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Ida Molaro
Giornalista Mediaset

COMUNICARE IL RISCATTO SOCIALE: TESTIMONIANZE E SLOGAN PER REALIZZARE LA LIBERTÀ DELLE DONNE

“Non sei sola” è lo slogan scelto per la campagna antiviolenza sulle donne nel 2020. Uno dei più riusciti dal punto di vista comunicativo e che di fatto ha avviato la seconda fase della battaglia culturale iniziata anni prima – 2012 - per convincere le vittime a denunciare. Fino ad allora i messaggi, pure efficacissimi, erano prioritariamente mirati a rendere pubblico il dramma silente di centinaia di donne. Aggressioni fisiche e verbali, lividi, ragazze ripiegate su se stesse, queste le immagini scelte spot dopo spot per raccontare una realtà sommersa e mettere alla berlina la brutalità degli uomini. Obiettivo: far crescere la consapevolezza anche nei maschi “sani” affinché si facessero parte attiva del cambiamento.

Difficile misurare l’impatto deterrente di quelle campagne sui protagonisti di storie di abbrutimento. Molto più evidente la presa di coscienza collettiva di un male sociale da denunciare. E proprio su questo punto, la denuncia, che si gioca la partita forse più importante per aiutare le vittime a risollevarsi.

Il lavoro da fare in questo ambito è enorme perché non si tratta “solo” di informare in modo capillare le donne sui loro diritti, ma di creare e formare una rete di persone in grado di gestire tutte le fasi della rinascita. Fare rete, dunque. Agenti delle forze dell’ordine istruiti a comprendere e rassicurare, centri di ascolto, corsi di formazione, personale sanitario sensibilizzato al fenomeno. E non ultime leggi, vedi ad esempio il codice rosso, scritte sulla scorta delle testimonianze e delle esperienze reali. Impegno quotidiano e collettivo necessario a sostenere le vittime e contestualmente a sradicare la subcultura dell’abuso.

Qui davvero l’informazione e la comunicazione potrebbero giocare un ruolo importante per sostenere donne private – e non prive – della loro autostima.

Negli ultimi anni i mass media hanno dedicato sempre più spazio alla questione femminile, ma lo hanno fatto occupandosi sostanzialmente di episodi di cronaca cruenti, i femminicidi, e solo ogni tanto di storie di rinascita – essenzialmente psicologica - di chi ha subìto prevaricazioni. Il perché è chiaro: il primo messaggio da diffondere con forza e in modo capillare resta quello dell’allerta. Donne non trascurate i segnali e sappiate che lo Stato è dalla vostra parte.

Nel tempo, però, l’esperienza maturata sul campo ha dimostrato che non c’è lieto fine se non si comprende che presa di coscienza, denuncia, emancipazione sono un trinomio monolitico.

E qui arriva la terza fase del tutt’uno: la possibilità per le donne di rendersi economicamente indipendenti.

Sono poco più di trenta milioni – secondo l’ultimo rilevamento del 2022 - le donne in Italia. Cifra che in percentuale vuol dire il 51,3% della popolazione. Ossia la maggioranza. Un esercito che avanza a passi da gigante nella società e nel mondo del lavoro ma che non sembra raggiungere mai la vera parità di genere.

E sono proprio i numeri a parlare: il 31,2% delle donne dipende economicamente dal partner o da un familiare. Il dato è stato diffuso lo scorso anno all’interno dell’indagine condotta dalla Global Thinking Foundation sull’inclusione sociale ed è stato accolto come un successo – e lo è – se confrontato con il 63% del decennio precedente.

Ci sono infine altre cifre da prendere in considerazione prima di provare a tradurre le statistiche in fatti e storie reali: solo il 58% delle donne ha un conto corrente intestato personalmente, l’11,6% ne ha uno unico intestato con il partner, l’1,3 con un altro familiare e il 4,8% non ne ha nessuno, neppure cointestato.

L’emancipazione economica femminile, dunque, è un passaggio fondamentale per superare un divario che non è un problema di “contabilità” ma una misura di civiltà.

Bisognerebbe quindi chiedersi se davvero le vittime abbiano sottovalutato la pericolosità del partner -per restare nell’ambito familiare che è quello cui è riferibile la stragrande maggioranza dei casi di abuso - o se piuttosto abbiano vissuto in un limbo per paura di quel che accade dopo la denuncia o anche il solo allontanamento. Ritorsioni fisiche, psicologiche ed economiche soprattutto per chi ha figli. Figli utilizzati come arma di ricatto che frequentemente consiste nel rifiuto di provvedere al loro sostentamento.

Il bisogno materiale per sé e per i figli è troppo spesso la zavorra di cui le vittime fanno più fatica a liberarsi anche semplicemente per ipotizzare di tagliare i ponti con il proprio aguzzino. L’opera meritoria dei centri antiviolenza ad oggi non è sufficiente a diffondere notizie sugli strumenti a disposizione per costruire da sole la propria emancipazione economica poiché le nozioni e il percorso di accompagnamento vengono forniti a chi ha già compiuto un primo passo fattivo verso l’affrancamento dalla violenza. Eppure sarebbe importante che la conoscenza dei mezzi di sostegno – vedi il microcredito di libertà – fosse ampiamente diffusa proprio per agire da molla per decidere di uscire dalla spirale di paure e incertezze.

La stessa informazione mediatica si limita a raccontare sporadicamente storie di donne che ce l’hanno fatta. Esempi virtuosi che funzionano da “moltiplicatori di coraggio” e che per questo avrebbero bisogno di maggior eco per diventare modelli di riferimento.

“Mi sono messa alla prova in un lavoro nuovo e ho visto che ce la facevo, considerato che uscivo dal mio matrimonio pensando di non riuscire a fare nulla, sentendomi incapace nel gestire la mia vita. Mi rendo conto invece che ho delle competenze, delle capacità che posso utilizzare, che mi fanno riuscire in quello che faccio. Riacquisisco un reddito, che non avevo da tempo, così potevo gestirmi in modo autonomo senza il permesso di nessuno”.

Sono le parole tratte da un’intervista rilasciata da Nicoletta, ideatrice e manager del marchio “Cuoche combattenti” nato dopo una separazione burrascosa e anni di sudditanza psicologica ed economica. La sua avventura imprenditoriale – premiata dal Presidente della Repubblica Mattarella con l’onorificenza al merito - è iniziata con la concessione di un microcredito di 20mila euro. Nel suo laboratorio di cucina e conserve nel cuore di Palermo dal 2019 ad oggi sono passate molte altre donne in cerca di libertà e companatico.

Molto più recente – parliamo del 2023 - è la chance colta al volo da Francesca (in questo caso si tratta di un nome di fantasia) grazie al Microcredito di libertà per aprire una lavanderia tutta sua nel Lazio e liberarsi così dalle zavorre di un rapporto violento e prevaricante.

Come è facile comprendere, il tema dell’indipendenza economica accomuna due vicende paradigmatiche su cui riflettere. Nicoletta era ed è una donna indipendente e colta, incappata in una relazione malata che per anni le aveva tarpato le ali e messa all’angolo. Francesca ha una provenienza sociale diversa e meno consapevolezza delle proprie capacità. Anche lei finita in un incubo travestito da sogno sentimentale. Donne diverse, destino comune come pure il percorso di rinascita che necessariamente è dovuto passare per l’indipendenza economica.

E qui torniamo ai numeri iniziali. Sarebbe parziale ipotizzare che il 4,8% di donne sprovvisto di un proprio conto corrente personale lo sia per decisione di un partner violento. Così pure non è corretto pensare che il 12,9% di conti cointestati corrisponda esclusivamente a dinamiche deviate di controllo. I numeri sono e restano un indicatore generico da approfondire caso per caso, però qualcosa – appunto – ci indicano. Ovvero la necessità di parlare a quella platea di donne (quasi il 20% del totale) che presumibilmente non gestisce in autonomia o non gestisce affatto un conto corrente.

In questo senso - al pari dell’immediatezza del messaggio dello slogan “Non sei sola” - la scelta della parola “libertà” per definire il microcredito dedicato a una così particolare fascia di donne ha una fortissima capacità pervasiva. L’immagine che evoca è istantanea, potente, suggestiva. Concretezza è però l’altro ingrediente necessario affinché le vittime di violenza sentano questa opportunità come accessibile anche a loro che si sentono lontane anni luce dagli stereotipi delle donne di successo.

Molte delle campagne pubblicitarie meglio riuscite e tuttora in corso, puntano sulla “normalità” delle loro protagoniste. Ragazze, o anche signore, belle senza eccessi. Felici senza lussi ad alimentare quella loro felicità. Semplicemente persone che ogni giorno incontriamo in strada, al mercato, in palestra, sul bus. Brillanti solitari che spiccano tra la folla indefinita proprio per la loro semplicità.

Da questo tipo di comunicazione pubblicitaria, a mio avviso, si può prendere spunto per diffondere in modo efficace la conoscenza del Microcredito di Libertà (scritto volutamente con la L maiuscola) senza che si perda l’autorevolezza della fonte e l’importanza dell’iniziativa.

Arrivare in modo capillare a tutte le donne in difficoltà è la scommessa su cui bisogna continuare a puntare. Che a farlo siano le istituzioni o le associazioni di volontariato o, ancora, chiunque voglia dare il proprio contributo, non conta.

Penso ad esempio alla sperimentazione in corso con le cabine fototessera dotate – cinquanta gli apparecchi allestiti in questa prima fase e distribuiti da Nord al Sud del Paese - di un dispositivo per la chiamata diretta al numero antiviolenza 1522. L’idea - progetto della società Dedem in collaborazione con l’Associazione Differenza Donna - nasce dalla volontà di consentire anche alle donne prive di un telefono cellulare personale di poter chiedere aiuto.

Non richiede alcun supporto tecnico la campagna di informazione permanente allestita dall’Ospedale Moscati di Avellino che grazie a decine di cartelloni affissi nei corridoi e nelle sale d’attesa ricorda alle donne quali sono le forme di violenza più comuni (sembrerà incredibile ma soddisfare alcune richieste di particolari prestazioni sessuali da parte del marito viene ancora vissuto in moltissimi casi come un dovere coniugale e non come libera scelta) e quanto sia loro diritto ribellarsi.

Esempi che ci riportano al tema iniziale di questo lungo intervento: il ruolo della comunicazione nel superamento della discriminazione di genere. E nello specifico, nell’affrancamento dalla dipendenza economica. Tema che può sembrare asettico rispetto all’impatto emotivo prodotto da quello “fisico” degli atti di violenza, ma che è invece esiziale per chi trova il coraggio di cambiare vita. E non si tratta di garantire sussistenza per un periodo più o meno lungo, ma di accompagnare la donna in un processo di cambiamento radicale finalizzato alla scoperta dei propri desideri e del proprio potenziale.

Dai un pesce ad un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita” recita una nota massima mai abbastanza ricordata ma che riassume perfettamente il messaggio da comunicare attraverso il Microcredito di Libertà. E affinché quel messaggio sia davvero efficace bisogna ancora una volta tornare al punto di partenza: le donne. Uniche, fragili ma forti, impaurite ma capaci di grandi gesti di coraggio, doloranti ma piene di voglia di andare avanti. Perdenti o vincitrici a giorni alterni come capita a tutti nella vita di tutti i giorni. Sono loro le testimonial più efficaci per parlare ad altre donne, esattamente come nelle campagne pubblicitarie più in voga del momento, ma senza i fronzoli della pubblicità.

Una comunicazione tanto utile quanto corretta deve trasmettere il concetto: non voglio “ammaliarti” promettendoti l’accesso ad un fondo per avviare una tua attività economica o per fronteggiare le tue difficoltà, ma dirti che c’è una mano tesa se avrai voglia di prenderla e qualcuno che è pronto a tenertela mentre impari a camminare da sola.

I dati sull’imprenditoria femminile in generale ci raccontano successi e fallimenti ma soprattutto nuove consapevolezze, compresa quella di sognarsi imprenditrice per poi in realtà scoprirsi più felici e sicure nel ruolo di dipendente.

L’importante è cominciare.

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