Archivio opinioni
Emma Evangelista e Gianluigi De Angelis
Il Capitale immateriale: la risorsa per costruire l’Italia del futuro.
Intervista a Mario Alì
Per comprendere ed affrontare le sfide tecnologiche e geopolitiche di fronte alle quali ogni nazione è chiamata a progettare interventi efficaci e poi a proporre le migliori strategie per raggiungere l’obiettivo non possiamo non rivolgere la nostra attenzione al sistema educativo e alla formazione in senso lato. L’Italia, attualmente, alle prese con tassi di denatalità alti, e che si prospetta aumentino nel prossimo futuro, rischia di trovarsi limitata proprio con riferimento alla crescita economica e culturale del Paese; come se ciò non bastasse, deve anche fare i conti con un sistema scolastico che, seppure dotato di valide ed efficaci risorse umane, soffre innanzitutto di una carenza organica di investimenti pubblici. Ciò che invece, orgogliosamente, rimette al centro dell’attenzione la nostra nazione è la capacità “geniale” di molti studenti di investire su se stessi, diventando fari nella ricerca e soprattutto nella realizzazione di start up all’estero. Conoscenza, competenza, creatività, crescita compongono il capitale immateriale necessario a costruire l’Italia di domani. Investire maggiormente sul capitale immateriale supporta, dunque, la competitività e l’occupazione, come spiega il professor Mario Alì, già Direttore generale del MIUR, consigliere della Corte dei Conti e membro del Board del Centro Studi Americani che nella sua visione globale dei fenomeni connessi allo sviluppo del capitale immateriale racconta pregi e difetti di un sistema che dovrebbe puntare in modo strutturale sulla formazione.
Qual è oggi il valore del capitale immateriale? Possiamo quantificarlo? Quanto ne abbiamo in Italia?
Se dovessimo usare un termine di paragone io direi che il valore del capitale immateriale è incalcolabile ma fondamentale, perché dal mio punto di vista resta il valore essenziale per la costruzione delle conoscenze e delle competenze di un giovane nel nostro Paese. Obiettivi su cui la nostra società, oggi giorno, dovrebbe porre maggiore attenzione. Sono da sempre un forte sostenitore del concetto che la crescita, l’innovazione dello sviluppo umano e di quello immateriale camminano su due binari paralleli. Da una parte c’è la globalizzazione finanziaria, che riguarda in particolare i mercati, le borse, lo scambio delle merci, ecc, ma dall’altra dovrebbe esserci, per permettere una crescita armoniosa, anche una sorta di “globalizzazione culturale” vale a dire un contesto dedicato allo sviluppo di un clima culturale centrato sulle conoscenze e sulle competenze, ciò che ormai in tutto il mondo viene definito il capitale immateriale ossia la “nuova ricchezza delle nazioni”.
Non a caso la Cina negli ultimi quarant’anni è riuscita, attraverso anche un grande investimento negli anni in attività culturali, di ricerca e di innovazioni tecnologiche, a diventare una nazione che economicamente e tecnologicamente rientra fra i Paesi più avanzati del mondo, e non a caso altri grandi Paesi stanno seguendo lo stesso percorso e questa situazione se non riequilibrata, potrà in un prossimo futuro, a mio avviso non molto lontano, creare delle disparità tra queste grandi realtà e altri Paesi che, viceversa, non investono risorse economiche importanti destinate, alla crescita del capitale immateriale. Questo è un punto centrale, un argomento su cui si dovrebbe aprire un grande dibattito non solo nel nostro Paese ma anche a livello europeo. Nel momento in cui le economie occidentali, compresa la nostra, hanno deciso di impegnarsi nella globalizzazione finanziaria, tale scelta doveva essere supportata anche dalla contestuale crescita qualitativa del sistema sociale, ossia di un investimento maggiore nelle conoscenze e competenze, necessarie a creare nei singoli individui quel bagaglio culturale e scientifico idoneo a “immaginare” nuove idee progettuali.
C’è un detto che è molto bello, che a me piace moltissimo e che dice “se tu hai una mela e io ho una mela, se ce la scambiamo, ognuno di noi ha una mela … ma se tu hai un’idea, io ho un’idea e ce la scambiamo ognuno di noi ha due idee”. Un pensiero ormai assodato e condiviso in tutto il mondo afferma che conoscenze e competenze creano capitale immateriale e questo capitale immateriale crea innovazione, crea sviluppo, crea la crescita e, questo insieme di fenomeni conduce all’occupazione vera e propria.
Qual è la prima forma di investimento che secondo Lei lo Stato dovrebbe fare per riportare la formazione, soprattutto universitaria dei giovani, a livelli che possano sfidare la globalizzazione?
Devo dire con estrema sincerità che il sistema scolastico e universitario italiano rimane sempre uno dei sistemi con elevate forme di qualità rispetto ad altri sistemi esistenti al mondo, il problema reale è che non viene finanziato in modo adeguato rispetto a quello che fa e che potrebbe dare se fosse efficacemente sostenuto dall’intervento pubblico. Se guardiamo al passato, nei bilanci dello Stato, quando c’è qualcosa da tagliare si pensa alla sanità, alla scuola e all’università. Questo a mio avviso è concettualmente sbagliato, perché si tratta di settori fondamentali per sostenere l’ordine sociale e lo sviluppo futuro e che in qualche misura dovrebbero essere incrementati per arrivare allo sviluppo di cui parlavamo prima. Una volta la scuola e l’università erano finanziate esclusivamente dallo Stato, oggi abbiamo di fronte a noi altre sfide molto importanti come la sfida dell’Europa che, ad esempio con Next Generation EU, diventa strategica da l’opportunità ai nostri giovani di partecipare a quei Programmi dedicati alla ricerca e allo sviluppo dei sistemi tecnologici, produttivi, sociali. Stiamo parlando di quasi 200 miliardi di euro destinati all’Italia per queste specifiche attività, ma in molti casi il nostro Paese non riesce a mettere in campo progetti che effettivamente abbiano un respiro ampio, che si apra all’Europa e questo è uno degli elementi importanti. L’altro elemento importante è che anche la scuola dovrebbe entrare di più nel merito dell’ideale europeo, ossia in qualche misura bisogna pensare a qualche intervento, anche formativo, che ci aiuti a capire come si può fare programmazione in Europa, quali sono i Programmi europei d’investimento, come vengono finanziati. Destinare una parte delle ore che si fanno all’interno della scuola a queste attività sarebbe secondo me molto importante, cosa che avviene in tutti gli altri Paesi europei.
Per quanto riguarda invece le differenze di genere nell’educazione, cosa pensa di queste facoltà molto specifiche, che parlano del settore tecnologico? Cosa ne pensa di questo sviluppo?
Penso che questa differenziazione a cui lei si riferisce attualmente non c’è più. Ricordo che iniziai a lavorare tantissimi anni fa con l’allora professore Antonio Ruberti, che è stato anche Ministro per l’Università e la Ricerca scientifica, e che in quel momento era Preside della facoltà di ingegneria. Ricordo che trovare una ragazza all’interno della Facoltà di ingegneria era veramente molto complicato, cosa che assolutamente non avviene oggi. Devo dire che la parità di genere si sta osservando e anzi mi sembra che le donne in alcuni casi riescano molto meglio anche degli uomini. Non credo ci sia nessuna differenziazione sotto questo aspetto, l’unico problema è che i nostri giovani, a volte di talento, se ne vanno via dall’Italia, e questo per noi è un grosso problema, perché ci costa molto in termini sociali ed economici.
Dove stiamo andando? La globalizzazione porterà l’Italia più in alto o più in basso?
Dipende da che punto si di vista si consideri la globalizzazione. Devo dire con molta franchezza che sono un fautore della globalizzazione e secondo me è importantissimo che si arrivi a una globalizzazione compiuta. A mio avviso, però, così come c’è stata una globalizzazione finanziaria, ossia lo scambio delle merci e dei mercati in un contesto aperto e senza frontiere, dovrebbe esserci dall’altra parte una “globalizzazione della cultura”, una globalizzazione intesa come un ambiente ampio e aperto dedicato alla creazione, allo scambio e alla valorizzazione delle conoscenze e delle competenze. Questo secondo me è un fattore molto importante, tant’è che nell’ultima riunione che abbiamo svolto, in occasione della presentazione del libro “investire sul capitale immateriale per la crescita, la competitività e l’occupazione – Una nuova alleanza tra scuola, università ricerca e impresa”, ho voluto richiamare l’attenzione delle persone presenti nel dire: “scusate, se è vero, come è assolutamente vero, che l’Italia in tutto il mondo è considerata la culla della cultura, allora perchè in questo specifico e strategico settore non abbandoniamo la politica di inseguimento rispetto agli altri Paesi Europei ed adottiamo finalmente una politica di anticipazione. Abbiamo tutte le carte in regola per poterlo fare. Questo ci permetterebbe di tornare ad essere non semplici comparse ma attori principali nel contesto Europeo e mondiale. Se si condivide questa strategia, allora perché non diventare promotori dello spazio europeo della cultura, della ricerca, dell’università, della scuola nel nostro Paese? Fare una battaglia su un tema strategico e prospettico come questo, in cui potremmo coordinare una piattaforma di impegni e di attività, uno spazio importantissimo per la crescita qualitativa delle risorse umane e immateriali, potrebbe diventare un elemento essenziale per i nostri giovani. Questa era un’idea che partiva da Antonio Ruberti, il quale nel 1992, quando era Vice Presidente della Commissione Europea insime al Presidente della Commissione Europe, Jacque Delors partecipò anche all’elaborazione del Libro Bianco su Crescita, competitività e occupazione, che si poneva fin da allora come un progetto strategico e di ampia portata, per il futuro dei giovani europei, per affrontare le grandi sfide e trovare le vie da perseguire per entrare a pieno titolo nel XXI secolo. Poi è caduto tutto quanto nell’oblio. Mentre noi tentenniamo in questi settori, la Cina ha preparato il programma scuola per i prossimi 30 anni; l’India credo stia facendo la stessa cosa e questo, come dicevo prima, ha permesso a questi Paesi di scalare e posizionarsi molto in alto nelle classifiche economiche mondiali. “Noi nel 1980 eravamo tra il terzo e il quarto Paese fra i più industrializzatio, la nostra economia era un’economia forte, importante. Alcune statistiche ci dicono che da qui ai prossimi 35 anni, usciremo dalle tabelle di riferimento, non saremo più tra le prime 15 economie più importanti nel mondo. E in questo contesto il sistema educativo e formativo diviene un elemento propulsivo.”.
Lei mi dirà che trent’anni sono tanti, ma la politica che riguarda il capitale immateriale, ossia la scuola, la ricerca e l’università, non può essere fatta dall’oggi al domani, la politica deve essere fatta in un arco di tempo medio-lungo, una politica seria (così come ha fatto la Cina) ha il compito di affrontare un programma che interessi i prossimi trent’anni, le prossime generazioni.
Quanto incide la crescita demografica sulla programmazione e soprattutto sulla crescita economica del Paese?
Incide moltissimo, non c’è dubbio. Tante volte noi parliamo di immigrazione, affrontiamo questi temi molto importanti, però se ci fermiamo un attimo a ragionare, e a pensare possiamo dire: “Ma quanti cittadini siamo oggi in Italia? Siamo 58 milioni di persone? Ma qual è l’età media degli abitanti in Italia?” C’è una media altissima di anziani, c’è una piramide rovesciata nel nostro Paese.
E negli altri Paesi che cosa accade? in Cina ci sono circa 1 miliardo e 400 milioni di abitanti, in India idem, in Africa alla stessa maniera; allora la domanda che ci dovremmo porre è: “Ma di fronte a una forza, in termini di abitanti, di quasi quattro miliardi di persone, 58 milioni di persone, che siamo noi cittadini di questo Paese, come pensiamo di tener testa a questa nuova esigenza che da qui a poco avverrà?
L’unica maniera che esiste è quella di riprogrammare proprio il settore della cultura, della scuola, e dell’università, costruire percorsi formativi a tutti i livelli del sistema scolastico, formativo e universitario in grado di fornire quelle competenze strategiche e prospettiche per i nostri giovani in grado di permettere loro di entrare a pieno titolo nell ’impegno per lo sviluppo dei sistemi economici, sociali e culturali al livello mondiale ed europeo. Lei mi chiedeva che cosa potrà avvenire? Questo è uno dei nostri problemi, ma potrebbe essere una grande opportunità se sapremo coglierla. Se guardiamo indietro, al passato, ci accorgiamo che senza aver puntato alle conoscenze e competenze non c’è stata crescita qualitativa e quantitativa e, quindi, non c’è stato aumento del lavoro, e senza un lavoro vediamo effettivamente che i nostri giovani non riescono a mettere su famiglia. Senza metter su famiglia è difficilissimo che si possano fare dei figli, questi giovani rimangono in famiglia fino a 34, 35 anni e la loro partecipazione alla crescita dell’ordine sociale viene rinviata, diventa tutto più “diluito” nel tempo, complicato. Perciò c’è un inizio e una fine che bisognerebbe cominciare a vedere e ricominciare a pensare che la scuola e l’università, come diceva Calamandrei, sono come nell’organismo umano, quelle vene essenziali che portano il sangue in tutti gli organi del nostro corpo.
Se noi consideriamo la scuola, la formazione e l’università in questo senso probabilmente riusciremo a fare qualcosa, ma dobbiamo tornare a fare programmazione e per fare grande programmazione per i prossimi anni ci vuole una grande visione politica che guardi al futuro con passione e impegno.
Ripartire dalla cultura, ripartire dalla formazione. Come formare l’individuo, lo può fare solo la scuola?
Assolutamente no, però quello è il primo elemento! È chiaro che poi le competenze i giovani non le acquisiscono all’interno solo ed esclusivamente della scuola ma dal settore produttivo, dagli scambi con altre realtà produttive, aprendosi al contesto internazionale. Qui bisognerebbe in qualche misura ricominciare a pensare che c’è una domanda da una parte e un’offerta dall’altra; i due mondi si dovrebbero parlare, ossia scuola, università e impresa è necessario che si incontrino e discutano in vista della crescita professionale e umana delle persone, ma non su singole questioni che interessino singole realtà. Tentare di creare questo binomio diventa fondamentale, ma questo dialogo diventa molto difficile se non si creano le condizioni di dare continuità a questo accordo. Mi raccontavano tempo fa di un ingegnere che aveva tentato di mettere intorno al tavolo dei professori universitari per tentare di avviare una situazione di questo genere ma non è riuscito, perché in questi casi prevale sempre l’io e non il noi.
Partecipando a una conferenza a cui è stato invitato il Cardinale Matteo Maria Zuppi, lo stesso diceva: “Parliamo troppo dell’io e parliamo poco di noi” ed effettivamente se ogni cosa deve rientrare semplicemente nell’interesse del singolo settore, del singolo individuo, e non del sistema Paese non usciremo mai da una situazione di questo genere”.
Perciò, rispondendo alla sua domanda, è chiaro che scuola, formazione e università, a un certo livello, uniti al settore produttivo a un altro livello, possono davvero giungere a costruire percorsi formativi e professionali efficaci per i nostri giovani, quei giovani che poi, in circa 3000 unità ogni anno non trovando sbocchi professionali adeguati nel nostro Paese, se ne vanno via dall’Italia. Capisco perfettamente che c’è tutto un mondo e un modo di affrontare le questioni che andrebbe in qualche misura riorganizzato, ma se mai si inizia mai si arriverà a dei risultati.
Lei sarebbe favorevole a una università, sostenuta anche dal privato?
Perché no? Assolutamente sì, l’importante è che si lavori per salvaguardare gli interessi del Paese. Già oggi le università pubbliche fanno diversi accordi, convenzioni con settori privati e in alcuni casi funzionano anche molto bene. Probabilmente bisogna allargare un po’ questo spettro, tanto più che ci troviamo di fronte a uno stravolgimento. Con l’introduzione dell’intelligenza artificiale, se non partecipiamo a un’attività di questo genere, per l’ennesima volta, saremo fuori da un discorso globale.
Quali sono le skills fondamentali per formare il giovane, che dovrà andare a confrontarsi con il mondo?
Dovremmo in qualche misura riorganizzare anche il settore dell’informazione della comunicazione che è molto importante. Secondo me anche l’informazione potrebbe dedicare maggiore spazio a queste attività, della scuola e dell’università. Ma capisco le difficoltà, anche se non le condivido. In un mio intervento parlavo di Axel Springer, un noto giornalista, che sottolineava che per avere un richiamo importante sui quotidiani e sulla stampa in generale, la notizia deve far scalpore, presa sull’opinione pubblica in parole povere, deve essere scandalistica, perché altrimenti non attira attenzione nella gente. Lui utilizza simbolicamente il temine delle le tre “S”: Sangue, Sesso e Soldi. Ma forse non sarebbe una cattiva idea aggiungere una quarta “S”...come Studente e un’altra ancora come… “soddisfazione”, da parte delle famiglie che finalmente vedrebbero la speranza di un futuro migliore per i propri figli.
Creare delle rubriche che si occupino, così come avviene in altri Paesi, di scuola, di formazione, di università, dei nostri giovani, sicuramente riporterà nei giornali notizie anche noiose, perché attira molto di più la partita di calcio o la notizia di calciomercato, però probabilmente si riuscirebbe a sensibilizzare maggiormente sia le famiglie, ma soprattutto i giovani a fare attenzione a queste attività; a fronte di queste considerazioni perciò, il settore dell’informazione e della comunicazione risulta fondamentale, esso andrebbe riadattato anche verso un’attività di questo tipo. Questo è proprio il tema dei temi. La riorganizzazione deve essere vista a 360 gradi. Quando parliamo di capitale immateriale, interroghiamo vari settori per capire quali sono le cose importanti. Nell’ultimo libro, addirittura abbiamo parlato anche della dieta mediterranea, che diventa un elemento fondamentale per il recupero di un benessere psico-fisico determinante per lo sviluppo del capitale immateriale.
Sacrificio e merito, sono due parole che ormai non si usano, quanto valgono in questo progetto di ristrutturazione?
Secondo me dal 70 all’80% dei casi; il sacrificio e il merito restano fondamentali, anche perché senza sacrificio non si va da nessuna parte e poi, oltretutto, ottenere delle cose più facilmente, non ti prepara ad affrontare le difficoltà, che spesso ci sono, e alla fine non sei più competitivo a livello europeo e mondiale. Puoi essere anche laureato nel nostro Paese, ma se non si approfondiscono i concetti essenziali che rientrano all’interno delle conoscenze e competenze, fermandoti alla superficialità, non sarà facile in inserirsi nel contesto della globalizzazione. Le competenze diventano importanti, il conoscere diventa fondamentale. Ma c’é un’altra parola che secondo me è sfuggita: l’entusiasmo, ossia manca l’entusiasmo, specialmente negli anziani, manca quell’entusiasmo che significa avere un Dio dentro di noi, avere la felicità di fare qualcosa che sia utile per noi stessi ma soprattutto per la società e per i nostri giovani.
Quanto può incidere ritrovare l’entusiasmo e la capacità di intraprendere?
Innanzitutto io non credo che i giovani non abbiano questa capacità, secondo me l’hanno un po’ perduta perché non vengono orientati in questo tipo di attività. Io ho molta fiducia nei giovani.
All’Accademia dei Lincei, io ho provocatoriamente detto in una circostanza pubblica, che condividevo quello che era stato deciso a livello politico sul PNRR sviluppando prevalentemente una visione finanziaria del PNRR, ma a mio avviso bisognava trovare all’interno di questo contesto un altro “piccolo” PNRR, integralmente destinato e dedicato alla crescita qualitativa del sistema Paese, alla formazione, alla scuola e all’università. Le faccio subito un esempio, per capire bene: la programmazione dei progetti europei è una programmazione seria, una programmazione difficile. La verità è questa, “mettiamo”, noi come sistema Paese, nelle casse europee il 14,8% dei fondi e riportiamo a casa solo l’8,8%; perciò andiamo in negativo sistematicamente e ci poniamo il problema di chi sia la responsabilità trovandone diverse. La formazione è la base di tutto questo, perciò pensare, nel PNRR, di trovare uno spazio, una nicchia, che venisse destinata anche alla crescita qualitativa e quindi alla formazione può divenire uno strumento per responsabilizzare gli attori che dovevano occuparsi della programmazione. Noi dobbiamo considerare ormai la scuola e l’università come un settore economico del nostro Paese e per considerarlo tale, dobbiamo farlo crescere, perché rappresenta la nostra cultura e la nostra forza. Per far questo c’è bisogno di finanziamenti, e i finanziamenti arrivavano dal PNRR e questa può essere un’occasione d’oro per trovare maggiore spazio per queste attività che secondo me diventano fondamentali.