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Alessandra Pepe Giornalista

Antonella Di Pietro una Manager nel mondo della moda con la M maiuscola con oltre 20 anni di esperienza nel promuovere la consapevolezza del marchio nei mercati di tutto il mondo. È stata divisional vice president di Emilio Pucci, Kenzo e Salvatore Ferragamo; creative director di vari marchi internazionali da Karl Lagerfeld a Tommy Hilfiger, senior project manager di Moncler, oggi è la Chief brand officer di Trussardi, prima stesso ruolo ricoperto alla Todd’s . Cittadina del mondo, si divide tra varie città, ma orgogliosamente napoletana di nascita, un legame che rivendica e sottolinea nella sua attività imprenditoriale. Da poco è presidente del Tavolo di consultazione per lo sviluppo e la promozione di “Made in Naples” e del brand della Città di Napoli “We Are Napoli”. Si è formata all’European School of Economics e all’Art School di New York. Si interessa di sostenibilità.

Se le dico Made in Italy cosa pensa? E a che punto siamo?

“Il Made in Italy resta una storia importante che credo non abbia mai fine. Anche se probabilmente cambieremo la metodologia di approccio al Made in Italy, prima significava solamente produrre in Italia, adesso significa anche tutto quello che intellettualmente appartiene all’Italia, quindi è ancora più importante parlarne.

L’Italia è famosa per i suoi artigiani. Quanto sono importanti e che contributo danno al mondo della moda nazionale ed Internazionale?

Gli artigiani sono essenziali perché restano la nostra mano più originale, più autentica. Per quanto dobbiamo essere super aperti a tutta la parte ideologica e digitale di aziende, che stanno dando uno spin off alla realizzazione di prodotti della moda, gli artigiani restano comunque la parte più vicina a quando un creativo deve realizzare per esempio un prodotto. Nella moda l’artigiano è, infatti, il primo interprete di quegli che sono gli input stilistici: è il creativo a passare all’artigiano un disegno. Anche all’interno di aziende grandi ed organizzate sarebbe difficile in una primissima fase non avere una parte artigianale. Inoltre gli artigiani puri sono ancora più importanti perché ci consegnano un prodotto che ha un sapore completamente diverso da quello che noi vediamo prodotto da grosse strutture, che ha quindi una differenza sostanziale.

Secondo lei quanto il microcredito può aiutare un settore come la moda ed i giovani artisti emergenti?

Il microcredito può sicuramente aiutare in una fase iniziale, perché ormai l’esborso economico che viene richiesto è mostruoso, l’online poi ha ancora di più esagerato questa necessità in quanto è molto costoso, bisogna essere molto tecnici ed appoggiarsi a bravissimi esperti, quindi il microcredito aiuta in un primo momento. Se però si vuole fare il salto di qualità servono delle injection molto importanti: forse il supporto di unoStato, che può dare grossi finanziamenti, può essere importante. Sicuramente il microcredito è l’inizio, quindi la possibilità di avere una parte economica che possa aiutare ad organizzare le primissime fasi di un qualsiasi progetto.

Ha sempre lavorato per affermati marchi internazionali, qual è la forza dei grandi? E cosa dovrebbero imparare dai piccoli?

La forza dei grandi marchi, a parte l’area economica che gli permette di fronteggiare varie situazioni, soprattutto in questo momento di grande difficoltà a sopravvivere in un contesto di questo genere, un grosso gruppo ha un sostegno economico importante cosa che i piccoli non riescono a fronteggiare. Mentre l’aspetto positivo del piccolo è l’elasticità, cioè la capacità di adattarsi ai tempi, che in questo momento richiedono una necessità di cambio costante e repentino, che è molto più interessante di una struttura grossa. Un consiglio che darei ai piccoli in ogni caso di organizzare e riconoscere le expertise, anche al loro livello, cosa che spesso non succede nelle strutture più piccole come quelle famigliari. Di frequente alcune funzioni non vengono considerate perché superflue, invece, in questo momento storico, le funzioni che creano una struttura grande devono essere prese in considerazione dai piccoli come devono imparare a strutturarsi e a pensare che non è il singolo a creare un successo, ma è un team.

Sempre parlando di finanza quali sono in proporzione gli investimenti di capitali esteri e dei fondi?

Gli investimenti dei fondi esteri in Italia sono veramente consistenti. Come dico scherzando il sogno di ogni fondo in tutto il mondo è avere un piede in Italia perché siamo e rimarremo sempre la terra della moda, quindi non potrebbe non avere in mente un brand italiano. Gli investimenti da parte dell’estero nella moda, infatti, sono veramente ingenti: l’Italia, come stiamo vedendo, è abbastanza nelle mani di una serie incredibile di aziende, fondi, organizzazioni internazionali. Per quanto dei fondi italiani importanti si stanno attivando per far rimanere una serie di realtà italiane in mano agli italiani.

Italia vanta la miglior sartoria. Vizi e virtù dei nostri sarti?

Sicuramente la nostra sartoria è tra i migliori. Senza dubbio ci appartiene storicamente la manualità ed anche, anzi soprattutto, la grande creatività. Secondo me la notevole differenza rispetto a grandi sarti di altri luoghi è che in Italia il sarto è quasi sempre anche un creativo, che in qualche modo migliora spesso il progetto del designer o perlomeno sa come mettere il twist per fare in modo che il prodotto non sia piatto. Non solo, quindi, tecnicamente ben fatto e ben cucito, ma che ci sia una manualità che deriva da una grossa expertise fisica, sapendo approcciare al prodotto anche da un punto di vista creativo.

Il mondo della moda per tutti i giorni è influenzato dal “mordi e fuggi” moderno di produzione in serie e di bassa qualità. Quanto è, Invece, importante il recupero dell’artigianalità e del fatto a mano?

Il recupero dell’artigianalità rispetto a delle proposte di qualità più bassa resta ovviamente una necessità, perché nell’efficientare e creare collezioni più piccole, che abbiano una personalità maggiore, il mass market resta ancora una realtà importante però anche in quell’ambito cominceranno tutti a ridurre le collezioni in maniera un po’ più cosciente ed avere una maggior attenzione verso i prodotti che sono troppo di bassa qualità. Dico sempre che è il consumatore che deve creare le necessità di evitare delle produzioni di basso livello, perché le aziende, per quanto coscienziose e attente a quello che sta succedendo, saranno sempre portate ad un grosso guadagno o alla necessità di mettere sul mercato quanto più roba possibile. Il consumatore deve, quindi, dare una mano e lo spin off finale deve essere molto critico su quello che gli viene proposto. Sarà perciò lo stesso consumatore ad evitare delle produzioni cosi di basso livello ritornando all’artigianalità. Spesso è anche una barriera economica il motivo per cui non sono scelti dal consumatore: immagino che tutti vorrebbero oggetti di buonissima qualità ma spesso poi è il prezzo ad indurre certe scelte.

In giro per il mondo, si divide fra varie città, ma il suo cuore è a Napoli. Tanto che recentemente è diventata presidente del Tavolo di consultazione per lo sviluppo e la promozione di “Made in Naples” e del brand della Città di Napoli “We Are Napoli”. In cosa consiste questo nuovo progetto?

Il progetto è ambizioso e straordinario e spero di essere in grado di realizzare quello che ci siamo proposti con il tavolo di “We are Napoli” e delle “Free Minds”, come amo definirle, perché sono tutte persone libere. Ci proponiamo, come ci è stato assegnato dal Comune, di ridare visibilità a Napoli nel mondo. Nasce dalla scia dell’evento straordinario di “I love NY”, ha la stessa idea: creare attraverso un brand una nuova storia per questa città, con delle piccole milestone che possono sollecitare il cittadino, prima di tutto, a considerare questa città come dovrebbe, il napoletano stesso a volte dimentica che questa città basa i suoi fondamenti sulla cultura e sulla storia, su situazioni che non possono essere quelle che vengono oggi comunicate nel mondo. E allo stesso tempo anche sollecitare chi è all’estero e arriva in questa città non per storie stereotipate rispetto ai luoghi, ma per un rinascimento. Stiamo creando degli eventi e delle piccole storie per arrivare ad un evento importante dove “We are Napoli” si fa promotrice della ricostruzione attraverso progetti consistenti più vicini alla città. Abbiamo cominciato con una parte social e digitale rilevante ed una piccola affissione di manifesti in giro per la città con personaggi famosi e non in condizione di dire per iscritto attraverso dei claim di qualsiasi genere polemici e non, nostalgici, che riguardassero Napoli, in modo che la gente si soffermasse a guardare, quindi in un primo momento venisse sollecitata nello spirito per sentirsi partecipe. A settembre si terrà un evento straordinario, sull’idea che ha avuto Mika per Parigi, abbiamo pensato ad una grande storia attraverso una manifestazione di interesse col Comune per artisti che vogliono adottare i cartelloni pubblicitari dismessi, che ora sono in crisi. Abbiamo avuto una adesione incredibile di artisti, non solo napoletani, ma di tutto il mondo, ed insieme ad un direttore di un museo, che stiamo ancora valutando, creeremo un percorso turistico, sociale e culturale per sollecitare gli animi. Poi inizieremo con progetti veri, non che questi non lo siano, ma che riguardano i quartieri della città.

È una manager affermata: quanto l’ha aiutata essere una donna? C’è spazio per le donne di emergere non solo come modelle?

Veramente mi è accaduto l’opposto: quanto non mi ha aiutato essere donna. Se fossi stata un uomo avrei avuto un carriera più rapida, in quanto se avessi rinunciato a percorsi importanti della mia vita che ho desiderato e voluto fortemente, come una famiglia. Con questo, non voglio dire mi ha penalizzato, però ho avuto delle priorità diverse da chi pensa solo alla carriera: in dei momenti delle assenze dovute alla voglia di essere a casa hanno rallentato il ritmo che un uomo normalmente riesce ad avere. Come donna probabilmente ho fatto molto più fatica, come anche molto più fatica lavorando all’estero da italiana e da napoletana ancora di più, in quanto gli stereotipi non sono del tutto finiti, quindi la battutina c’è costantemente. Da pochissimo insieme a quaranta donne straordinarie abbiamo scritto un libro, che è una sorta di vademecum, sulla violenza sulle donne: da quella gravissima fisica a quella che dobbiamo subire nel mondo del lavoro in quanto donne perché abbiamo la necessità di dare priorità ad altri aspetti che danneggiano la carriera.

Secondo lei cosa ha imparato la moda dalla pandemia?

La moda dalla pandemia ha imparato tantissimo perché ci siamo anche resi conto delle priorità. La lezione più importante è stata quella di ricominciare a pensare alla moda senza eccessi, nel senso produttivo del termine, prima abbiamo probabilmente iperprodotto, iperproposto, tirato fuori una quantità di collezioni gigantesche. La cosa più importante, a mio parere, è stato cominciare a considerare la possibilità di creare delle collezioni più piccole, più focalizzate, che abbiano lo stesso impatto, o forse anche più importante, sul consumatore, evitando delle proposte dispersive. Secondo me tutti ci siamo resi conti di dover guardare alle strutture di collezioni in maniera diversa: proporre veramente delle collezioni più mirate e molto più legate al Dna del marchio, essendo più piccole, si dà al mercato l’anima del marchio perché bisogna compattare il messaggio, quindi diluire meno cercando di coprire tutte le aree del mercato. Ci siamo resi conto che ogni marchio ha un suo Dna specifico da proporre al mercato per traghettare il nostro consumatore.

La moda si è quasi totalmente spostata a Nord. Ma come viene percepito il Sud dagli stilisti?

Il Sud viene sempre percepito, a mio parere, come un bacino creativo importante, una storia d’ispirazione fondamentale. Il Meridione, come la mia città Napoli, per qualsiasi creativo resta una destinazione da cui trarre ispirazioni, idee, mood stagionali, fare degli eventi che siano legati alla parte creativa. È vero il mondo si sta spostando verso il Nord, però esistono delle realtà interessanti che possono cominciare a far pensar ad un Sud anche strutturato dal punto di vista industriale o di base importante per la moda. Seppur il Nord gode di una posizione privilegiata, anche geograficamente, perché è più vicino a quello che succede nel resto dell’Europa e del mondo, il Sud resta un bacino creativo, a mio modesto parere, importante di tutte le storie creative che un designer deve prendere in considerazione e mettere in campo.

Qualche anno fa ha lanciato “White Sand”, il cui core business ruota intorno alla sostenibilità: riutilizzare rimanenze di tessuto, che altrimenti andrebbero al macero, per creare pezzi unici. Moda e ambiente a che punto si trovano?

Ero con una mia carissima amica Antonella Izzo, che è socia di “White Sand”, ci siamo rese conto andando in una warehouse per altri motivi della quantità pazzesca di tessuti che andavano al macero o in qualche modo non utilizzate per la moda, ci siamo dette che l’iperproduzione è dannosissima per l’ambiente, mi occupo di sostenibilità per altre storie della mia vita, così ci siamo poste la questione di come riutilizzarli. Abbiamo pensato di realizzare con i leftover di aziende importantissime, che mandano queste rimanenze che non riescono a riutilizzare, un unico modello il t-shirt dress, che sostituisce i classici caftani dei paesi nord africani, abbiamo preso un vintage di Galitzine che abbiamo prodotto a blocchi di 50 pezzi quasi tutti diversi e, creando dei pop-up, vengono venduti con delle collaborazioni in e dei negozi dove restano 2 mesi quando sono finiti, terminano. Antonella Izzo si occupa della ricerca di materiali e scouting dei tessuti, mi occupo della parte commerciale e della comunicazione. Il Covid ci ha un po’ rallentato perché non eravamo partite con l’online, contiamo però di ritornare per l’inizio del prossimo anno in pompa magna.

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