ALIMENTAZIONE O NUTRIZIONE SANA?

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ALIMENTAZIONE O NUTRIZIONE SANA?

Dal 13 dicembre 2014, è entrato definitivamente in vigore il regolamento europeo 1169/11 che in pratica porterà una nuova etichettatura su tutti i prodotti alimentari.

Enza Colagrosso

Le nuove etichette devono poter consentire ai consumatori di compiere scelte consapevoli, permettendo loro di leggere sul prodotto che stanno acquistando, le caratteristiche nutrizionali, gli allergeni e l’origine dei componenti, in una forma linguistica comprensibile per l’utente del mercato in cui quel genere alimentare viene messo in vendita. Niente di nuovo potrebbe pensare il compratore più distratto, ma in realtà le caratteristiche nutrizionali dovranno essere molto più specifiche di quelle che si leggono ora dietro le confezioni, e dovranno rispondere a sette elementi: valore energetico, grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, proteine, zuccheri e sale riferiti a 100 mg o 100 ml di prodotto. Le sostanze allergizzanti: derivati del grano e cereali contenenti glutine, sedano, crostacei, anidride solforosa, arachidi, frutta a guscio, latticini contenenti lattosio, dovranno essere evidenziate con chiarezza anche dai ristoratori e dagli esercenti di quegli esercizi che somministrano bevande o alimenti. Insomma sembra esserci un’attenzione nuova verso ciò che si mangia, quasi a voler tracciare un confine sempre più deciso fra semplice alimentazione e nutrizione sana. Tema a cui sta mostrando molta attenzione anche Samantha Cristoforetti, la nostra Astronauta che dalla Iss, la Stazione Spaziale Internazionale che orbita a 400 km dalla Terra, sta svelando, attraverso il sito “Avamposto 42”, come si nutrono gli astronauti lanciando spunti per una nutrizione sana e innovativa sulla terra. Samantha, infatti, insieme con Argotec, un’azienda torinese che da anni segue, per l’Agenzia Spaziale Europea, l’alimentazione degli Astronauti, ha messo a punto ricette a base di semplici ingredienti che rispondono ai dettami di una sana nutrizione che non perde di vista l’economicità. Non dimentichiamo infatti, che il motto della Cristoforetti è: “un’alimentazione sana è possibile anche spendendo poco”. E così ora dallo Spazio ci viene, per esempio, data l’idea di snack a base di frutta, impastati con semplici farine e niente zucchero seguendo le ultime teorie che rivelano come le nostre cellule non abbiano bisogno di apporti esterni di zucchero visto che sanno produrselo da sole, ricavandolo dagli alimenti complessi che ingeriamo.


Forse spinti dalla crisi, ma anche dalla constatazione che certe patologie che ci affliggono si è sempre più convinti che possono essere ricondotte alle cattive abitudini alimentari diffuse, si sta cercando di ingerire cibo con una coscienza ed una consapevolezza maggiore, e diversa. Ecco allora un’attenzione nuova a tutte le news del settore che ci riportano dati incredibili e forse un po’ destabilizzanti, come quello che va a scardinare tutti quei riferimenti, considerati fino ad oggi elementi fondanti per le nostre scelte alimentari. Il riferimento è nei dati emersi da una ricerca presentata in questi giorni, condotta da Gfk, su 28.000 persone in 23 Paesi, che ha dimostrato comel’India sia il Paese in cui si mangia in modo più sano, mentre alla nostra “dieta mediterranea” e al cibo italiano in particolare, viene riconosciuta una scarsa sufficienza. Noi italiani, in questa ricerca, risultiamo essere poco attenti al sonno e poco curanti di un’alimentazione sana, piuttosto che buona. Vero o non vero quello che attesta questo studio, quel che è certo è che oggi è difficile parlare di un’alimentazione veramente italiana visto che sempre più spesso i nostri prodotti non sono più preparati con ingredienti esclusivamente “made in Italy”. Nel nostro bel Paese infatti, non si riesce più a produrre tutte le risorse di cui abbiamo bisogno tanto che importiamo gran parte delle materie prime dall’estero. Questo lo dobbiamo in parte alle politiche restrittive dettate dall’Unione Europea, ma anche a scelte operate da politiche interne che hanno reso sempre più difficile, e poco appetibile, la “vita dei campi”. Ci sono dei dati resi pubblici da Coop sulla rivista “Consumatori” che ci raccontano poi come si sia anche drasticamente ridotta, sul nostro territorio, la terra destinata alla coltivazione, tanto che dal 1970 a oggi gli ettari di superficie coltivabile sono scesi da 18 a 13 milioni.

Si spera ora che la nuova legge sull’agricoltura sociale possa produrre un’inversione di marcia significativa. Ma se la Coop lancia messaggi affinché la nostra terra torni ad essere lavorata da agricoltori nostrani, intanto ci propone prodotti che, venduti proprio con il suo marchio, hanno veramente poco d’italiano e chissà se poi rispondono ai dettami di una nutrizione salutare a fronte di norme di coltivazione e di uso di pesticidi che certo non sono proprio come quelle applicate qui da noi. L’origine dei prodotti Coop si può verificare attraverso un’applicazioni per telefonini che si chiama: “Coop origini” che in un certo qual modo rappresenta la risposta alla richiesta di trasparenza, sui contenuti dei prodotti, introdotta dall’Unione Europea. Basta scaricarla e inserire il numero del codice a barre del prodotto che intendiamo consumare per conoscere la provenienza dei suoi ingredienti. Ed è allora che abbiamo la conferma che il made in Italy, nel settore agroalimentare, praticamente non esiste più! Quel che è peggio, è che questo non vale solo per i prodotti Coop, ma quasi per tutta la nostra produzione alimentare. Prendiamo l’esempio della pasta: il grano duro italiano copre solo il 65% del nostro fabbisogno ed ecco allora che importiamo frumento dall’Ucraina, dal Sudamerica, dal Canada e dagli Stati Uniti; andiamo anche peggio per il grano tenero, la cui richiesta interna è coperta solo per il 38% e ci rivolgiamo quindi all’Australia, alla Turchia, al Messico, al Canada e all’Ucraina per avere il resto di cui abbiamo bisogno. Sono tanti i prodotti che siamo costretti ad importare e tra questi anche il pesce, che andiamo ad acquistare in Thailandia, nei Paesi Bassi, in Grecia, in Spagna e in altri Paesi, fino all’Ecuador.

Importiamo anche gran parte dei legumi che consumiamo ma, quel che può apparire più incredibile, importiamo anche il pomodoro, nella veste di concentrato, e lo importiamo, incredibile da credere dalla Cina. A proposito di made in Italy, che di Italy ha ben poco, vale la pena menzionare anche la pasta Barilla, quella che identifica un po’ la “casa degli Italiani”. Bene, la Barilla non è più italiana ma Americana e i suoi standard di produzione si avvicinano sempre a quelli di quel Paese, piuttosto che a quelli italiani. E così mentre siamo rassicurato dal buon fornaio della pubblicità del marchio, mangiamo prodotti con tassi di microtossine altissimi perché prodotti alla luce di direttive in atto fuori dai nostri confini. Va ricordato poi che Barilla vuol dire anche: Motta, Essere, Gran Pavesi, le Tre Marie, le Spighe, Mulino Bianco insomma tutti quei nomi che molti italiani identificano con la vera qualità, garantita. Succede spesso, infatti, che il consumatore fidelizzato ad un nome attribuisca a questo sicurezza e garanzia, ma accade di frequente che quelli che riconosciamo come marchi di produzione sono in realtà il nome di una di quelle multinazionali che incidono fortemente sulle politiche alimentari dei nostri mercati e penetrano anche in quelle sociali dei Paesi più poveri. E’ in mano a pochissimi, infatti, la decisione su ciò che è meglio e più proficuo far arrivare sulle nostre tavole. Sono circa 10, e gestiscono i marchi di prodotti che noi mangiamo ogni giorno. I nomi più familiari delle multinazionali di cui sono a capo? Coca Cola, Mondelez, Toblerone, Milka, Philadelphia, Nestlé, Mars, Kellog’s, Danone e Pepsicola. Sono questi alcuni dei più noti padroni del mercato alimentare mondiale, quel mercato alimentare che produce ben 900 milioni di persone che soffrono la fame a fronte di circa 1,4 miliardi di persone in sovrappeso (dati ONU 2014). In quello italiano i signori che dominano sono: il gruppo Cremonini (3,5miliardi di fatturato) Parmalat (1,4miliardo di fatturato), Amadori (1,3) Lavazza (1), Conserve Italia (1). Un po’ meno ricche perché sotto il livello del miliardo ci sono Acqua San Benedetto, Galbani e Granarolo. Questi signori hanno già pianificato la nostra alimentazione per i prossimi anni ed è sempre a loro che dobbiamo la discussione e i molti freni posti alla nuova etichettatura degli alimenti che, come si può facilmente immaginare, coinvolge miliardi di investimenti e una chiarezza lontana dal modo di procedere in uso. Per portare un esempio si può menzionare la frizione nata intorno agli olii utilizzati.

Da ora in poi non sarà più possibile utilizzare la semplice dicitura: “Oli Vegetali” ma bisognerà mettere nero su bianco ciò che viene utilizzato, in pratica non sarà più possibile utilizzare olio di palma lasciando intendere che sia olio di oliva. Non è possibile concludere un discorso sui prodotti alimentari senza menzionare anche le contraffazioni. Contraffazioni che si celano in parte in quei componenti che non sono più unicamente italiani ma ancor più quando troviamo prodotti spacciati per 100% italiani, come il latte, per poi scoprire in realtà essere una miscela di latte ungherese e di altri provenienti da allevamenti dopati con ormoni. Nel sistema delle contraffazioni si nascondono i formaggi filanti tedeschi etichettati come mozzarella italiana, i pomodori e molti altri prodotti tipici della nostra produzione provenienti magari dalla Cina o dalla Turchia e che, con un semplice gioco di etichette, diventano prelibati prodotti italiani pronti per il mercato estero. E’ innegabile infatti che tutto il business dell’agroalimentare rappresenta un “piatto ghiotto” per la criminalità organizzata e per l’industria della contraffazione in generale ed è proprio dall’agire di questi che noi dobbiamo difendere le piccole e medie imprese italiane e la nostra stessa salute.

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