SERVIRE LA BASE DELLA PIRAMIDE

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SERVIRE LA BASE DELLA PIRAMIDE

ECONOMIE AVANZATE: NUOVI APPROCCI NEL MARKETING E NELLA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE (DRAFT)

Gennaro IASEVOLI*, Laura MICHELINI**

Negli ultimi anni il modello tradizionale d’impresa, incentrato prevalentemente sull’obiettivo di massima creazione di valore economico, è stato messo spesso in discussione; non poche, infatti, sono state le critiche riguardo la tendenza a ottimizzare esclusivamente le performance finanziarie di breve periodo e di marginalizzare, invece, quei fattori di più ampia portata che in molte situazioni possono assicurare un successo nel medio-lungo periodo.
In questo dibattito si inserisce anche il filone di studi comunemente noto come “Bottom of Pyramid” (BoP), che enfatizza le opportunità per le imprese di considerare, nelle diverse fasi di produzione-commercializzazione, anche il segmento rappresentato dalle fasce più svantaggiate della popolazione: si tratta di un mercato potenziale di oltre 4 miliardi di persone nel mondo che vivono con un reddito pro capite inferiore a 2$ al giorno.
Questo approccio, che si consolida a partire dalla metà del decennio scorso, si basa sul presupposto che le imprese possono svolgere un ruolo chiave nello sradicamento della povertà, attraverso lo sviluppo di prodotti e servizi in grado di soddisfare le esigenze dei più poveri: l’obiettivo è quello di accrescere il benessere collettivo, favorendo i legami e le sinergie tra le imprese e il contesto sociale e ricercando in tal modo un mutuo e diffuso vantaggio.
Tradizionalmente nata come una teoria applicata ai paesi in via di sviluppo, oggi risulta quanto mai attuale anche per le economie avanzate che si trovano ad affrontare tassi crescenti di povertà, tanto più significativi se si considerano anche quelle comunità a basso reddito (cosiddette Low Income Community), composte da persone che vivono ai margini della società.
Secondo Eurostat (2013), all’interno dell’area di Euro28, le persone a rischio di povertà o di esclusione sociale o che vivono in famiglie con bassissima intensità di lavoro, sono circa 120 milioni; in Italia la povertà relativa colpisce circa il 16,6% della popolazione (10 milioni 48 mila persone), e addirittura il 9,9% (6 milioni 20 mila) vive in condizioni di povertà estrema (Istat, 2014).
Questa situazione, ormai sempre più diffusa tra i paesi europei, rappresenta paradossalmente un incentivo allo sviluppo di offerte specificamente rivolte verso coloro che vivono in condizioni preoccupanti di povertà: prodotti e servizi pensati per un mercato a basso reddito, la cui idea originaria è quella di ricercare il soddisfacimento dei bisogni primari di una persona congiuntamente a un miglioramento della sua qualità di vita.
Per quanto attiene le modalità cui le imprese si rapportano ai mercati a basso reddito emergono sostanzialmente due approcci prevalenti: “BoP as-consumer” in cui l’impresa rivolge la sua offerta di prodotti o servizi al segmento BoP oppure “BoP as-producer” in cui l’impresa coinvolge le comunità a basso reddito nella catena del valore (es. come fornitori o dipendenti).
LE POLITICHE DI MARKETING INCLUSIVO: DALLE 4P ALLE 4A
Anche se il tema BoP è stato ampiamente sviluppato in teoria, e risulta essere ancora di grande attualità, la letteratura accademica si è poco focalizzata sulla sua applicazione nei mercati avanzati. Solo recentemente l’UNDP, in una prima relazione, ha sottolineato che i modelli di business che prevedono “un’inclusione” delle fasce più svantaggiante possono essere molto attuali e applicabili anche nei contesti più avanzati e in particolare nei paesi europei e nell’Asia centrale.
Partendo da queste premesse, alcuni autori hanno iniziato a occuparsi dei fattori critici di successo nella implementazione di politiche di marketing cosiddette inclusive; innanzitutto, è stata rimarcata l’importanza della dimensione “collaborativa”, in quanto le strategie inclusive presuppongono lo sviluppo e un forte ricorso alle reti di cooperazione.
Relativamente alle diverse leve di marketing (le cosiddette “4P”) e in particolare alle politiche di prodotto e di gamma, risulta che nella maggioranza dei casi le imprese che si rivolgono al segmento low income ricorrano all’estensione di marca “verso il basso”, che consiste nell’offrire una versione più economica rispetto a quella premium magari rivolta a segmenti economicamente più ricchi; in realtà, molti casi di brand extension verso il basso testimoniano che non sempre le imprese realizzano appieno il potenziale dell’inclusività. Le tecniche più utilizzate prevedono: una versione più semplificata del prodotto; imballaggi più semplici; confezioni ridotte o acquisto all’ingrosso; marche commerciali o addirittura la commercializzazione di prodotti senza marchio.
Per quanto riguarda la leva della comunicazione, le esperienze più significative riguardano certamente i paesi in via di sviluppo. Un fattore di successo, che è emerso in molte iniziative, riguarda la capacità delle imprese di saper gestire efficacemente i cosiddetti dilemmi etici: saper considerare aspetti quali la presenza di forti asimmetrie informative (spesso i segmenti a basso reddito presentano anche tassi di analfabetismo elevati), non penalizzare il cliente per il suo ridotto potere contrattuale, trovare un giusto equilibrio tra le esigenze promozionali e quelle informative, rappresentano situazioni che possono generare effetti positivi per l’impresa nel lungo periodo.
Relativamente alle politiche di prezzo, l’approccio più frequente è quello di ricorrere a riduzioni di prezzo (grazie anche a riduzioni di costi) e di favorire gli sconti quantità, associate in genere alla presenza di una minore qualità.
Infine, relativamente alla quarta leva di marketing, risulta che le politiche di distribuzione più significative e di successo applicate nei mercati a basso reddito prevedono un maggior ricorso all’intermediazione tradizionale (piccoli punti vendita al dettaglio) con servizi dedicati, anche laddove calcoli meramente economici lo escluderebbero, come ad esempio l’apertura di punti vendita in zone particolarmente depresse.
Partendo da queste prassi, è stato sottolineato che in un contesto di innovazione sociale, in alternativa alle tradizionali “4P” del marketing, sia più utile ragionare in termini di “4A” ossia: conoscenza e consapevolezza delle caratteristiche dell’offerta (awareness), accesso al prodotto anche in presenza di zone remote (access), convenienza economica (affordability) e disponibilità attraverso una fornitura ininterrotta di prodotti (availability).
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE SOCIALMENTE INCLUSIVA E INNOVATIVA
Dall’analisi delle diverse esperienze del marketing applicato ai contesti BoP risulta che le strategie di marketing più frequenti siano quelle che potremmo definire di “minor prezzo, minor valore”, ovvero di “vendere anche ai poveri”. A ben vedere si tratta di proposte in cui la dimensione inclusiva risulta piuttosto limitata e che probabilmente inducono a un ripensamento della teoria BoP quando applicata ai paesi avanzati. In quella che viene definita la strategia “BoP 2.0”, i poveri non devono essere considerati solo come un ulteriore segmento di consumatori verso cui indirizzare l’offerta aziendale, ma come dei partner da coinvolgere e “includere” nella catena del valore: solo in questo modo, infatti, si riusciranno ad individuare e creare vantaggi condivisi per la singola persona, l’impresa e per la collettività in cui tutti sono inseriti.
In questo ambito, il settore della distribuzione alimentare si è certamente contraddistinto, a livello internazionale, per la sua capacità di proporre soluzioni sociali innovative, soprattutto se contestualizzate alle economie avanzate.
Tra i modelli di intermediazione commerciale che prevedono una particolare attenzione ai segmenti di consumatori a basso reddito si contraddistinguono: a) le banche alimentari; b) i supermercati sociali; c) i discount tradizionali oppure con i cosiddetti corner “tutto a 1€”.
Le Banche alimentari, ormai diffuse da oltre trent’anni in tutto il mondo, sono solitamente rappresentate da quelle organizzazioni caritatevoli - maggiormente presenti tra le chiese o tra le altre organizzazioni non-profit - che “sollecitano, ricevono, immagazzinano e distribuiscono prodotti alimentari ricevuti da donazioni a favore di altre agenzie caritatevoli che servono direttamente le persone bisognose”. Ad esempio Banco Alimentare, certamente una delle realtà italiane più rappresentative, nata a fine anni ’90 nel solco della tradizione cristiana della dottrina sociale della Chiesa, ha raccolto, solo nel 2013, circa 63 mila tonnellate di prodotti che rappresentano oltre 790mila piatti pronti distribuiti a circa 9mila strutture caritative ovvero a oltre 2 milioni di persone bisognose.
Queste forme di intermediazione che si posizionano nella sinistra della Figura 1, sono caratterizzate da una missione esclusivamente sociale finalizzata sostanzialmente a fornire prodotti alimentari primari ai più bisognosi. L’accesso è per definizione aperto a tutti, soprattutto se si tratta di persone povere o di senza fissa dimora. Il legame che unisce queste organizzazioni con i loro fornitori o dipendenti-volontari è per lo più di natura filantropica e in genere circa il 70% dei fondi o dei prodotti raccolti è destinato alla gestione della causa.
Un’altra categoria di intermediazione fortemente “inclusiva” è rappresentata dai supermercati sociali, ormai piuttosto presenti in alcuni paesi quali l’Austria e il Regno Unito (in Europa si contano ormai oltre 1000 esperienze), ma purtroppo ancora poco diffusi nel resto d’Europa. In genere questi supermercati ricevono gratuitamente prodotti alimentari o di altra primaria necessità da parte di organizzazioni partner (ad esempio i produttori, altri supermercati, ecc.), e li vendono, a prezzi simbolici, a persone che vivono in seri rischi di povertà. Caratteristiche principali dei supermercati sociali sono: a) un assortimento limitato di prodotti alimentari e/o di prodotti per la casa; b) un accesso limitato alle persone a rischio di povertà e solitamente controllato; c) la presenza di prodotti con un prezzo a scaffale più basso del 30-70% rispetto ai supermercati tradizionali. Nei contesti più evoluti, i supermercati propongono un’offerta “aumentata”, caratterizzata ad esempio dalla presenza di servizi finalizzati al (re)inserimento dei poveri nella società, corsi di aggiornamento e formazione, assistenza psico-sociale, alfabetizzazione finanziaria, microcredito, eccetera; esempi di supermercati sociali sono SOMA (Austria) e Community Shop (UK).
Infine, un’ulteriore tipologia è quella dei discount tradizionali che, tuttavia, in genere si rivolgono indistintamente alla popolazione interessata ai prodotti a basso prezzo e non, quindi, specificamente alle persone a basso reddito. In questo ambito, rientrano anche quei negozi tradizionali che propongono promozioni speciali (come corner super convenienti “tutto a 1€”) per i clienti emarginati (come i poveri) o che vivono nei cosiddetti “deserti alimentari” dove il degrado economico e sociale è al di sopra della media.
Anche per comprendere lo stato dell’arte in Italia, sono stati analizzati tre differenti modelli di business (Emporio della Solidarietà, Ultimo Minuto Bio e Eurospin), che possono essere assimilabili alle tre categorie innanzi descritte. Le informazioni, raccolte utilizzando materiali documentari interni ed esterni, sono state codificate usando i principi che definiscono concretamente un approccio BoP (London, 2008). In particolare, la partecipazione esterna, si riferisce al coinvolgimento di imprese che operano al di fuori del contesto BoP; la co-creazione, riguarda il coinvolgimento del segmento LIC nel processo di innovazione e sviluppo di nuovi prodotti. La connessione tra i mercati, si riferisce alla possibilità di connettere il mercato locale con quello globale, e viceversa; l’innovazione, evidenzia l’orientamento a lungo termine delle imprese e le prospettive di replicabilità delle iniziative (scaling up) e infine la capacità di auto-finanziamento e crescita, si riferisce alla sostenibilità economico-finanziaria dell’impresa.
L’analisi dei casi evidenzia che il collegamento tra il cosiddetto eco-sistema locale con quello non-locale rappresenti il principio più rispettato mentre la partecipazione esterna sia quello meno attuato.
In generale, risulta come i modelli di business esaminati non aderiscano completamente ai principi di fondo dell’approccio BoP. Questo dipende dalla difficoltà oggettiva di adattare un approccio al business pensato per i paesi in via di sviluppo alle economie più avanzate. In conclusione probabilmente la definizione stessa dei principi BoP andrebbe rivista e riadattata quando si vuole misurare la cosiddetta “BoP-ness” nei mercati avanzati.
ABSTRACT
The “Bottom of the Pyramid (BoP)” theory underlines the opportunities for companies to service the poor, by developing an offer that could meet their unsatisfied needs and reducing poverty through innovation. The real power of these studies lies in the perception of the poor. Poor are not only people to help but also to serve. Those living in poverty can be seen as a market to target with specific products and services.
Although it has been traditionally applied to developing countries, advanced economies are also facing worrying rates of poverty.
The article focuses on those firms that address the BoP markets within the developed countries, and on the marketing strategies that they apply – with a specific focus on BoP-as-consumer ventures in the food industry. Secondly – through a case study analysis – the research aims to analyse the features of Italian experiences and how they are developed with respect to the principles on which the BoP approach is based
What emerges is the unlikeliness for businesses to be aligned with the BoP principles in advanced markets.
< >Bibliografia essenziale
< >Holweg C., Lienbacher E., & Schnedlitz P. (2010). Social supermarkets: Typology within the spectrum of social enterprises. Proceeding of ANZMAC conference.
< >London T. (2008), The base of the pyramid perspective: a new approach to poverty alleviation. Proceeding of Academy of Management conference.
< >Michelini L., Iasevoli G., Grieco C., dal Negro L. (2014), Serving the Bottom of the Pyramid in developed countries: new approaches in marketing, Proceeding of SIM annual conference.
< >Prahalad C.K. (2004). The fortune at the bottom of the pyramid: eradicating poverty with profits. Wharton Publishing.
< >Sánchez P., Ricart E. (2010) Business Model innovation and sources of value creation in low-income markets. European Management Review.
< >Shrestha S. (2014), Dollars to dimes: Disparity, uncertainty, and marketing to the poor at USdollar stores, International Journal of Cultural Studies.
< >UNDP (2010), Business solution to poverty, www.undp.org

< >* Chief of Department Communication, Education and Psychology University LUMSA of Rome
< >** Department of Economic, Political Sciences and Modern Languages University LUMSA of Rome
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