Archivio opinioni
Yes I start up e la formazione per il lavoro
Francesco Verbaro
Presidente di Forma.Temp
Il progetto Yes I Start Up di cui abbiamo già parlato in questa rivista interviene in una fase delicata della filiera formativa e della vita dei singoli che è quella della transizione dalla formazione della carriera scolastica e universitaria al lavoro.
In questo caso si tratta della formazione utile, ma potremmo dire necessaria, per avviare un’iniziativa economica spesso con l’aiuto finanziario dato dal microcredito o dal credito agevolato.
L’avvio di un’attività economica non può essere improvvisata e richiede una consapevolezza che solo alcune informazioni e conoscenze possono assicurare. In un contesto giuridico ed economico volatile è necessario avere nozioni di fiscalità, bilanci e costi di impresa, di lavoro, marketing, management, oneri amministrativi e finanziari. Una formazione che aiuti lo start up di impresa deve fornire conoscenze su tutto ciò che consente di aumentare la consapevolezza sui rischi e sugli strumenti necessari per affrontarli per evitare quei fallimenti che caratterizzano i primi anni di vita di molte start up.
Una misura quella promossa dal Microcredito che serve a colmare quel deficit di competenze trasversali necessarie per transitare da uno stato di disoccupazione o inattività a piccolo imprenditore, soprattutto in un contesto come quello italiano in cui registriamo diversi fallimenti nella filiera della formazione iniziale e professionale.
L’inadeguatezza del nostro sistema scolastico, ad esempio, è indicata dalla percentuale di studenti che, alla vigilia della maturità, ovvero al termine di un ciclo scolastico durato 13 anni, non raggiungono un livello accettabile di competenze, definito in ambito internazionale come livello 3: secondo i dati Invalsi del 2021, dopo la pandemia il 51% dei diciannovenni italiani non raggiunge questa soglia in matematica e il 44% in lettura; la quota di studenti inadeguati in matematica supera il 70% in alcune regioni del Sud; la situazione precedente la pandemia era quasi altrettanto drammatica: nel 2019 le percentuali di studenti sotto la soglia di adeguatezza erano pari al 42% e 35% rispettivamente. Conseguenza: la scuola, invece di aiutare a superare i divari sociali e territoriali, li perpetua e pertanto l’intervento di formazione professionale diventa più importante e deve essere mirato.
Un dato estremamente significativo del contesto in cui viviamo ci dice che in soli due anni, la popolazione scolastica è diminuita di 300 mila unità. Ed è come se fosse sparita una città come Catania tutta abitata da studentesse e studenti.
Un dramma nazionale. Al pari dello scandalo di avere il maggior numero di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano. Primi in Europa in questa disonorevole classifica, mentre siamo agli ultimi posti per percentuale di laureati. Un Paese sempre più anziano tende a ripiegarsi su se stesso, coltiva la paura di perdere il benessere, non la voglia o meglio la fame (come nel Dopoguerra) di accrescerlo. È più sensibile alla stabilità delle protezioni rispetto alla creazione delle opportunità. Le prime sono necessarie se affrontano i bisogni di chi è in difficoltà, dannose se danno l’impressione di una totale prevalenza dei diritti rispetto ai doveri, svincolando la crescita anche personale dallo studio, i sacrifici e persino i fallimenti. Se poi incoraggiano l’avversione al rischio — tipica di una società anziana — contagiano in questo modo anche le giovani generazioni, diffondendo un clima di pessimismo e di rassegnazione. Il 69% dei giovani tra i 18 e i 35 anni, secondo una ricerca Ipsos, vive ancora nella famiglia d’origine. Le seconde, le opportunità, non devono essere tante se — com’è avvenuto nel 2019, l’anno prima della pandemia — 107 mila italiani se ne sono andati all’estero, di cui 90 mila giovani. Del resto, come testimoniano i dati del ministero del Lavoro, l’Italia è seconda solo alla Romania quanto a povertà lavorativa dei più giovani. Pagati poco, con contratti part time e a tempo determinato. Non si investe sui talenti solo perché non ci sono degli incentivi fiscali.
Le misure di sostegno sono necessarie ma non sufficienti. È una questione di mentalità, di visione del futuro. Se si considera l’economia in una condizione statica si sottovaluta l’evoluzione delle tipologie di lavoro legate alla digitalizzazione, alla robotica, all’intelligenza artificiale e quindi delle competenze necessarie da aggiornare. Anche se il posto di lavoro o l’impresa passasse di padre in figlio servirebbero nuove e aggiornate competenze. Se si attribuisce l’attuale tasso di crescita unicamente al bonus 110 per cento, come fanno i suoi sostenitori, si mostra un totale disinteresse per la straordinaria reazione delle imprese — quelle che stanno su un mercato aperto, concorrenziale — alla pandemia e alla crisi energetica. La crescita la fanno soprattutto loro. Si sono reinventate, hanno innovato, ci hanno provato, senza aspettare alcun sussidio. Ascoltare troppo le corporazioni non aiuta il ricambio generazionale, lo ostacola. Forse non è un caso che l’Italia abbia tassi d’imprenditorialità giovanile tra i più bassi in assoluto. Secondo una recente ricerca di Unioncamere, in dieci anni abbiamo perso un quinto delle imprese guidate da giovani sotto i 35 anni, soprattutto nelle Marche, in Abruzzo e Toscana. Unica eccezione: il Trentino-Alto Adige. Quelle nel settore manifatturiero sono diminuite addirittura di un terzo. C’è però uno spiraglio di speranza che riguarda i settori più avanzati, nuovi, aperti alla concorrenza. Le cosiddette start up innovative, circa 14 mila, sono state create per il 15,7% da under 35. Dovrebbero essere guardate con ammirazione, non con quel distacco o scetticismo — anche dal mondo bancario — che le induce spesso a trasferirsi all’estero o a ritenere di operare in una società con troppi vincoli burocratici e culturali. A tutto questo si aggiunge una pubblica amministrazione certamente poco friendly e, oggi, costi energetici non secondari, per cui rispetto a iniziative promosse dai giovani come bar, pasticcerie o ristoranti occorre valutare le soluzioni meno energivore.
Molte di loro non ce la faranno. È normale. Forse dovremmo premiare anche i fallimenti come dice qualcuno. Ma oggi è importante prevenirli il più possibile fornendo tutte le informazioni utili, necessarie, fondamentali per chi vuole mettersi in proprio.
È evidente come la formazione manageriale rivolta a soggetti fragili con bassa scolarità come possono essere i neet e i disoccupati di lungo periodo richiede una maggiore attenzione e deve essere mirata. Così come i cambiamenti in atto come la transizione digitale e la transizione green accelerata dalla crisi energetica richiedono conoscenze e competenze di base che possono essere fornite da un progetto come YISU. Progetto che deve per questo essere continuamente aggiornato, integrato e adattato ai contesti e ai target, migliorando i moduli, coinvolgendo le competenze migliori e responsabilizzando gli enti attuatori.
Sarà necessario acquisire sempre più “nuove competenze”, essenziali per far fronte con successo a situazione spesso inedite e non di routine: dall’esercizio del pensiero critico (possiamo aggiungere, oggi, contro le fake news e senza esitare ad approfondire quanto solo veicolato nei social media) all’attitudine a risolvere problemi, dalla creatività alla disponibilità positiva nei confronti dell’innovazione.
Newton riteneva che “ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo è un oceano”. Per affrontare l’incertezza sistemica dei nostri giorni, l’investimento in conoscenza – la cui importanza è un precetto che ci è stato trasmesso nei secoli – sarà il fattore chiave, così come per favorire lo sviluppo economico e costruire una società più giusta.
Ecco perché riteniamo necessario che l’azione del prossimo governo sia diretta a effettuare un forte investimento nella filiera formativa per non sprecare capitale umano.
Nello specifico è possibile suddividere le skill da possedere in 3 categorie di competenze manageriali fondamentali, che dunque vale la pena conoscere così da avere le idee chiare nel momento in cui ci si deve formare o aggiornare e quindi scegliere di mettersi in proprio.
Si devono avere competenze tecniche come saper pianificare, come fare un business plan, come gestire le attività. Avere competenze concettuali, come analizzare problemi e a cercare di risolverli. Capacità di innovazione e problem solving, perché aiutano a gestire tutti gli ostacoli che si possono verificare. Infine, le competenze nelle relazioni umane e interpersonali in termini di empatia, engagement, capacità di marketig.
Fondamentali, infine, sono le competenze trasversali, come quelle digitali e linguistiche, quasi scontate nel mercato attuale, in continuo cambiamento, digitale e globale.
Compito dell’Ente Nazionale per il Microcredito in questi anni è stato anche quello di aumentare la consapevolezza dei giovani sulle opportunità di credito, sulle competenze oggi necessarie, sulle misure per l’autoimpiego, sulle criticità e opportunità.
Aumentare la consapevolezza dei giovani riduce di molto lo spreco di capitale umano.