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DI Romina Gobbo

«Nell’immaginario collettivo l’idea di non profit viene associata al circolo culturale, o all’associazione di volontariato,
rimanda cioè, all’assistenzialismo o al mutuo soccorso, ma si tratta di uno stereotipo che va sfatato. Il non profit
è una macro area molto complessa, racchiude Sindacati, Organizzazioni politiche ed economiche, di categoria... I
poteri forti dello Stato, quelli che ci governano, ne fanno parte».
A spiegarlo è il professor Raffaele Lomonaco, direttore del Dipartimento di Studi Alta Specializzazione (CLAS) della
Pontificia Università Lateranense di Città del Vaticano, da vent’anni docente di Economia Politica, con una grande
passione proprio per il non profit, nella sua vera essenza.

Raffaele Lomonaco Direttore del Dipartimento di Studi Alta Specializzazione (CLAS) della Pontificia Università Lateranense di Città del Vaticano

«L’azienda non profit è prima di tutto un’azienda, quindi con una sua struttura ed una sua organizzazione:
uno o più imprenditori, i lavoratori, e l’efficienza dell’imprenditore/degli imprenditori nel raggiungere - non un lucro (nel senso che possono conseguire un
utile, ma esso non può essere diviso fra i soci, va accantonato e riutilizzato per raggiungere gli scopi societari,
nda) -, ma il pareggio dei costi. Se non c’è almeno il pareggio dei costi, non può esistere un’azienda. La capacità imprenditoriale deve sempre funzionare, altrimenti
si chiude.

Solo lo Stato può mantenere aziende in perdita, con l’aumento del debito pubblico, l’imprenditore
privato non se lo può permettere. Quindi i criteri aziendalistici sono condizione sine qua non. Che
cos’ha in più il non profit rispetto al profit? L’elemento valoriale, ovvero una mission che lo Stato ritiene meritevole di tutela, tanto da prevedere per chi persegue quella mission, delle agevolazioni fiscali. Con il Decreto Legislativo del 3 luglio 2017, n. 117, è entrato in vigore il Codice del Terzo settore (CTS) che norma le attività tipiche del mondo del non profit: “interventi e servizi sociali, sanità, prestazioni socio sanitarie, istruzione e formazione, ambiente, valorizzazione del patrimonio culturale, formazione universitaria e post,
ricerca scientifica, attività culturali, artistiche ricreative, radiodiffusione a carattere comunitario, attività turistiche di interesse sociale, formazione extrascolastica, servizi strumentali al terzo settore, cooperazione allo sviluppo e commercio equo solidale, reinserimento lavoratori, alloggio sociale, accoglienza umanitaria, agricoltura sociale, beneficenza, promozione della legalità e pace, promozione diritti umani, adozioni internazionali, protezione civile, riqualificazione beni pubblici”».
Al 31 dicembre 2015, le istituzioni non profit attive in Italia erano circa 340mila e complessivamente impiegavano
788.126 dipendenti, nonché oltre 5 milioni di volontari (dati Istat - Osservatorio Permanente).

Sono per lo più basate in Lombardia (15,7%) e Lazio
(9,2%); seguono Veneto (8,9%), Piemonte (8,5%),
Emilia Romagna (8%) e Toscana (7,9%).
Professore, il decreto legislativo 117 però non parla
di non profit, bensì di ETS, Enti del Terzo settore.
«L’unica volta che un termine anglofono - non profit,
appunto - avrebbe avuto ragione d’essere, non l’abbiamo
adottato.
Nel 2005, c’era stata una Raccomandazione del Consiglio
Europeo che chiedeva agli Stati di conformarsi
alla dicitura “Non Profit Organization”. Ma, poiché le
raccomandazioni sono prive di efficacia vincolante, in
Italia il legislatore ha preferito utilizzare questo “Enti
del Terzo Settore”, che ci crea problemi di comprensione
con gli altri Paesi europei. E poi terzo a che cosa?
Il non profit raccoglie tutto. Il non profit per eccellenza
è la Pubblica Amministrazione.
Se questo Codice ha il merito di aver messo ordine
dal punto di vista giuridico, è però complicatissimo.
Invece di promuovere il terzo settore a tutti i livelli,
finirà con lo schiacciare sotto il peso della burocrazia
le imprese più piccole.
Siamo passati da un sistema che permetteva tutto ad
un sistema che non permetterà più niente».
Uno degli elementi chiave della riforma del terzo settore
è dato dal decreto sull’impresa sociale, che ha
chiarito la definizione, per cui “possono acquisire la
qualifica di impresa sociale tutti gli enti privati, inclusi
quelli costituiti nelle forme di cui al Libro V del Codice
civile che, in conformità alle disposizioni del presente
decreto, esercitano in via stabile e principale un’attività
di impresa di interesse generale, senza scopo di lucro
e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale,
adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti,
e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori,
degli utenti e di altri soggetti interessati alla loro attività”.
Essere impresa sociale per un’azienda che cosa
significa?
«Il concetto di impresa sociale rafforza l’azienda. Chi
lavora nel sociale, infatti, lavora con un obiettivo, che
non è solo portare a casa lo stipendio a fine mese, ma
anche raggiungere e condividere la mission dell’impresa
di cui fa parte, cosa che non si evince molto spesso
nelle aziende for profit, dove l’obiettivo unico dell’imprenditore
è il profitto. Questo coinvolgimento del
lavoratore è stato dimostrato anche da appositi studi,
rende la sua produttività molto più elevata, e per l’impresa
si traduce in un doppio beneficio, economico e qualitativo. Il lavoratore soddisfatto, inoltre, si sente
“legato” all’azienda e questo diminuisce il turn over.
È una formula vincente; lo dimostra anche lo sforzo
di colossi come Facebook, Google, nello stimolare il
senso di appartenenza dei dipendenti».
Il decreto, inoltre, ha ampliato i campi di attività,
inserendo settori quali il commercio equo, l’alloggio
sociale, l’inserimento lavorativo di soggetti
svantaggiati, l’agricoltura sociale e il microcredito.
Quest’ultimo, in particolare, è a sua volta un importante
veicolo di creazione d’impresa.
«Certo. Soggetti esclusi dal credito dei canali istituzionali,
sono riusciti, attraverso il microcredito, ad avviare
forme di auto micro imprenditorialità, creare lavoro e
quindi contribuire in parte allo sviluppo economico e
alla crescita del nostro Paese. Non dimentichiamo che
il tessuto economico italiano è costituito principalmente
di piccole e medie imprese, per le quali la micro
finanza è uno strumento particolarmente adatto. E,
infatti, il legislatore ha considerato il microcredito talmente
meritevole di interesse, da inserirlo nell’elenco
del decreto. Ma, in generale, tutti gli Stati europei si
sono creati la propria via al microcredito».
Anche in questo caso c’è uno stereotipo da sfatare:
che si tratti di uno strumento adatto solo ai Paesi
in via di sviluppo.
«Era nato per quei Paesi, ma i soggetti cosiddetti
“non bancabili”, ovvero esclusi dal circuito del credito
perché non in grado di fornire garanzie sufficienti,
non mancano neppure da noi. In Italia, nel 2004, è
stato costituito il “Comitato Nazionale Italiano Permanente
per il Microcredito”, quale organo preposto
all’organizzazione degli eventi relativi al “2005 - Anno
internazionale del Microcredito”, proclamato dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite; da esso deriva
l’“Ente Nazionale per il Microcredito”, Ente pubblico
non economico che esercita importanti funzioni
in materia di microcredito e microfinanza, a livello
nazionale ed internazionale. Le varie esperienze relative
al microcredito sono riconducibili a due grandi
categorie, quella del credito all’impresa e quella del
prestito all’economia sociale. Nell’ambito del credito
all’impresa rientrano: il microcredito inteso come
prestito di una somma di denaro a soggetti esclusi dal
credito ordinario, al fine di avviare attività imprenditoriali
autonome. Tale tipologia di intervento è realizzata
mediante intermediari specializzati o mediante l’intervento di banche convenzionate che concedono
prestiti con parziale copertura dei fondi di garanzia; i
finanziamenti a fondo perduto da parte di pubbliche
amministrazioni ed enti privati, per favorire l’occupazione
e lo sviluppo economico; i sistemi di garanzia
per ridurre i rischi delle banche nel concedere il credito.
Nell’ambito del prestito all’economia rientrano
quelle Istituzioni finanziarie che erogano credito
alle organizzazioni no profit di grande valore sociale,
quali quelle che svolgono attività nel settore della cooperazione
sociale, della cooperazione internazionale,
dell’ambiente, della cultura, del volontariato. In sostanza,
si crea sviluppo economico, ma si salvaguarda
la dignità delle persone».
Salvaguardare la dignità delle persone significa
entrare nell’ottica di un’economia più etica, di cui
oggi molto si discute a livello teorico, ma poco si
rispecchia nella pratica.
«È fondamentale che ci sia un’etica nell’economia, a
prescindere dalla fede e dal credo religioso. L’economia
è una scienza comportamentale, si fonda sulla fiducia
nel comportamento degli attori economici. Se
c’è un comportamento etico da parte degli operatori
- dovuto al rispetto degli accordi e dei contratti, alla
buona fede, al rispetto di principi e valori condivisi
- il sistema economico funziona. Quando crollano
i valori, com’è successo negli ultimi anni, il sistema
economico non regge e questo porta ad uno sfaldamento,
a una crisi di fiducia. Chi ha voluto rendere
l’economia solo numerica, studiandola e applicandola
con strumenti e modelli matematici, ha sottovalutato
gli elementi comportamentali. Nell’economia la matematica
è d’ausilio. Che cosa spiega l’economia? Il
comportamento umano.
Per me è molto più vicina a sociologia. Non a caso,
il Nobel per l’Economia 2018 è stato assegnato allo
statunitense Richard Thaler, un economista comportamentale
».
È stata più una crisi economica o di valori quella
iniziata nel 2008?
«Sia di valori che di mercati che non rispettano l’evoluzione
del ciclo economico, non esistono sempre cicli
espansivi. Essi hanno fasi di crescita, di stallo, poi di
depressione, è connaturato alla scienza economica. Infatti
si studia da 200 anni.
Ogni qualvolta accade, siamo più preparati perché
gli strumenti di politica economica sono molto più conosciuti e sperimentati. All’epoca della grande crisi
del 1929, la politica economica non si conosceva, non
si conoscevano gli strumenti per poterne uscire. Poi
gradatamente sono stati introdotti e la crisi del 2008
è stata attutita dall’utilizzo di questi strumenti, come
le massicce iniezioni di liquidità da parte della Banca
Centrale Europea».
Gli imprenditori tendono però a pensare in maniera
negativa, come se la crisi fosse sempre in atto.
«L’economista ragiona con il cuore freddo, l’imprenditore
con il cuore caldo, vede la situazione propria,
non la situazione macro. L’economista invece guarda
al quadro generale; se non facesse così, non ci sarebbe
una via d’uscita. Il micro soffre, e il macro cerca di trovare
soluzioni che portino beneficio anche al micro».
Papa Francesco insiste molto - ma anche il suo predecessore,
Benedetto XVI, lo faceva - nella denuncia
di un’economia che, se da un lato crea benessere,
dall’altro aumenta le disuguaglianze. E, comunque,
c’era già tutto nella Dottrina sociale della Chiesa.
«Purtroppo, la Dottrina sociale della Chiesa molti la
citano, ma pochi la leggono. Pertanto, è poco conosciuta,
e resta poco seguita. Il problema è sempre la
distribuzione della ricchezza, ovvero come quello che
si produce viene distribuito. È un problema annoso,
secolare. Quanto è equa la distribuzione del reddito?
L’economia come scienza esiste dal Settecento. Non è
mai stata in grado di dare una risposta a questo. Siamo
in grado di sviluppare l’economia, ma non di misurarne
l’equità. Questa è solo una scelta politica, che può
essere indirizzata da principi valoriali, legati alla fede
per chi crede, ma anche laici. Non esistono regole in economia, per stabilire se è equa la distribuzione del
reddito. Ma poi ne vediamo le conseguenze. Se mezzo
mondo vive nella fame e l’altro mezzo mondo nella
ricchezza, è inevitabile che ci sia lo spostamento da
parte di chi è affamato verso l’altra zona.
Le migrazioni odierne ci dimostrano che il sistema
economico che avevamo approntato non ha funzionato.
Avremmo potuto accorgercene ben prima, ma
abbiamo preferito coprirci gli occhi. All’Occidente
faceva comodo non vedere, ma prima o poi il tappeto
lo si deve alzare. Il capitalismo anche da noi aveva
creato disuguaglianze sociali che, in qualche modo,
sono state corrette con il movimento sindacale; hanno
continuato a permanere, invece, lo sfruttamento dei
Paesi in via di sviluppo, il saccheggiamento delle loro
risorse, tutte cose note, ma nascoste. Com’è tornata
questa polvere? Con l’emigrazione».
Siamo ancora in tempo per cambiare rotta e orientarci
verso uno sviluppo sostenibile?
«Dobbiamo essere positivi. Il cambiamento culturale
non è mai facile, ma diventa sempre più necessario.
Anche per i fenomeni a cui stiamo assistendo: le migrazioni,
appunto, ma anche il degrado ambientale.
La sostenibilità che inquadriamo da un punto di vista
generale, non è solo un principio, è una necessità.
Sono i fatti che ci “costringono” alla sostenibilità. Pensiamo
a una cosa banale: i rifiuti. Fino ad un decennio
fa circa, non ce ne occupavamo, oggi non sappiamo
più dove metterli. Non abbiamo voluto vedere quello
che succedeva nei Paesi in via di sviluppo? Oggi le
migrazioni ci costringono a farlo. Abbiamo inquinato
acqua e aria? C’è un aumento esponenziale di tumori.
La sostenibilità è richiesta dalle urgenze».

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