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GAP CULTURALE
GAP CULTURALE
COM'È DIFFICILE PER LE DONNE FARE IMPRESA
Lapo Mazzei
Ma davvero la donna del nuovo Millennio è costretta a inseguire per poter essere almeno alla pari degli uomini? E davvero il mondo dell'impresa rappresenta ancora un percorso a ostacoli per l'altra metà del cielo, dove le trappole sono superiori alle indicazioni?E quale è il rapporto tra donna in carriera e credito? Tutte domande che a prima vista potranno apparire retoriche, soprattutto se uno parte dall'assunto che il nostro Paese (sulla falsariga di quanto avviene in Europa), sta investendo sulle politiche per le Pari opportunità tanto quanto spende in altri settori. Il problema è che il ritorno, sotto il profilo pratico, è nettamente inferiore rispetto agli investimenti. In particolar modo nel mondo del credito la forbice è ancora troppo ampia. Non a caso il presidente degli Stati Uniti ha lanciato un allarme che non può essere affatto sottovalutato.
"Anche se siamo nel 2014, ci sono donne che ancora guadagnano meno degli uomini per fare lo stesso lavoro. E in questo Paese non ci possono essere cittadini e lavoratori di seconda classe", ha detto Barack Obama nel tradizionale messaggio del sabato alle famiglie, appellandosi all'elettorato femminile a pochi giorni dalle elezioni di mid terms. "Le donne devono avere una paga equa e devono avere le stesse possibilità di successo sul lavoro, poiché rappresentano oggi la metà della nostra forza lavoro. Le donne meritano di potersi mettere in aspettativa per prendersi cura dei propri figli, di un genitore malato, o prendersi dei giorni di malattia. Le donne in gravidanza meritano di essere trattate in maniera equa. Ancora oggi possono essere licenziate per prendersi troppe pause, o vengono costrette a prendersi aspettative non retribuite. Questo è sbagliato, e abbiamo il dovere di scegliere politiche che assicurino che le donne in attesa di un bambino vengano trattate con dignità e rispetto". Insomma il gap, non certo culturale ma materiale, da colmare è ancora troppo ampio per poter parlare di ingresso nel futuro da parte delle donne, se queste sono costrette a fare i conti in prima persona con un evidente deficit di possibilità. "La maggior parte dei lavoratori a basso salario sono poi donne", sottolinea ancora Obama, "ma il Congresso in sette anni non ha voluto varare l'aumento del salario minimo a 10 dollari e 10 centesimi, un aumento di cui beneficerebbero 28 milioni di lavoratori, più della metà donne. Queste sono le politiche di buon senso che dovrebbero essere portate avanti". L'America è lontana, potrà pensare la maggior parte di voi. La realtà è che il modello delineato da Obama è molto più vicino al sistema italiano di quanto si possa immaginare.
Il presidente americano, essendo in campagna elettorale, ha poi rivendicato i successi in economia, dopo la grande crisi. "Abbiamo fatto tanta strada da sei anni fa", ha detto, "negli ultimi 55 mesi le nostre imprese hanno creato 10,3 milioni di posti di lavoro. E per la prima volta in sei anni l'occupazione è scesa sotto il 6%. E ancora, negli ultimi sei mesi la nostra economia è cresciuta al ritmo più veloce dal 2003". In Italia siamo ben lontani da queste cifre. Ma un dato è assolutamente assimilabile a quello del Belpaese: le donne sono ancora un passo indietro. Stando a uno studio della Banca d'Italia incentrato sul tema "Le donne e l'economia italiana" (la ricerca è intitolata "Questioni di Economia e Finanza") si evince che i divari di genere sul mercato del lavoro, ai vertici delle imprese, nelle retribuzioni restano significativi in Italia. Nel lavoro, che sintetizza i principali risultati di un progetto di ricerca volto a individuare gli effetti economici e le principali cause di tali divari, vengono discusse alcune evidenze relative ai differenziali salariali, ai divari nei vertici e nell'accesso al credito. Tra le cause dei persistenti divari vengono individuati sia fattori di offerta (da parte delle donne), sia di domanda (da parte del mercato del lavoro)". Insomma, se Obama nel suo intervento analizza il fenomeno a valle, Bankitalia pone l'accento sulle questioni che stanno a monte. Nella relazione degli esperti si legge: "Tra i primi rilevano la scarsità di strumenti di conciliazione e l'organizzazione del lavoro, ancora poco flessibile per alcuni aspetti, anche l'istruzione. Tra i secondi rilevano le componenti culturali e fenomeni di discriminazione implicita, per cui vengono premiate sul mercato del lavoro caratteristiche più diffuse tra gli uomini, sebbene non rilevanti per il lavoro svolto. Si discutono inoltre alcune delle politiche volte a ridurre i divari: la normativa nazionale e le politiche regionali; gli incentivi all'imprenditoria femminile; una tassazione che non scoraggi il lavoro femminile".
Puntando il faro sul tema relativo agli ostacoli che incontra l'imprenditoria femminile nell'accesso al credito, gli esperti dell'istituto centrale sostengono che "il più difficile accesso al credito delle imprese femminili non è un fenomeno solo italiano (Stefani, Vacca, 2013). Analisi condotte sulla base di indagini internazionali (Survey on Access to Finance of SME della BCE) mostrano per i principali Paesi l'esistenza di vincoli all'accesso al credito per le imprese femminili, sia dal lato della domanda (le donne temono più spesso un rifiuto e quindi chiedono meno frequentemente credito), sia dell'offerta (a parità di caratteristiche osservabili, le donne si vedono più spesso rifiutare una richiesta di credito)". Dunque le attuali regole del mercato sono un altro elemento da abbattere o, quanto meno, da rimodellare alle esigenze del nuovo millennio. "In Italia, le evidenze riguardano anche il maggiore costo del credito per le (piccole) imprese femminili (Alesina, Lotti, Mistrulli, 2013), nonché, nel periodo recente di crisi economica, la contrazione più accentuata del credito verso le imprese femminili rispetto a quelle maschili (di nuovo, a parità di caratteristiche osservabili), anche se non è possibile in questo caso distinguere tra componenti di domanda e offerta (Cesaroni, Lotti, Mistrulli, 2013). Queste evidenze sui divari in diversi campi della vita economica si sommano e rafforzano quelli ampiamente documentati da molte istituzioni, tra cui l'Istat (2012). Impongono un'analisi in profondità delle radici dei divari, per assicurare politiche efficaci nel contrastarli". Il messaggio di fondo è chiaro, occorre agire prima che sia troppo tardi. Sotto questo profilo il Microcredito è uno strumento di sviluppo economico che permette a persone in condizione di povertà di accedere ai servizi finanziari; solitamente viene infatti definito "credito di piccolo ammontare finalizzato all'avvio di un'attività imprenditoriale o per far fronte a spese d'emergenza nei confronti di soggetti vulnerabili dal punto di vista sociale ed economico, che generalmente sono esclusi dal settore finanziario formale". Non stupisce quindi che questo modello sia nato nei Paesi in via di sviluppo, anche se negli ultimi anni il microcredito, con gli opportuni adattamenti, si è diffuso anche nei Paesi sviluppati dove è rivolto ai soggetti che hanno più difficoltà ad accedere al credito attraverso i canali tradizionali. In Italia una delle categorie discriminate nell'accesso al credito è quella delle donne, che spesso sono penalizzate rispetto agli uomini con importi accordati inferiori, maggiori tassi di interesse e maggiore richiesta di garanzie. Proprio per questo motivo il Ministero del Lavoro ha deciso di usare lo strumento del microcredito per sostenere e incentivare il binomio donne e lavoro attraverso il programma Microcredito Donne, promosso dalla campagna "Riparti da te! Bella impresa essere donna". Il progetto propone delle offerte di finanziamento per favorire il lavoro per le più giovani, consolidare le nuove imprese al femminile e reinserire le over 35; l'obiettivo è infatti quello di fornire un aiuto a tutte le donne che vogliono "ripartire da sé" creando una propria impresa senza dover fornire garanzie personali a un istituto bancario o dover chiedere aiuto ai genitori o al marito. 13 Kenya L'importo massimo finanziato per le attività imprenditoriali o di lavoro autonomo – secondo le disposizioni degli articoli 111 e 113 del Testo Unico Bancario che disciplinano il microcredito – è di 25 mila euro e per ottenerlo non c'è bisogno di offrire garanzie reali come, ad esempio, l'ipoteca sulla casa. Il finanziamento sarà inoltre accompagnato da servizi ausiliari di assistenza e monitoraggio dei soggetti finanziati. Esiste anche lo strumento del microcredito sociale, che permette di finanziare con un massimo di 10 mila euro "persone fisiche in condizioni di particolare vulnerabilità economica o sociale". Anche in questo caso non c'è bisogno di garanzie reali e il finanziamento deve essere accompagnato da servizi ausiliari di bilancio familiare. L'iniziativa è sostenuta dall'Ente Nazionale per il Microcredito (ENM) che non è un'istituzione bancaria e non eroga direttamente prestiti, ma realizza dei fondi di garanzia e, dopo aver valutato ogni singolo progetto, indirizzerà la futura imprenditrice verso i canali adeguati per ottenere un prestito. L'Ente si occupa, tra le altre cose, di compensare il divario esistente nell'accesso al credito tradizionale, di rafforzare i programmi che favoriscono la conciliazione lavoro/famiglia, di contribuire alla formazione di una cultura imprenditoriale e finanziaria, di fornire un'informazione mirata al target femminile sugli strumenti a disposizione e incoraggiare le reti di donne imprenditrici. Tornando allo studio della Banca d'Italia, che non si limita a delineare la "malattia", c'è da sottolineare il fatto che fra le cause della situazione italiana, c'è la una scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro in generale e della contenuta presenza femminile ai vertici delle istituzioni e delle imprese. "E' ormai ampiamente diffusa la convinzione che assicurare maggiore parità di genere produca non solo società più eque, ma anche maggior benessere economico (World Bank, 2012).
"Questa valutazione è assai complessa", sostengono gli esperti di via Nazionale, "per i molti problemi di endogeneità dei fenomeni, che rendono spesso difficile identificare i nessi causali. Si può distinguere un approccio macroeconomico, volto a valutare l'impatto economico complessivo che avrebbe una maggiore presenza femminile nel mercato del lavoro, e uno di natura microeconomica, che tenta di stimare l'effetto della presenza femminile sui risultati o sulla governance delle imprese (o di altre istituzioni). Nell'ambito del primo approccio si sono tentati esercizi controfattuali (simili a quelli realizzati per altri paesi, come gli Stati Uniti e il Giappone, dove si stima che la chiusura del gap occupazionale innalzerebbe il PIL rispettivamente del 9 e del 16 per cento). Un maggiore accesso femminile al mercato del lavoro, che ne innalzasse il tasso di occupazione all'obiettivo di Lisbona (60 per cento) si assocerebbe ‘meccanicamente' a un PIL più elevato del 7 per cento, anche in presenza di una riduzione della produttività media. Ovviamente ciò non significa che sia possibile realizzarlo a parità di altre condizioni, in particolare a parità di occupazione maschile. Rispetto a questo tuttavia, alcune analisi mostrano come nel segmento più giovane della forza lavoro la maggiore partecipazione femminile non avverrebbe necessariamente a scapito di quella maschile, in quanto la sostituibilità tra le due tipologie di forza lavoro è contenuta (De Giorgi, Paccagnella, Pellizzari, 2013)". Scendendo ancor più nel dettaglio, grazie a una relazione di Rete Imprese Italia Imprenditoria Femminile (Casartigiani Donne Artigiane, CNAImpresa Donna, Confartigianato Donne Impresa, Terziario Donna Confcommercio,Imprenditoria Femminile Confesercenti) in collaborazione con Artigiancassa (Gruppo BNP Paribas), che hanno presentato "L'lndagine Congiunturale sulle micro e piccole imprese femminili" nel 1° trimestre 2013, emergono dati ancor più preoccupanti. "Da questa prima indagine emerge quello che denunciamo da tempo" sostengono gli studiosi che hanno effettuato la ricerca "ovvero maggiori difficoltà di accesso al credito e condizioni più gravose per le imprese femminili. Ciò tradisce un atteggiamento pregiudizievole da parte del mondo bancario nei confronti delle imprenditrici, peraltro non basato da reali maggiori problematiche delle imprese femminili che anzi si dimostrano più affidabili. In riferimento alle dimensioni e all'ubicazione delle imprese è importante segnalare che chi soffre ancor di più sono le imprese di dimensione minore e le imprese al Sud. Oltretutto le differenze nel secondo trimestre rivelato si allargano purtroppo sempre più significativamente". Cifre alla mano diminuisce rispetto all'ultimo trimestre del 2012 la percentuale di imprese femminili che si sono rivolte alle banche per chiedere un finanziamento (dal 12,6% al 10,5%), percentuale peraltro inferiore rispetto al totale degli imprenditori (12%), e tra queste, aumentano le imprese che non ottengono il credito richiesto (passate dal 54% al 62%) e diminuiscono quelle che si sono viste accogliere le domande di finanziamento (dal 23,8% al 17%); in entrambi i casi, si tratta di performance decisamente peggiori rispetto al totale delle PMI; è estremamente elevata, inoltre, la quota di imprese femminili - l'80% che richiede finanziamenti per esigenze di liquidità e cassa; infine, più della metà delle imprenditrici segnala un peggioramento rispetto a tasso, durata, costo di istruttoria e garanzie richieste per l'ottenimento dei finanziamenti. Insomma, si conferma una situazione generale di forte difficoltà di accesso al credito per le imprese ma, rispetto al sistema delle PMI nel suo complesso, le imprenditrici fanno ancora minore ricorso al credito bancario e, quando lo fanno, hanno più spesso una risposta totalmente o parzialmente negativa e scontano condizioni di finanziamento più sfavorevoli. La percentuale delle imprese femminili (fino a 49 addetti) che nel primo trimestre 2013 si sono recate in banca per chiedere credito è risultata più bassa di quella registrata presso il resto delle imprese italiane fino a 49 addetti (10,5% contro il 12,0%) e più bassa di quella registrata nella precedente rilevazione (12,6%). In questo contesto l'accesso al credito per le imprese femminili risulta ben più difficile della realtà nazionale. La cosiddetta area di stabilità, ovvero la percentuale delle imprese che hanno visto accolta la propria richiesta di credito con un ammontare pari o superiore, si riduce dal 23,8% al 17,1% (contro il 25,0% del totale delle imprese), mentre l'area di irrigidimento (percentuale delle imprese che hanno visto accolta la propria richiesta di credito con un ammontare inferiore a quello richiesto sommate a quelle che hanno visto respinta la propria richiesta) cresce dal 54,0% al 61,9% (contro il 45,1% del totale delle imprese). In sostanza, le imprese di genere femminile che nel corso del primo trimestre 2013 si sono recate in banca per chiedere credito sono diminuite rispetto alla precedente rilevazione e sono in percentuale meno delle altre imprese e, tra quelle che fanno domanda, si registra una percentuale più elevata (e in crescita) di risposte negative. In relazione alle finalità del credito richiesto, invece, non si riscontrano differenze sostanziali fra imprese femminili fino a 49 addetti, ovvero micro e piccole imprese, e le altre micro e piccole imprese italiane. La destinazione dei finanziamenti richiesti dalle imprenditrici è per l'80,1% a esigenze di liquidità e cassa, per il 16,5% a investimenti e per il 3,4% a ristrutturazione di debiti già in essere.