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MICROCREDITO E FISCO

Giovambattista Palumbo - Direttore dell’Osservatorio Eurispes sulle Politiche Fiscali*

Uno degli aspetti che un imprenditore deve sempre valutare, sia nell’avvio della propria attività imprenditoriale che nel suo (ottimale) progresso, è senz’altro quello fiscale.

Economia e fiscalità sono due facce della stessa medaglia, laddove le regole tributarie servono a “tradurre” l’andamento dell’impresa in un equo contributo della stessa impresa alle risorse per la collettività (le imposte dovute, appunto).

Una corretta pianificazione fiscale è dunque sempre necessaria.

Come farebbe un qualsiasi buon padre (o madre) di famiglia bisogna infatti naturalmente sapere quali sono le entrate e le uscite, laddove tra le principali uscite di una qualsiasi impresa vi sono naturalmente anche quelle tributarie.

E questo anche per evitare che, in caso di errata pianificazione o dichiarazione, vi possano essere spiacevoli (e a volte anche fallimentari, nel termine proprio della parola) conseguenze accertative, con, a quel punto, oltre al pagamento delle imposte, anche il pagamento delle corrispondenti sanzioni, per lo più applicate, anche se variano poi a seconda del tipo di violazione, nella misura dal 100% al 200% dell’imposta evasa o non dichiarata.

Il rapporto fiscale però non è univoco, vedendo due attori (per quanto di interesse in questa sede): imprenditore/ contribuente e Stato.

E ognuno di questi ha dei diritti e dei doveri.

Anche lo Stato, anche per dettato costituzionale, ha infatti dei doveri specifici verso il mondo della impresa (e di chi lo sostiene).

In tal senso, in particolare in casi meritevoli di ausilio e sostegno, lo Stato dovrebbe riconoscere delle specifiche agevolazioni fiscali.

Anche perché, venendo, nello specifico al mondo del microcredito, il rapporto tra i due attori è in tal caso talmente stretto, che l’agevolazione concessa potrebbe portare vantaggi anche all’Erario, con un effetto moltiplicatore da tenere senz’altro in debita considerazione.

Vero è che sono molte (forse anche troppe, ma poco sistematiche) le previsioni agevolative fiscali concesse al mondo delle PMI in generale.

Pensiamo a, solo per citarne alcune:

  • I voucher digitalizzazione e Agevolazioni per Innovation manager
  • Fondo garanzia PMI
  • Credito d’imposta per investimenti in attività di ricerca e sviluppo
  • Piano nazionale impresa 4.0
  • Nuova Sabatini per l’acquisto beni strumentali d’impresa
  • Patent box e Crowdfunding
  • Misure per internalizzazione imprese
  • Credito d’imposta per le imprese a forte consumo di energia elettrica e credito d’imposta per imprese a forte consumo di gas
  • Agevolazioni per il Sud e nelle ZES
  • Super Ace per il rafforzamento patrimoniale delle imprese
  • PIR

Ma sono molte di più le agevolazioni di settore previste, o prorogate di anno in anno.

Il problema è che la disciplina di tali agevolazioni è molto complicata (anche per gli addetti del settore), soggetta a interpretazioni (spesso mutevoli) e difficile da gestire anche da un punto di vista amministrativo e burocratico, rischiando spesso così di restare solo sulla carta.

Una razionalizzazione della leva fiscale per il settore (PMI in generale e imprese sostenute dal microcredito nello specifico) sarebbe dunque senz’altro opportuna.

Anche perché un altro aspetto da non sottovalutare è, come detto, il potenziale effetto moltiplicatore che misure di sostegno sociale avrebbero sia sul tasso di occupazione che sul prodotto interno lordo.

Ipotizzando, infatti, anche soltanto un prudenziale 15% di riuscita delle attività assistite si avrebbe comunque un incremento occupazionale notevole, a cui si accompagnerebbe senz’altro la produzione di reddito degli stessi nuovi occupati e del conseguente indotto creato a supporto delle attività.

Nei Paesi sviluppati come l’Italia, peraltro, il microcredito ha la funzione di supportare (ancor più dopo la pandemia) una fascia di persone a forte rischio di esclusione sociale ed economica, rappresentando dunque uno strumento determinante per promuovere lo sviluppo economico e la coesione sociale di una comunità e di un territorio.

Una forma quindi che andrebbe promossa e sostenuta non solo per “idealistiche” ragioni sociali e di equità, ma, forse più cinicamente ma anche concretamente, per ragioni economiche e politiche.

E questo vale sia per il microcredito sociale che, ancor più per le finalità indicate, per il microcredito d’impresa (peraltro tra loro anche collegati).

L’obiettivo, in definitiva, è creare un meccanismo virtuoso che permetta ai microimprenditori di generare reddito e diventare economicamente autonomi.

A differenza che nel prestito bancario “tradizionale”, la selezione del progetto da finanziare, nel caso del microcredito, si basa del resto più sull’affidabilità della garanzia personale che sulla valutazione delle garanzie reali.

E questo, in un momento di crisi quale quello attuale, è fondamentale.

Il microcredito, infatti, pone al centro della sua azione l’attenzione alla persona, colmando così anche le asimmetrie (a volte vere e proprie distorsioni) informative tipiche invece dell’attività creditizia della banca ordinaria.

Dal punto di vista fiscale tutto questo “merito” si potrebbe allora ad esempio tradurre nella previsione di un regime fiscale agevolato (almeno per i primi anni dall’avvio dell’attività) a vantaggio dei soggetti beneficiari di microcredito d’impresa, nella introduzione di specifiche agevolazioni fiscali a vantaggio degli operatori abilitati a esercitare le attività di microcredito e nella defiscalizzazione degli utili derivanti da partecipazioni finanziarie in organizzazioni che esercitano l’attività di microcredito in forma societaria, nonché nella deducibilità fiscale delle donazioni a organizzazioni che esercitano l’attività di microcredito in forma non societaria.

E, sotto il profilo amministrativo, nello snellimento delle procedure burocratiche e del costo delle stesse ai fini dell’apertura di nuove micro attività imprenditoriali.

Sotto il profilo delle agevolazioni fiscali riconosciute a soggetti che esercitano l’attività finanziaria in modo “etico”, un parallelo interessante, visti alcuni punti di contatto, potrebbe essere fatto con la disciplina in tema di Banche di credito cooperativo, per le quali sono previste notevoli agevolazioni fiscali, di cui, nello specifico, le Bcc godono in vista del rispetto dei principi di mutualità e territorialità.

Ai sensi del comma 2-bis dell’articolo 28 del T.U.B., infatti, per godere delle agevolazioni fiscali previste per le Bcc, è necessario verificare, ai fini della qualifica di cooperativa a mutualità prevalente, se vi sia la presenza:

  • dei requisiti mutualistici previsti dall’articolo 2514 del codice civile;
  • dell’operatività prevalente a favore dei soci, rinvenibile all’articolo 35, comma 1, del T.U.B.

Una caratteristica essenziale della governance delle Bcc è del resto il radicamento nel territorio in cui operano, necessario anche a mantenere il loro ruolo di promotori di sviluppo sostenibile a livello locale, perseguendo in questo modo anche obiettivi di interesse generale.

A fronte di tutto ciò, la normativa applicabile alle Bcc prevede quindi che le stesse fruiscano dell’esenzione dal reddito d’impresa di una quota pari al 70% degli utili netti, destinata a riserva indivisibile e che non concorrano a formare il reddito imponibile le imposte sui redditi riferibili alle variazioni effettuate ai sensi del Tuir, né la quota degli utili netti, pari al 3%, destinata a fondi mutualistici.

Ne consegue che per tali tipi di Banche la quota assoggettata a imposizione fiscale è pari al 27% degli utili netti annuali.

Certo, l’agevolazione in parola è subordinata al rispetto di requisiti “formali” (indicazione delle clausole statutarie di cui all’art. 26 del D.Lgs. 14/12/47, n. 1577 e cioè divieto di distribuzione dei dividendi e delle riserve e devoluzione in caso di scioglimento della società dell’intero patrimonio sociale) e “sostanziali” (le condizioni statutarie devono “in fatto” essere osservate), laddove i “requisiti specifici” dell’operatività delle Banche di Credito cooperativo sono fissati dal D.Lgs. 385/93 (Testo Unico Bancario), art. 35 e consistono, essenzialmente, come detto, nel rispetto del principio del “localismo” e nel rispetto del principio della mutualità prevalente.

Ma se, come visto, lo scopo “mutualistico” e di sostegno alla collettività (nei suoi aderenti più “deboli”) è tipico anche del mondo del microcredito, perché non dovrebbe essere previsto anche per questo settore un adeguato percorso di agevolazioni fiscali?

Percorso ancor più meritorio nella specie, dato che, come detto, il sistema del microcredito copre una fascia di utenti che il sistema bancario “tradizionale” spesso non considera garantiti.

Il Microcredito sopperisce così anche ad alcune delle criticità di sistema.

E in tutto questo non bisogna inoltre dimenticare un’altra “criticità” del sistema, legata al tema dell’affidabilità del soggetto da finanziare.

Gli attuali sistemi di informazione creditizia, pubblici e privati, segnalano infatti al sistema creditizio i soggetti “a rischio”.

Le centrali di rischio finanziario e i sistemi di informazione creditizia rappresentano dunque oggi un elemento fondamentale nell’ambito della vita quotidiana dei cittadini, anche oltre quanto comunemente percepito.

In tale ambito un ruolo di primo piano è senz’altro detenuto da CRIF - Centrale Rischi Finanziari S.p.A. -, una società che fornisce supporto all’erogazione e alla gestione del credito al consumo, offrendo informazioni di referenza creditizia per la previsione e il controllo dei rischi finanziari.

La società gestisce Eurisc, sistema di informazioni creditizie, dove sono presenti decine di milioni di posizioni, trasmesse da centinaia tra banche e finanziarie.

Un database informatico in cui sono contenuti tutti i dati relativi ai finanziamenti (estinti, in richiesta, erogati, rinunciati e rifiutati, con un tempo di conservazione dettato dalle normative sulla tutela della privacy) concessi a consumatori e imprese.

Il sistema contiene poi anche i dati negativi, ovvero le segnalazioni che gli istituti di credito, mensilmente, effettuano nel momento in cui un cliente dovesse avere ritardi nei pagamenti.

Il SIC (Sistema di informazione creditizia) di CRIF raccoglie quindi dagli istituti di credito informazioni sui finanziamenti richiesti e ottenuti da consumatori e imprese, per fornire a chi richiede un nuovo credito una “referenza” nei confronti di banche e società finanziarie.

La trasmissione dei dati creditizi sul SIC viene effettuata dalla banca o dalla società finanziaria solo nei seguenti casi:

  • per i consumatori, se chi richiede il finanziamento ha ricevuto l’informativa specifica ed ha prestato il consenso al trattamento dei dati nell’ambito del SIC, o se il finanziamento presenta delle irregolarità nei rimborsi, anche in assenza di consenso;
  • per le imprese, se chi richiede il finanziamento ha ricevuto l’informativa sul trattamento dei dati personali da parte dell’istituto di credito.

Se non è stato fornito il consenso al trattamento, i dati possono essere comunque segnalati in EURISC da parte dell’istituto di credito, quando si verificano ritardi nel rimborso del finanziamento (i cosiddetti “dati negativi”).

Quando si richiede un finanziamento si viene quindi inseriti direttamente, a cura dell’Istituto al quale ci si è rivolti, nella banca dati CRIF.

Da quel momento in poi, tutte le notizie riguardanti il finanziamento, compresi i mancati rimborsi delle rate, verranno conservate per un lungo periodo.

E queste informazioni saranno disponibili per tutte le altre banche o società finanziarie, anche in caso di richiesta di un successivo prestito.

Potrà quindi risultare che si è un buon pagatore, se è sempre stato pagato tutto puntualmente; oppure emergerà che si è considerati un cattivo pagatore se sono state rimborsate in ritardo, o non sono state pagate affatto, determinate rate del precedente finanziamento.

E quasi tutti gli operatori finanziari, prima di concedere un qualsiasi finanziamento, si collegano alla banca dati CRIF per valutare l’affidabilità finanziaria, negandola spesso laddove emerga il profilo di “cattivo pagatore”.

Il merito creditizio, così individuato, assume dunque la funzione di indicatore rivelatore della prevedibilità che il cliente possa o meno rimborsare il prestito.

Il microcredito, tuttavia, pur con procedimenti e criteri che possano garantire solo i soggetti effettivamente meritevoli, può uscire da tale logica, dando l’opportunità di crescita anche a chi tende ad essere escluso dal circuito bancario tradizionale ed allargando quel concetto di affidabilità finanziaria anche ad aspetti che il sistema finanziario “tradizionale” spesso non prende neppure in considerazione.

Perché dunque, a fronte di compiti e funzioni sociali così rilevanti, lo Stato non potrebbe prevedere adeguati e specifici percorsi fiscali premiali?

* Avvocato, dirigente pubblico, docente, esperto di diritto tributario e politiche fiscali, già dirigente nel Gabinetto del Ministro dell’Economia e Finanze. Autore di libri e pubblicazioni su riviste e quotidiani sui temi della finanza, dell’economia e dei fenomeni di riciclaggio. Tra i numerosi incarichi ricoperti, quello di Esperto della Commissione Europea nell’ambito della missione TACTA, finalizzata all’assistenza tecnica fiscale per la neonata Repubblica del Kosovo. È Direttore dell’Osservatorio Eurispes sulle Politiche fiscali.

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