna. Infine, forse il più antico, c’è il divario geografico, che non riusciamo a superare una volta per tutte.
Innanzi tutto, alcuni dati sul nostro mercato del lavoro che continua a registrare i classici divari geografici (nord sud), di genere e generazionali, pur in un contesto di crescita dell’occupazione con un tasso a gennaio 2023 del 60,8 della popolazione in età di lavoro (15-64 anni). Il tasso di occupazione maschile è pari al 69,7% contro il 51,9 % del tasso femminile. Il tasso di occupazione è pari al 69% al Nord contro il 47,1% al sud. Il tasso di disoccupazione giovanile (25-34 anni) è dell’11% a livello nazionale, mentre è del 21% nel Mezzogiorno.
Rispetto a un anno fa abbiamo meno disoccupati e meno inattivi (Istat, 2.3.2023). Comunque si tratta del più basso tasso di occupazione in Europa, che registra un tasso medio EU27 del 71% (Fig. 1). Ricordiamo inoltre che raggiungere il 78% di tasso di occupazione è uno dei tre target fissati dall’UE per il 2030.
L’anomalia italiana è data altresì dal fatto che al basso tasso di occupazione e all’alto tasso di disoccupazione (8%) e inattivi (33,9%), si deve aggiungere il fenomeno mensilmente denunciato dal bollettino del sistema informativo Excelsior (Unioncamere-Anpal), del mismatch che ci dimostra come nonostante cresca il numero dei lavoratori ricercati dalle imprese, al contempo cresce la difficoltà di reperimento da parte delle stesse. A febbraio 2023 la percentuale di assunzioni irrealizzabili principalmente per la mancanza di candidati è pari al 46,2% (un anno prima era al 40,8%). Il dato cela peraltro una vertiginosa polarizzazione tra gli Specialisti nelle scienze della vita (80,7%) e le Professioni qualificate nei servizi di sicurezza, vigilanza e custodia introvabili nel 19,3% dei casi.
È in questo quadro che si colloca la crisi di “produzione di capitale umano” che riteniamo connessa alla crisi del nostro sistema formativo.
Nella filiera della formazione del capitale umano è possibile vedere alcuni nodi che è giusto tenere in considerazione: la crisi demografica, l’abbandono scolastico, la bassa percentuale di laureati e la ingessata qualità dei percorsi formativi.
La crisi demografica sta comprimendo la fascia attiva della popolazione, soprattutto quella della classe 25-35 anni. Quando vediamo i tassi di occupazione aumentare rispetto a un anno base, dobbiamo preoccuparci sempre più di guardare i dati in valore assoluto rispetto alla popolazione in età di lavoro.
Alcuni dati sull’offerta di lavoro e la salute del nostro “capitale umano”
I giovani italiani poi permangono di più nella famiglia di origine. L’età di uscita dalla famiglia in Italia è in media 29,9 anni. In Europa è 26, in Francia e Germania 23,6 in Svezia 19. Va sottolineato che i Paesi con una età di uscita più alta sono anche quelli che presentano tassi di occupazione giovanili più bassi. Cioè, quelli dove i giovani hanno più difficoltà a costruirsi percorsi di vita indipendenti, come emerge dai dati Eurostat.
Il numero degli stranieri residenti in Italia si è stabilizzato intorno ai 5 milioni di persone, per l’esattezza 5.030.716 nel 2022.
Gli occupati stranieri sono 2,3 milioni, il 10% del totale degli occupati. Il tasso di occupazione è al 57,8% (58,3% quello degli italiani), la disoccupazione al 14,4% (9% tra gli italiani), l’inattività al 32,4% (35,9%), ma gli indicatori peggiorano sensibilmente se si fa riferimento solo alle donne. Il contributo è minimo rispetto al potenziale e rispetto ai fabbisogni dell’Italia, probabilmente a causa della mancanza di una politica migratoria adeguata.
Nonostante l’apporto degli immigrati, tra l’inizio e la fine del ventennio passato i minori di 15 anni sono diminuiti di quasi 500.000 unità e la popolazione 15-64 anni di poco meno di 600.000 persone, con una forte contrazione dei giovani adulti (15-39 anni) pari a 4,2 milioni in meno. La popolazione di 40-64 anni è aumentata di 3,6 milioni di persone, per effetto dell’ingresso in questo gruppo delle generazioni numerose dei baby boomer. Secondo le previsioni Istat nei prossimi trent’anni, la popolazione di 15-64 anni scenderebbe dal 63,6% (37,7 milioni) al 53,4% (28,9 milioni) in base allo scenario mediano, con una forchetta potenziale compresa tra il 52% e il 54,8%. Abbiamo e avremo quantitativamente meno forza lavoro, soprattutto giovane.
Sempre a proposito di restrizioni quantitative non si può non citare il fenomeno dell’emigrazione dei giovani, cosiddetta “fuga dei cervelli”, un fenomeno exit only, in quanto l’Italia non è capace di attrarre intelligenze straniere.
Nel decennio 2012-2021 è espatriato dall’Italia oltre 1 milione di residenti, di cui circa un quarto in possesso della laurea. Sono circa 337mila i giovani espatriati di 25-34 anni, di essi oltre 120 mila al momento della partenza erano in possesso della laurea. D’altro canto, i rimpatri di giovani della stessa fascia d’età sono circa 94mila nell’intero periodo 2012-2021, di cui oltre 41mila in possesso della laurea: la differenza tra i rimpatri e gli espatri dei giovani laureati è costantemente negativa e restituisce una perdita complessiva per l’intero periodo di oltre 79mila giovani laureati.
Ma il problema, come anticipato, non è solo di carattere demografico e migratorio, cioè quantitativo.
In Italia, nel 2021 la quota di 18-24enni con al più un titolo secondario inferiore e non più inseriti in un percorso di istruzione o formazione è stimata al 12,7% (517mila giovani). Nonostante l’Italia abbia segnato notevoli progressi sul fronte degli abbandoni scolastici, la quota di ELET (early leavers from education and training) resta tra le più alte dell’Ue (media UE 9,7%), inferiore solo a Spagna (13,3%) e Romania (15,3%). Scende al 7,8% in Francia e all’11,8% in Germania.
Abbandonano la scuola più i ragazzi (14,8%) delle ragazze (10,5%). Insistono inoltre gli annosi divari territoriali: nel 2021, l’abbandono degli studi prima del completamento del sistema secondario superiore o della formazione professionale riguarda il 16,6% dei 18-24enni nel Mezzogiorno, il 10,7% al Nord e il 9,8% nel Centro.
L’abbandono scolastico è anche implicito, per cui pur se assolto l’obbligo scolastico, gli studenti non raggiungono nemmeno lontanamente i livelli di competenza che ci si dovrebbe aspettare dopo tredici anni di scuola. Impliciti ed espliciti formano i dispersi totali. Secondo l’istituto INVALSI nel Centro-nord la quota dei dispersi totali oscilla tra il 15 e il 20%, ma in molte regioni del Mezzogiorno i dispersi totali sono più del 25%, fino a raggiungere il 31,9% in Campania, il 33,1% in Calabria e il 37% in Sicilia e 37,4% in Sardegna.
Il bacino di potenziali giovani lavoratori si riduce ancora di più se guardiamo al tasso di laureati in Italia. Siamo penultimi nella classifica Ue27 con il 27,50% a fronte di una media Ue superiore al 40%.
Secondo l’Istat nel 2020, il 24,9% del totale dei laureati 25-34enni, ha una laurea nelle aree disciplinari scientifiche e tecnologiche; le cosiddette lauree STEM. Il divario di genere è molto importante, se si considera che la quota sale al 36,8% tra gli uomini (oltre un laureato su tre) e scende al 17,0% tra le donne (una laureata su sei). La quota di laureati in discipline STEM è simile nel Centro e nel Mezzogiorno (23,7% e 23,0%, rispettivamente), mentre è più elevata (26,6%) nel Nord.
L’Istat ci ricorda la correlazione tra livello di istruzione e ritorno occupazionale. Nel 2021, cresce ulteriormente il già marcato “premio” occupazionale dell’istruzione (l’aumento della probabilità di essere occupati al crescere del titolo di studio conseguito). Il tasso di occupazione di quanti hanno conseguito un titolo secondario superiore è, infatti, 18,9 punti più alto rispetto a coloro che hanno un titolo secondario inferiore (70,3% contro 51,4%). Inoltre, il tasso di occupazione di chi può vantare un titolo terziario supera di 11,8 punti quello dei diplomati (82,1% e 70,3%). Nonostante ciò, nel nostro Paese le opportunità occupazionali sono decisamente più basse di quelle medie europee anche per i laureati: la differenza rispetto alla media dell’Ue27 supera i quattro punti.
Il possesso di competenze adeguate rappresenta come non mai un elemento decisivo per cogliere le opportunità e le nuove sfide offerte dalla transizione verde e digitale che se non affrontate, rischiano di accelerare l’obsolescenza delle conoscenze e competenze acquisite. Certo, questi temi non riguardano solo chi lavora dalle Alpi in giù. Attualmente oltre tre quarti delle imprese dell’UE stanno, infatti, incontrando notevoli difficoltà a trovare lavoratori qualificati e i dati Eurostat più recenti indicano che solo il 37% degli adulti europei ha l’abitudine di seguire corsi di formazione. Inoltre, 4 cittadini su 10 (1 lavoratore su 3) non dispongono delle competenze digitali di base e già nel 2021, in ben 28 attività produttive (dall’edilizia all’assistenza sanitaria, dall’ingegneria all’informatica) si registravano carenze in termine di competenze.
E a proposito della povertà qualitativa delle competenze ricordiamo i dati Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) dell’Ocse. Il punteggio medio di literacy in Italia è di 250 contro una media OCSE di 273, mentre il punteggio ottenuto nella numeracy è 247 contro una media OCSE di 269. Se però si analizzano i dati suddivisi rispetto alle aree geografiche del nostro Paese, si ottengono risultati che evidenziano un forte divario territoriale.
Uno spreco di capitale umano è dato da fenomeni di overskilling, dato da persone con competenze superiori a quelle richieste dal lavoro che svolgono, e di underskilling, dato al contrario da persone con competenze minori rispetto a quelle richieste dalla posizione lavorativa ricoperta.
Da parte delle istituzioni, è urgente una maggiore consapevolezza sulla crisi del capitale umano in Italia.
I colli di bottiglia, rappresentati dai dati riportati, ci restituiscono un mercato del lavoro che potremmo definire a dir poco fragile. In più, i recenti rapporti dell’Adepp (Associazione delle casse dei liberi professionisti) e di Confprofessioni sui professionisti confermano che questo restringimento quantitativo sta toccando anche il mondo del lavoro autonomo, con numeri crescenti di invecchiamento attivo. Età elevata che non può non incidere sul tasso di innovazione e quindi di produttività del nostro Paese.
La qualità del capitale umano e le ricadute negative che scaturiscono dalla sua scarsità quantitativa e qualitativa in un’economia avanzata come quella italiana, sono talmente sentite e attuali che Il 2023 è stato individuato dalla Commissione UE come l’anno europeo delle competenze. Non bastano i titoli di studio spesso vuoti, che generano aspettative difficili da soddisfare e irrigidiscono l’offerta di lavoro. Occorre mettere al centro le competenze, investendo nella formazione mirata, ma per l’Italia le sfide sono maggiori. Quindi lotta all’abbandono scolastico, investimento sulla qualità dei docenti, sostegni alle famiglie che non riescono a mandare i figli a scuola, rafforzamento degli ITS, aumento della percentuale dei laureati soprattutto in competenze Stem, responsabilizzazione dei corpi intermedi e dei datori di lavoro nella formazione continua e nei processi di upskilling e reskilling. Senza esagerare, serve una lotta senza frontiere per il rafforzamento del capitale umano.
Il PNRR e le sue missioni orientate sull’innovazione del Paese potrebbero non bastare senza un nuovo paradigma culturale degli amministratori pubblici, che consideri il capitale umano una risorsa preziosa che non possiamo sprecare e che dobbiamo puntare ad accrescere.