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MICROCREDITO DI LIBERTÀ: PROMUOVERE L’INDIPENDENZA ECONOMICA E DISTRUGGERE LE SOTTILI CATENE INVISIBILI DELLA VIOLENZA DI GENERE
MICROCREDITO DI LIBERTÀ: PROMUOVERE L’INDIPENDENZA ECONOMICA E DISTRUGGERE LE SOTTILI CATENE INVISIBILI DELLA VIOLENZA DI GENERE
Zaira Monti Natale
La violenza di genere ha molti volti. Di solito a questo concetto si associano soprusi legati alla sfera fisica, sessuale e psicologica; tuttavia, a queste forme più conosciute se ne aggiungono altre meno note, come la violenza economica.
Molte persone pensano alla violenza come un’aggressione fisica, ma le ferite invisibili della violenza economica sono altrettanto devastanti, se non addirittura più durature.
In Italia non se ne discute abbastanza, ma la violenza economica affligge quotidianamente le donne, un po’ per un’organizzazione sociale ancora fortemente patriarcale, un po’ anche forse per una mentalità collettiva intrinseca che vuole le donne lontane dal maneggiare il denaro.
Il progetto Microcredito di Libertà, nato da un Protocollo d’Intesa tra l’ENM, il Dipartimento delle Pari Opportunità, ABI, Federcasse e Caritas Italiana, mira a promuovere l’inclusione sociale e finanziaria delle donne che hanno subito violenza economica, con l’obiettivo di renderle indipendenti e autonome.
Di seguito, le interviste a donne coraggiose e lungimiranti, accomunate dalla voglia di condividere le proprie esperienze professionali e personali riguardanti la violenza di genere. Attraverso le loro parole, esploreremo le sfide, le vittorie e le speranze che affrontano quotidianamente, gettando luce su un problema complesso ed insidioso, ma sottolineando come consapevolezza, empatia ed azione siano fondamentali per promuovere un cambiamento duraturo nella nostra società.
L’avvocata Laura Terracciano, volontaria del Telefono Rosa, è una donna appassionata e decisa, che ha fatto del suo lavoro una missione: difendere i diritti delle donne dà senso alla sua professione.
Ha trovato il suo posto nel mondo al fianco delle donne vittime di violenza, per dare loro voce ed aiutarle a portare alla luce le ingiustizie subite.
Come ha iniziato a lavorare come avvocata volontaria per il Telefono Rosa?
Mi sono laureata presso l’Università di Pavia un po’ di anni fa con una tesi sul matrimonio, quindi diciamo che il tema mi ha sempre appassionata.
Poi grazie a mio padre e alla mia famiglia ho sempre frequentato questi ambienti e ho masticato questa cultura del rispetto, della condivisione e ho avuto un ottimo modello che è stato quello dei miei genitori, ma soprattutto, come dico io, quello di mio padre.
Mio padre ci ha insegnato la parità di genere, il rispetto per gli altri, per il lavoro altrui, per il lavoro della mia mamma e quindi ha ci ha insegnato anche a dare un contributo: eravamo tre figli, due maschi ed io l’unica figlia e ha aiutato tutti quanti noi a crescere in questa cultura di collaborazione all’interno della casa, rispettando in assoluto quello che era il lavoro della mia mamma sia fuori casa, come insegnante, che all’interno delle mura domestiche.
Mi ha portata già da bambina in questi convegni, all’epoca se ne parlava poco, erano altri tempi, la violenza era molto di natura sommersa, però poi è stato un attimo per me passare dalla teoria alla pratica e sentirmi parte del Telefono Rosa con molta naturalezza e anche partendo dal presupposto che mi ritenevo una persona fortunata, per la mia cultura e perché non ho mai patito il dolore che ho sentito da queste donne. Per me questo è stato importante!
Quali sono i diritti fondamentali che le donne vittime di violenza spesso cercano di far valere? O che non sanno di avere?
La violenza di genere è un fenomeno trasversale che colpisce qualunque strato della nostra società, a tutti i livelli, quindi io mi trovo di fronte donne di ogni tipo: ci sono delle donne che chiedono addirittura il diritto alla vita, il diritto a non essere torturate, a non essere violentate, non dando assolutamente per scontato questi come diritti acquisiti, ma come qualcosa per cui ci si debba ancora battere.
La maggior parte delle donne arriva da noi pensando che, in caso di denuncia, i figli che hanno, in qualche modo, possano essere loro sottratti e quindi sono molto addolorate da questo pregiudizio che, invece, non esiste assolutamente.
Il nostro ruolo all’interno della nostra associazione del Telefono Rosa e dei CAV è anche quello di fare informazione, di fare cultura, quello di spiegare a queste donne che nessuno può togliere i figli alle proprie mamme (a meno che non ci siano casi eccezionali, in cui ci siano problemi particolari).
Dobbiamo fare una grossa attività di accoglienza all’interno del Telefono Rosa, di tranquillizzarle e cercare poi di spiegare loro quali sono i loro diritti.
Inoltre c’è un dato fondamentale che sta dilagando che è la violenza sessuale: ci arrivano tantissime donne vittime di violenza sessuale, anche all’interno delle mura domestiche, e non sanno o non riescono a dare una lettura chiara rispetto a questo fenomeno perché all’interno di una relazione è difficile declinare le sfumature di quello che è lecito e di quello che non è lecito.
Ancora oggi, nonostante misure legislative sempre più stringenti, si contano troppe donne vittime di violenza domestica. Perché, secondo Lei, non si riescono a proteggere le vittime? Cosa non funziona?
A mio avviso, per la mia lunghissima esperienza, quello che non funziona è il dato culturale: viviamo purtroppo in una cultura maschilista e patriarcale e quindi ogni forma di norma e di sanzione che è stata messa in atto in modo molto corretto in passato, e anche attualmente, dai nostri governanti non ha sortito l’effetto che noi desideravamo e auspicavamo perché è radicata, purtroppo, in ogni famiglia è radicata una forma di maschilismo.
A mio avviso bisognerebbe agire all’interno delle scuole, ma fin dalla scuola materna con dei piani formativi e educativi, ma soprattutto di un’educazione al sentimento, al di là dell’educazione sessuale che in alcune scuole viene fatta, anche in modo molto corretto, approfondito e scientifico, però qui parliamo di sentimenti, di persone che vengono calpestate senza alcun motivo.
Abbiamo una vera e propria violazione dei diritti umani come stabilito dalla Convenzione di Istanbul: c’è una parte della nostra società, che è la parte femminile che si pensa, nello scenario maschile, possa essere schiacciata e prevaricata in tutti i modi.
Dobbiamo necessariamente lavorare su questo con un piano formativo, che però se non ha un seguito all’interno delle famiglie non avrà quel successo che noi speriamo e auspichiamo, perché la scuola fa formazione, la famiglia fa educazione. Questa attività poi svolta all’interno delle scuole deve essere proseguita dai papà, soprattutto da loro, perché i papà, a mio avviso, devono essere il modello educativo della società.
Parlo per la mia esperienza personale: se tutto questo bagaglio probabilmente mi fosse stato dato solo da mia madre, io non ne avrei percepito l’importanza e invece è il papà, a mio avviso, all’interno delle famiglie che deve essere il modello educativo, quell’esempio di condivisione, di rispetto, di approfondimento e soprattutto poi anche di continuità, perché il rispetto non deve essere un rispetto a spot, deve essere qualcosa che è radicato dentro di noi e lo possiamo avere quindi soltanto da un’educazione che noi mastichiamo tutti i giorni.
Lo scorso mese è stato presentato il progetto “Microcredito di Libertà”: cosa ne pensa? Cosa può rappresentare questo strumento per le donne vittime di violenza che si rivolgono al Telefono Rosa?
Penso che il Microcredito di Libertà sia uno strumento importantissimo e mi auguro che ce ne saranno tanti dopo questo bellissimo progetto posto dall’ENM, che non è solo un microcredito sociale e imprenditoriale, ma prevede anche dei corsi di formazione.
Dico questo perché la violenza economica è all’interno di ogni tipo di violenza che noi affrontiamo, quella psicologica e quella economica ci sono in tutti i casi di cui noi ci occupiamo, e vi assicuro che sono tantissimi. La violenza fisica, invece, arriva successivamente, in alcuni casi, ma non in tutti, mentre la violenza economica e quella psicologica le troviamo in tutti i casi di violenza.
Tutte le donne che si rivolgono a noi, e che noi mettiamo in sicurezza all’interno delle nostre case rifugio, letteralmente scappano da casa con i loro figli, non potendo portare con sé assolutamente nulla e il ciclo della violenza prevede proprio questo: un isolamento da parte del maltrattante nei confronti della donna rispetto a tutto il contesto sociale, quindi anche un divieto di lavorare per queste donne.
Il lavoro però, come ben sappiamo, rappresenta la libertà perché una donna che sente la grossa responsabilità di un nucleo familiare, quindi dei loro figli, ha delle grosse difficoltà a pensare di poter allontanarsi dal maltrattante se non ha con sé una disponibilità economica. Come sappiamo la permanenza all’interno di una casa rifugio è una permanenza limitata, che può durare da un minimo di sei mesi ad un massimo di un anno, poi queste donne devono uscire e questo microcredito ci permette di reintrodurre le donne nella società e di dare loro una possibilità economica, anche di un’attività autonoma. Ad esempio noi abbiamo molte donne che fanno corsi anche di parrucchiere, di estetista e che quindi danno loro la possibilità di aprire un piccolo negozio, una piccola attività dove poi poter crescere e poter avere una loro indipendenza economica per prendere una casa in affitto e poter mantenere i loro figli.
Ci sono poi alcune donne che purtroppo sono costrette, per motivi di sicurezza, a interrompere anche qualunque tipo di rapporto con la loro famiglia di provenienza e quindi a non ritrovarsi una rete intorno da cui poter ricevere un minimo di aiuto.
Cosa La colpisce più di tutto delle donne che assiste?
Inizialmente mi colpisce il loro dolore: arrivano da noi che sono distrutte, che sono consumate da anni e anni non solo di sofferenza fisica, ma anche di una sofferenza psicologica.
Questi maltrattanti sono poi dei manipolatori che sminuiscono e distruggono l’autostima di ogni donna che arriva da noi: con il nostro aiuto però, e soprattutto con l’aiuto delle nostre psicologhe, noi predisponiamo per ogni donna un progetto personalizzato che prevede un percorso di sostegno psicologico per la fuoriuscita dalla violenza, e quindi per il recupero di quelle risorse che ogni donna ha in sé stessa.
Abbiamo anche dei percorsi di auto-mutuo-aiuto, dove le donne poi, una volta che si sentono più forti e quando quindi è venuta fuori tutta la loro resilienza, si aiutano tantissimo le une con le altre e molte di loro sono entrate proprio a far parte della nostra associazione per aiutare tutte quelle donne che dopo di loro hanno avuto la sfortuna di incontrare un uomo violento.
Tutto questo purtroppo avviene spesso all’interno, il più delle volte, della propria famiglia, nelle relazioni, quindi c’è un problema legato anche alla vergogna, alla gogna mediatica e ci sono dei risvolti in tutto questo: quando sento l’indignazione, soprattutto di molte donne, che dicono “perché non hanno denunciato”, perché non è facile. La nostra cultura, soprattutto quella italiana, ci impone ancora giustamente di dare un grosso valore alla famiglia, il nucleo familiare e i nostri figli, e quindi non è facile scardinare questo valore per la nostra cultura, non è facile uscirne, però vi assicuro che, al di là di quello che vediamo, dei femminicidi, la violenza sommersa è ancora tantissima, e quindi tanto dobbiamo fare, cercando di coinvolgere soprattutto gli uomini, le istituzioni, la scuola e la nostra classe politica che si dovrebbe comunque, in qualche modo, con un minimo di umiltà, avvalere di noi professioniste che lavoriamo da sempre nei centri antiviolenza, e di questo abbiamo fatto la nostra specializzazione, per cercare di lavorare insieme e arginare questo fenomeno che sta diventando improponibile.
Quali sono i consigli che darebbe ad una donna vittima di violenza che cerca aiuto legale?
Sicuramente di rivolgersi a un centro antiviolenza, che possa essere quello del Telefono Rosa o di tante altre associazioni bellissime che sono nate nel nostro territorio; poi sicuramente di denunciare, per quanto io mi renda conto che non è facile ma, in alternativa alla denuncia, comunque di prendere le distanze dal maltrattante perché c’è una forma di violenza, che è la violenza assistita, quella che subiscono tutti i minori all’interno del nucleo familiare e che molti pensano che questi bambini non si accorgano di quello che sta accadendo, invece sono delle spugne, fin da piccolissimi assorbono e vivono questa situazione, che è anche di paura, di terrore che la loro mamma in qualche modo possa essere annientata dal loro papà e quindi è necessario che le donne facciano qualcosa, che le donne prendano le distanze da queste persone così violente e che si rivolgano con fiducia ad una delle nostre associazioni perché noi cerchiamo di dare un aiuto a 360°, non solo legale.
Le nostre consulenze si svolgono sempre alla presenza di una psicologa formata e specializzata sulla violenza, ma poi diamo degli aiuti di tipo abitativo, di tipo economico, cerchiamo di aiutarle ad uscire e a recuperare la propria vita e a intraprenderne un’altra sicuramente migliore di quella precedente.
L’associazione Telefono Rosa doveva essere un piccolo esperimento: oggi invece, dopo 35 anni, è diventata uno strumento di difesa e denuncia per le donne vittime di violenza.
La Dott.ssa Nunzia Musicco, responsabile dell’associazione Telefono Rosa di Roma, ci racconta dei numeri ancora troppo alti, degli stigma culturali che si nascondono dietro alla violenza di genere e di come ascolto, empatia e solidarietà, insieme all’autonomia economica, possono spezzare il ciclo di violenza e fornire un futuro più luminoso.
Come nasce l’associazione Telefono Rosa e di cosa si occupa?
L’associazione nasce nel 1988 dall’intuizione di tre donne visionarie che avevano deciso di creare un osservatorio, quindi un punto di ascolto telefonico, al fine di far emergere tutto il sommerso legato alla violenza all’interno delle mura domestiche. Quello che doveva essere un esperimento temporaneo in realtà è poi diventato un’organizzazione che ormai, da più di 35 anni, si occupa di contrasto alla violenza di genere.
Sono stati anni di lotte, di successi e anche di sconfitte, ma lo scopo del Telefono Rosa è sempre stato quello di sostenere le donne e tutelarle su tutti i livelli, quindi a livello giuridico con le avvocate, la consulenza e l’assistenza legale, a livello psicologico con il supporto finalizzato ad elaborare il vissuto per potersi poi emancipare dalla violenza e di recente il Telefono Rosa, con la vicepresidente l’avvocata Faieta, ha partecipato alla Commissione giustizia e quindi ha contribuito a migliorare tutto l’impianto giuridico italiano sul tema.
Quali sono i vostri obiettivi?
I nostri obiettivi sono principalmente quelli di accogliere le richieste di aiuto delle donne.
Gli strumenti che utilizziamo sono l’ascolto telefonico e in presenza, forniamo consulenza legale e psicologica gratuita legale, sia civile che penale, le nostre avvocate sono tutte iscritte al gratuito patrocinio per garantire la gratuità anche dell’assistenza legale fino al termine dei procedimenti che eventualmente si aprono; facciamo mediazione linguistica e culturale, attuiamo gruppi di auto-mutuo-aiuto per sostenere le donne che ne hanno la necessità o ne fanno richiesta; attività di segretariato sociale, sostegno alla genitorialità, orientamento informativo e formativo ai servizi al lavoro e al territorio.
Il Telefono Rosa ha varie sedi in tutta Italia e gestisce, in diversi territori, centri antiviolenza, case rifugio e case per la semiautonomia e, inoltre, fa progetti più che altro di formazione perché la nostra convinzione è che la violenza abbia una matrice che affonda nella cultura di ognuno di noi e quindi partire dalle scuole, di ogni ordine e grado, arrivare ai ragazzi, parlare delle differenze di genere, delle pari opportunità è fondamentale per creare una cultura del rispetto che non esiti poi in atti violenti.
Quante sono mediamente le donne che vi contattano e vi chiedono aiuto? Di che numeri parliamo? Quali sono le richieste più frequenti?
Le do un po’ di numeri per fare una panoramica: per il 2022 abbiamo ricevuto 3990 telefonate, di queste telefonate la richiesta per situazioni di violenza, quindi per denuncia o per ascolto e supporto è di 1465 donne, di queste 1465 donne 610 hanno avuto accesso a un percorso di supporto psicologico e 658 hanno poi chiesto la presa in carico da parte delle nostre legali, sia a livello civile che a livello penale.
Nel 2023, tra Gennaio ed Aprile, parliamo di 1330 telefonate, di cui 452 richieste di aiuto per violenza.
Sono numeri abbondanti, parlano chiaro e non lasciano scampo: la richiesta più frequente è quella di poter quantomeno parlare di quello che succede, perché molte volte le donne non raccontano neanche alle persone più vicine, alle persone più care perché in qualche modo provano purtroppo vergogna, nonostante non ne abbiano ragione.
Avere un punto di ascolto dove non si sentono giudicate, ma si sentono accolte e capite è un punto di partenza per avviare un percorso di emancipazione.
Come ci si approccia alle prime richieste di aiuto da parte delle donne che si rivolgono al Telefono Rosa?
Per cominciare si fa ascolto: l’ascolto è fondamentale proprio in virtù del fatto che le donne fanno fatica a raccontare la loro storia, e avere la possibilità di essere ascoltate, capite e credute, perché poi c’è anche la paura di non essere credute, e questo ce lo dimostrano anche i racconti successivi, quando magari le donne si rivolgono alle istituzioni, raccontando la loro storia, e non sempre si sentono accolte e credute. Quindi avere questa possibilità ovviamente apre a un discorso che va oltre, all’inizio di un percorso che poi le porti effettivamente ad emanciparsi e a rendersi totalmente autonome.
Cosa sono le case rifugio, come sono organizzate e quali obiettivi perseguono?
Le case rifugio sono comunità, luoghi in cui vengono ospitate temporaneamente le donne con i loro figli o anche donne sole per un periodo temporaneo di sei mesi prorogabili in caso si renda necessario perché gli obiettivi che la donna deve raggiungere non sono stati portati a termine.
È presente personale h24 perché la funzione prioritaria della casa rifugio è quello della messa in sicurezza, quindi laddove c’è una donna che ha necessità di fuggire perché teme per la propria incolumità e quella dei figli, può fare richiesta e può accedere a questo tipo di servizio.
All’interno della casa rifugio si struttura un percorso che noi chiamiamo “progetto individuale”, fatto di obiettivi a breve e medio termine e talvolta, quando si riesce, anche a lungo termine.
Questo progetto ovviamente è finalizzato a rendere le donne autonome, quindi le aiutiamo a ritrovare le loro risorse interne, le aiutiamo a costruire eventualmente nuove risorse esterne perché bisogna immaginare che una donna che fugge cambia anche territorio, cambia abitudini di vita e quindi si orienta la persona verso tutti i servizi che sono presenti, si crea una rete di supporto sia formale sia informale che possa sostenere la donna nel raggiungimento dei suoi obiettivi.
L’accesso alla casa rifugio può avvenire in diversi modi: può rivolgersi direttamente la persona interessata, possiamo ricevere richieste da parte dei servizi sociali o dai servizi pubblici, spesso capita, con l’introduzione del codice rosso, che siano stesso le forze dell’ordine, su impulso della magistratura che deve collocare la persona in sicurezza perché c’è una situazione di rischio e pericolo.
Poche settimane fa è stato presentato il progetto “Microcredito di Libertà”: cosa ne pensa? Crede che questo progetto possa ben inserirsi nel lavoro che svolgete voi del Telefono Rosa? In che modo?
Il progetto Microcredito di Libertà è stato una boccata d’ossigeno per noi che lavoriamo nel settore perché sappiamo benissimo che più volte, accanto alla violenza di genere, la violenza fisica e la violenza psicologica, c’è sempre anche la violenza economica e questo è uno degli scogli che le donne devono superare.
Molto spesso le donne ci raccontano che hanno timore di intraprendere questo percorso perché non hanno magari risorse, perché gli è stato impedito di lavorare o sono firmatarie di aziende prestanome e si trovano indebitate a livelli inverosimili; o magari pensiamo anche alle donne straniere che arrivano in Italia, viene loro impedito di imparare l’italiano.
Questo progetto va a completare quelle che sono le risorse già esistenti per dare supporto alle donne in un percorso a 360° di supporto e di tutela nei confronti delle donne
Si inserisce perfettamente nel lavoro che svolgiamo perché permette a tutte le donne, e non a una categoria che già ha i criteri per accedere a questo tipo di misura, di affrontare quelle che possono essere i costi della vita nel momento in cui si fa il passo di uscire, di scappare, che sia la fuga da casa o che sia la fuoriuscita da una struttura di casa rifugio o di semi-autonomia.
Va a coronare, a mettere il fiocchetto su un percorso che evidentemente già ha avuto un buon esito.
Credo dunque che sia fondamentale questa misura.
Perché, secondo Lei, nel 2023 ci sono ancora tante donne vittime di violenza?
Siamo profondamente convinte della matrice culturale della violenza e questa matrice passa attraverso vari aspetti, tra cui il linguaggio. Siamo abituate ad immergerci nella società con dei ruoli preconfezionati: il Telefono Rosa ha fatto uno studio enorme sugli stereotipi di genere perché tante volte proprio questi stereotipi, che si insinuano a livello culturale, generano violenza.
Nel 2023 siamo ancora purtroppo con numeri impietosi perché ci rendiamo conto quotidianamente che la violenza è come se stesse aumentando, parliamo di femminicidi praticamente tutti i giorni.
Crediamo che la prima cosa da fare sia la prevenzione perché quando interviene il centro antiviolenza interviene nel dopo e noi dobbiamo riuscire ad arrivare prima, dobbiamo riuscire ad aiutare le donne e la società, quindi anche gli uomini, i bambini, i ragazzi, a comprendere che la cultura del rispetto è la via migliore.
I costi della violenza sono altissimi in termini di traumi, di vissuti, di vite spezzate, di orfani e quindi la cosa fondamentale, per quanto ci riguarda, è fare prevenzione, formazione all’interno delle scuole, a partire dal corpo docenti, all’interno delle forze dell’ordine, all’interno delle strutture sociosanitarie perché chiunque può approcciare una donna che ha subito violenza e deve essere in grado di sostenerla ed eventualmente indirizzarla in luoghi specialistici.
Secondo Lei, quali sono le azioni per il futuro e i cambiamenti necessari per migliorare la situazione e creare un ambiente più sicuro e solidale per le donne?
È importante l’aspetto culturale, riuscire a far passare la cultura del rispetto secondo noi è la soluzione migliore. Poi è necessario rinforzare anche tutto l’impianto normativo, cercando di comprendere che è vero che la donna va tutelata, va aiutata e va supportata, ma bisogna anche intervenire sui violenti, quindi fare un lavoro anche per evitare che ci sia il concetto dell’“avanti la prossima”, perché spesso succede che, la stessa persona che ha già un precedente di questo genere, venga denunciata nuovamente. Quindi l’impianto normativo, seppure abbia una funzione forte, è sempre da perfezionare. Tutto è perfettibile!
La storia di Sofia Salvati e Mara De Longis è una storia di resilienza e coraggio. Con tenacia, grazie anche al sostegno del microcredito, hanno avviato la loro attività: La.B è un progetto di imprenditoria femminile il cui obiettivo è quello di ricostruire l’identità delle donne vittime di violenza per affermare l’indipendenza economica.
Può raccontarci la Sua storia personale e le difficoltà che ha affrontato in passato e che l’hanno portata a cercare un cambiamento nella Sua vita?
Sofia: È una storia che inizia nel 2019 quando ho affrontato un problema grande che è oggetto di tantissima parte della comunicazione dell’attualità, che è proprio quello della violenza di genere.
In particolare, la mia storia personale è un vissuto di violenza domestica che è durato tantissimo e che mi ha portato a rivolgermi ad un centro antiviolenza del territorio, il Centro Donna Lilith, che mi ha seguito, supportato e con cui ho fatto un percorso che effettivamente era proprio mirato all’affrancamento da questo tipo di vissuto che riguardava innanzitutto un aspetto puramente tecnico/legale e tutto quello che è l’informazione che manca in questi contesti. È facile dire “denuncia”, però ci sono tutta una serie di cose molto importanti da considerare rispetto a questo.
Nel mio caso, io sono arrivata al Centro Donna che avevo fatto due denunce e non sapevo come andare avanti, sia da un punto di vista burocratico (lentezza e sistema) che psicologico-emotivo, dato che con una violenza portata avanti per tanti anni occorre destrutturare un meccanismo per ricostruire una persona con un approccio che mira all’auto consapevolezza fatto dall’operatrice. Si tratta di un percorso non proprio psicologico dato che deve affiancare una psicoterapia necessaria per uscire da certe dinamiche, tipo quelle della dipendenza che rendono la violenza qualcosa che va avanti e da cui la donna non riesce ad uscire.
Arrivata al Centro Donna Lilith, dopo neanche un anno di percorso, mi è stato proposto un progetto che era in nascere e che parlava del reinserimento lavorativo di donne che uscivano da una violenza. La questione è abbastanza seria e grave da un punto di vista di impatto sociale, ovvero la dipendenza economica e l’impossibilità della donna di avere un’autonomia da un punto di vista economico (che poi non sono le uniche ragioni, però è una parte consistente per cui una donna non riesce a staccarsi da un partner violento).
Ho abbracciato quest’iniziativa con la speranza di collocarmi in un percorso che poteva essere lavorativo, dato che ero disoccupata con due figli. Era importante per me riuscire a tenere botta rispetto ad una situazione complessa.
Abbiamo partecipato all’incontro di presentazione di questo progetto da cui poi è nato La.B, anche se non aveva forma ed era un progetto bellissimo, ricco di sfaccettature.
È iniziato questo percorso formativo che ha coinvolto me ed altre sei partecipanti, che poi è andato avanti grazie alle borse lavoro che il Centro Donna pagava a ciascuna di noi al fine di permettere che questa formazione potesse poi essere portata avanti e che andasse a braccetto con l’esigenza di formarsi in un lavoro. La professionalità che richiede un lavoro è fondamentale, per poi portare avanti quel progetto di impresa che poi diventa anche un progetto di vita e che riqualifica le persone.
Il progetto è andato avanti con questo anno di formazione trasversale tra la pelletteria (che era il focus del progetto) ed una serie di altri strumenti, tipo l’e-coaching, che ci hanno aiutato anche a lavorare in gruppo e relazionarci. Sono una di quelle che uscendo da queste situazioni non è molto aperta nei confronti degli altri, quindi c’è anche un discorso di restauro/ricostruzione della fiducia nell’altro, cosa non facile che ha preso tempo.
Finito questo anno in cui eravamo inserite in questa formazione, abbiamo fatto una scelta che è stata quella di proseguire perché il progetto aveva preso forma, era nato un brand, erano nate delle possibilità e noi abbiamo deciso di andare avanti.
Come ha scoperto l’opportunità del microcredito e come l’ha aiutata a cambiare forma al progetto?
Sofia: Noi inizialmente eravamo configurate come associazione perché il tema fondante era il reinserimento socio/lavorativo di donne vittime di violenza, e quindi abbiamo inizialmente portato avanti quest’aspetto a totale svantaggio però dell’aspetto commerciale, ma non inteso in senso negativo, ma proprio del fare business e creare opportunità lavorative e avere una posizione nel mercato odierno.
Il Centro Donna ad un certo punto ci ha portato a partecipare ad un bando che dava l’opportunità di una formazione sullo sviluppo di idee imprenditoriali e attraverso questo programma che abbiamo seguito con Lazio Innova di Roma siamo state poi informate su una serie di strumenti.
Il fatto è che l’impresa ha la necessità di avere un margine di investimento.
Ci sono state delle presentazioni sui vari strumenti, tra cui il microcredito, che davano l’opportunità di richiedere questo finanziamento come investimento per l’acquisto di materie prime, macchinari e altro.
Noi siamo venute a conoscenza del microcredito grazie ad un’assessora del tempo, ma fondamentalmente per il lato pratico è stato Lazio Innova, che ci ha fatto delle video call a causa del periodo del lockdown.
C’è stato un tutor del microcredito che ci ha preparato su tutto il percorso e, di conseguenza, noi abbiamo scelto questo strumento perché incontrava quelle che erano le nostre necessità e la nostra struttura, perché poi noi ci siamo configurate come società, per cui siamo passate da associazione a società proprio a cavallo di questo percorso.
Quindi io ho presentato il progetto d’impresa alla regione in cui l’ENM era presente e, successivamente, abbiamo creato la società, e da subito ci siamo interfacciati col tutor che ci ha seguito per portare avanti tutta l’istruttoria e tutta la richiesta specifica.
Qual è stato l’impatto del microcredito sull’autostima e sulla fiducia in sé stessi?
Sofia: L’opportunità di fare impresa in questo Paese è difficilissima: o parti da una posizione di vantaggio economico, e quindi fai un tentativo a fondo perduto, oppure è negato. Abbiamo cercato a lungo di richiedere dei finanziamenti al fine di incrementare i macchinari, personale ecc., ma non siamo riuscite ad ottenere nulla: essendo un gruppo di donne, e già la parte donna la mettiamo in primo piano perché abbiamo sperimentato che andare a parlare in banca di fronte ad un persona che si rapporta a te come si rapporterebbe all’imprenditore uomo è molto diverso. È stata una parte frustrante. Quindi già partiamo da uno svantaggio di genere. In più si somma il fatto che noi siamo un gruppo di donne che vengono da una situazione di difficoltà, anche economica. Se non ci fossero degli strumenti messi a punto proprio per questo tipo di categorie, non ci sarebbero opportunità. Quindi il famoso discorso delle pari opportunità, sia per quanto riguarda il soggetto fragile che l’idea imprenditoriale buona che però non è affiancata da un sostegno economico forte, è un’idea che non può svilupparsi. È un po’ come dire “non ti riservo quest’opportunità che potrei riservare ad una persona con un altro status economico”.
In una società che nel 2023 si dovrebbe evolvere, c’è una disparità enorme. Questo è il senso del microcredito rispetto a persone che hanno vissuto la mia esperienza e che sanno che ad un certo punto o vai a fare un lavoro che non piace, oppure non ci sono possibilità, cosa che non porta a crescere come persona. Se una persona ha una forte vocazione, dei talenti o delle idee, e pensa di poter portare qualcosa al mondo che abbia un valore, a quel punto deve rinunciare per poi avere un’autostima a terra a causa del senso di fallimento.
Ogni fascia anagrafica ha la sua difficoltà, soprattutto per le donne più grandi che magari hanno sempre fatto le casalinghe e non hanno lavorato. Come, ad esempio, è capitato con una nostra partecipante, la quale ad un certo punto si è chiesta: “ora cosa ne faccio della mia vita?”.
Ecco perché è importante per l’autostima, è un messaggio sociale da dare a tutte e tutti.
Qual è stata l’idea imprenditoriale che avete sviluppato grazie al microcredito? Raccontateci di La.B!
Mara: Il progetto è partito come un progetto di formazione. Credo che ci sia una cosa fondamentale da dire, perché tutto quello che ti ha raccontato Sofia rispetto al relazionarsi con le istituzioni e gli istituti bancari purtroppo è passato anche per fasi di grandissima frustrazione. Basti pensare che ti danno del tu solo perché sei una donna. Non ti considerano come un’imprenditrice, ma come una che viene a chiedere un favore, quando in realtà chiedi informazioni su degli strumenti che vengono messi a disposizioni di imprenditori, aziende e imprese.
Anche se questo è un dato su cui abbiamo fatto una grandissima fatica, c’è un lato oggettivo che è quello del coraggio. Benché anche io provenga da un percorso di violenza, il mio background lavorativo era diverso, avevo delle attività al di fuori di questo percorso.
Ho cominciato con loro come formatrice, per la parte di formazione di progettazione laboratoriale perché mi occupo da più di 20 anni di design di pelletteria, per cui in qualche modo entravo in relazione con loro stando dall’altra parte.
Qualche anno fa avevo già avviato un percorso tramite il Centro Lilith, ma purtroppo non usufruiva di borse lavoro, per cui le donne (anche con figli) avevano bisogno di sostentamento, perché molto spesso erano sradicate dal contesto familiare e quindi senza sostegno. Queste donne non potevano venire a frequentare i corsi perché avevano necessità di occuparsi come cameriere o badanti. Purtroppo, il primo pensiero è che la donna sia destinata ai lavori di cura.
La.B nasce come percorso di formazione, ma poi loro hanno avuto il coraggio di mettersi in discussione e dire “noi adesso abbiamo imparato qualcosa e vogliamo fare impresa”.
Purtroppo, per fare impresa ci vogliono delle basi, anche perché come azienda appena nata, nessuno ti dà credibilità, a cominciare dai fornitori. Benché tu come terzista venga pagato a 60gg, per acquistare la materia se non paghi subito non danno nulla. È come un cane che si morde la coda. Inevitabilmente noi non avevamo garanzie, e il paradosso è che in banca venivamo trattate come le ultime arrivate perché nessuno garantiva per noi.
Noi, pur volendo uscire da questo percorso che non voleva essere assistenzialista, non volevamo usufruire dei fondi di nessun tipo. Molto spesso questo tipo di attività muoiono se finiscono i fondi, quindi molto spesso è difficile che venga fuori un’impresa da questo tipo di percorso di formazione.
Il nostro obbiettivo invece era di fare la differenza, ovvero dimostrare che il lavoro, la professionalità e la perseveranza ci portassero fuori quel dal contesto del laboratorio sociale in cui un cliente acquista per compassione. All’inizio può andar bene, ma questa non è l’impresa. L’impresa è di chi ha fatto un percorso, di chi si è affrancato da una certa posizione. Infatti, noi non parliamo nemmeno più del nostro passato di violenza, ma abbiamo i problemi concreti di un’impresa tra cui le scadenze economiche, le consegne, le ordinazioni delle materie prime… insomma, viviamo in un contesto lavorativo quotidiano uguale a quello di altre tre milioni di aziende.
Ancora oggi facciamo le acrobate nel quotidiano, ma con una grande fiducia in più, che è quella del lavoro che riusciamo a portare a termine. Oggi tutto sommato ci riconosciamo dei piccoli grandi traguardi, che poi spostiamo sempre più in là (prima ci accontentavamo di fare 20 borse a settimana, oggi ne facciamo 100, domani forse ne vogliamo fare 300).
Il nostro desiderio di crescere è sconfinato, però la nostra intenzione da subito è stata quella di affrancarci dall’idea dell’assistenzialismo (perché quello è un primo step per darci una possibilità e non è un’impresa). Le borse lavoro sono state essenziali, senza di loro questo progetto non sarebbe stato mai in piedi.
In ogni caso, ad oggi veniamo ancora considerate “le poverine che devono essere aiutate”, e questo è un passo davvero complesso da affrontare.
Questo progetto come cerca di affrontare le sfide e le difficoltà che hanno le imprese?
Mara: L’ostacolo più grande è proprio un discorso che viene da una società patriarcale, ovvero che la questione femminile è ancora discriminata. C’è inoltre una difficoltà enorme di strumenti che hanno dei gap importanti. Ci siamo relazionate, Sofia in particolar modo, con dei referenti che hanno illustrato una serie di strumenti che sulla carta sono straordinari, peccato che nella praticità ci siano dei gap importanti, tipo gli istituti bancari che non conoscono nemmeno l’esistenza del microcredito. Ad esempio, noi abbiamo avuto un confronto con il direttore di una banca: è stato svilente. Non soltanto per la questione femminile “ti do del tu / non ti rispondo alle mail perché tanto stai chiedendo l’elemosina”, ma proprio per il fatto che pur sentendo parlare di Agenda 2030, grandi obiettivi, PNRR e parità salariale per le donne, nel quotidiano non è così. Non si tratta nemmeno di un problema legato alla provincia di Latina e quindi del Centro Sud, ma purtroppo di mala informazione di chi dovrebbe mettere in atto questi strumenti e incapacità di fare delle valutazioni oggettive.
Determinati strumenti non sono neanche regalati, nel senso che vengono messi a disposizione proprio per far crescere il Paese, e forse per far crescere anche le donne. Quindi, la difficoltà nel quotidiano di affrontare queste cose, le lungaggini hanno fatto sì che noi abbiamo aspettato quasi due anni per il microcredito, che per noi hanno significato lavorare gratuitamente e avere difficoltà nel quotidiano con le piccole cose.
Questo sacrificio l’abbiamo fatto proprio perché credevamo e crediamo tanto nel nostro progetto a cui non abbiamo rinunciato. Purtroppo, qualcuna di noi ha dovuto rinunciare per forza di cose perché aveva necessità di avere un’entrata, anche se minima.
Persone come Sofia, che hanno dimostrato un grandissimo coraggio e una grandissima tenacia di portare avanti quell’idea, hanno avuto il coraggio di dire “io ce la devo fare”.
Capisco che ci siano burocrazie da rispettare, però noi ci scontriamo già quotidianamente con degli strumenti assenti a livello istituzionale, che è tutto il supporto alle donne tipo la gestione dei figli.
In quali altri posti di lavoro permetterebbero loro di entrare e uscire dal lavoro o di stare a casa con i figli in caso di malattia? Non c’è nessun tipo di supporto.
È per questo motivo che noi vogliamo creare uno spazio asilo all’interno del nostro laboratorio, per quelle ragazze che hanno necessità di lavorare qui. Il lavoro è una cosa essenziale. La difficoltà non sta nel nostro lavoro e nei nostri obiettivi perché noi siamo consapevoli che rispondiamo alle esigenze del mercato, rispondiamo alle commesse, consegniamo le produzioni per tempo e siamo consapevoli che abbiamo in mano una ricchezza che è il nostro lavoro.
A volte purtroppo la nostra quotidianità viene spesa in lungaggini, ovvero in questioni burocratiche che sono veramente complesse da gestire.
Nonostante tutto questo, il nostro sogno è talmente grande che andiamo avanti.
Quali sono le speranze e gli obiettivi futuri per La.B e per le donne coinvolte?
Sofia: Faccio una premessa: quello che è La.B è oggi rispetto a quello che era quando siamo partite si è un po’ evoluto. Noi siamo partite con un progetto di pelletteria che voleva sfruttare una risorsa del territorio, ovvero la bufala dato che noi siamo pieni di allevamenti. L’idea da cui siamo partiti, che tra l’altro era un’idea proposta da Mara in primis e da tutto il coordinamento iniziale, era quella di sfruttare queste pelli che alla fine del ciclo produttivo delle bufale venivano scartate e buttate dato che non sono pelli pregiate e quindi di valore.
Quindi ci siamo legate all’idea di un’economia circolare per quanto possibile (torniamo sempre sui problemi di natura tecnico/burocratica), e quindi a sviluppare un prodotto che potesse trarre dal territorio in cui siamo proprio la sua materia prima, la sua essenza.
Da qui è nato il progetto La.B, perché La.B significa sia LABoratorio che La Bufala. Siamo partite proprio dalla bufala come animale simbolico di uscita dalla violenza perché la sua è una pelle segnata da cicatrici.
Dall’altra parte il fatto che noi volevamo utilizzare una pelle conciata al naturale che non coprisse i difetti, ma li valorizzasse e mettesse in evidenza. E attraverso questo potevamo creare dei prodotti unici dato che ogni pelle ha dei segni diversi e non ripetibili.
Da qui è nata l’idea di produrre le borse, che è stato il nostro core business e simbolo per circa 2 anni. Nell’evolverci poi il business è diventato più un contenitore, non ci siamo fermati alle borse. Siamo diventati un posto dove utilizzare la creatività per tirare fuori altre categorie di prodotto che hanno portato avanti il nostro brand.
Quello che vedo come futuro del nostro brand è riuscire a dare possibilità lavorative sempre più ampie, abbracciando l’accrescere di un’impresa piccola che speriamo cresca sempre di più.
L’altra prospettiva futura è quella di strutturare un percorso di produzione con la libertà di poter creare sempre di più in termini di proposte che ad oggi non sono scontate. Quindi non limitarci ad un solo prodotto, ma cercare di esplorare quelli che sono altri territori che noi in questo momento abbiamo approcciato e siamo soddisfatte, come il discorso interior di cui abbiamo parlato a lungo con il tutor.
Questo è quello che vedo nel futuro, l’espansione di un’impresa che speriamo diventi al più presto una reale possibilità di lavoro, e che riesca a introdurre sempre più donne che vengono da contesti di disagi.
Nel futuro vedo anche un prodotto che dia un messaggio, che quindi va oltre la borsa che si indossa per stile. Vorrei che questo prodotto venisse scelto per la sua unicità dato che viene fuori da tutta una serie di lavorazioni che hanno permesso che quel lavoro fosse esattamente così.
C’è un messaggio che volete mandare alle donne che vivono un momento di difficoltà e vogliono cambiare vita, ma sono frenate e non trovano il coraggio?
Mara: Credo che questo esempio di La.B, cosa che per noi ad oggi è ancora un esperimento e ci sentiamo ancora sperimentali, credo che abbia un significato fondamentale cioè che il lavoro restituisce dignità alla persona. Restituisce una dignità sociale, nel senso che non c’è soltanto il riconoscimento in quello che si fa (e quindi c’è un aspetto di autostima di consapevolezza di sé che è terapeutico), ma è anche una dignità sociale che ci restituisce come esseri umani in una comunità.
Noi abbiamo scoperto durante la nostra esperienza negli allevamenti che le bufale sono animali che vivono in comunità, e che se vengono isolate non producono più il latte: questo ci è sembrato un aspetto particolarmente importante perché noi donne ci dobbiamo sentire riconosciute, accettate in una comunità per quello che siamo e facciamo.
Mio papà mi ha cresciuta ricordandomi che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, e io credo che il lavoro sia fondamentale per il riconoscimento di sé stessi.
Sofia: Cercare chiaramente di non restare chiusi nelle situazioni veramente gravi che noi abbiamo visto e vivono molte donne. Non restate nella chiusura, e anche quando sembra l’unico modo per affrontare quel tipo di situazioni, cercate degli agganci all’esterno. A volte si crede di non riuscire a superare una certa difficoltà e si ha paura soprattutto dei cambiamenti. Questa è l’area di comfort che spesso ci teniamo stretta per paura di affrontare dei territori oscuri. Però allo stesso tempo mi chiedo: quanta forza ci vuole per stare in una situazione di quel tipo? In realtà stare in quella situazione richiede più forza di quella che effettivamente fa fare il salto.
Spostare l’attenzione verso un focus diverso e cercare l’aiuto esterno è fondamentale, visto che i meccanismi sono molto difficili da sradicare. Bisogna cercare quella mano che ti viene tesa, quel supporto o quella consulenza, quell’informazione che fa capire che vivendo nella propria bolla non ci si rende conto che effettivamente ci sono tantissime persone che vivono una situazione simile.
Per questo, dal mio punto di vista, in situazioni come la nostra (ovvero l’esperienza di esserne uscite e di averne fatto anche qualcosa di positivo) può aiutare tanta gente. Il fatto di sapere che c’è una possibilità e che ci sono tante persone, risorse e professionisti che sono disposti a proteggere donne e figli, a prendersi rischi, è il tipo di aiuto migliore.