STRATEGIA PER UN QUADRO MONDIALE IN MOVIMENTO

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STRATEGIA PER UN QUADRO MONDIALE IN MOVIMENTO

< >Si riportano gli estratti del Workshop organizzato da ENM e Fondazione Foedus ...

La Rivista del Microcredito

Svoltosi presso la Camera dei Deputati con l’Adesione del Presidente della Repubblica, il Patrocinio di Camera, Senato e Presidenza italiana del Semestre UE. Panel “Economia e Lavoro” nella Sala delle Colonne della Camera dei Deputati

Angelo Maria Petroni - Segretario generale Aspen Institute e moderatore del workshop
“Questo è uno dei temi che ha avuto grande attenzione da parte del Club di Roma che ha avuto tanti meriti, ma pensava a un mondo di risorse finite. In realtà le risorse non sono finite perché dipendono dall’intelligenza umana, dalla tecnologia e ovviamente da come le si sa usare. Siccome siamo ospiti della Fondazione Foedus, presieduta dal presidente Baccini, volevo ricordare un grande intellettuale liberale cattolico, Frédéric Bastiat, della metà dell’ottocento francese.

E’ stato il pensatore francese più influente dell’800 dal punto di vista economico, egli coniugava cattolicesimo e liberismo quando disse: “La sola ricchezza è la ricchezza di uomini”. Le risorse naturali non significano niente, nulla ha significato se non gli uomini. Quindi credo che il punto fondamentale sia quello di coniugare l’aspetto demografico con quello economico e non in maniera catastrofista, ma per far sì che la crescita della demografia non diventi materia di preoccupazione ma sia semplicemente un fatto positivo. Viviamo più a lungo e le popolazioni invecchiano e questo va gestito in modo tale che diventi anche una risorsa economica, non soltanto un peso economico.

Riccardo Maria Graziano - Segretario generale ENM
Grazie alla Fondazione Foedus e agli organizzatori per questa opportunità. Il microcredito e in generale gli strumenti che ruotano intorno al mondo della microfinanza con ogni probabilità sono alcuni dei pochi strumenti che in questa fase di crisi ci si possa permettere al fine di avere un impatto sociale rilevante a fronte di modesti mezzi impegnati. Abbiamo certamente un dato di auto employment di 2.4 risorse umane a progetto di microcredito, sono dati del Centro Studi dell’Ente Nazionale del Microcredito, con un finanziamento medio inferiore ai 20 mila euro. Se calcoliamo che in questo momento dai dati generali ci sarebbe una richiesta di 280 miliardi di dollari da parte di popolazioni escluse dai circuiti bancari tradizionali a fronte di un’offerta effettivamente erogata di 17 miliardi di dollari, ecco questo gap devastante in parte potrebbe essere colmato con iniziative di microcredito. Ai fini internazionali l’art 7 della legge 49 della Cooperazione ha inserito, anche grazie all’opera dell’Ente, il microcredito fra i possibili strumenti di cooperazione internazionale e in generale di sostegno allo sviluppo. Ora l’ENM è molto sensibile, anche in quanto braccio tecnico operativo del ministero degli Affari Esteri in tema di microcredito, a portare avanti questa sua missione e a usare nei paesi che ci sono stati assegnati come obiettivo dalla Farnesina, la leva prevista dall’art. 7 per promuovere il microcredito nei paesi obiettivo. Proprio in questi giorni anche grazie al lavoro dell’Ente sono stati ultimati dei lavori di una task force G8 in materia di Social Impact Finance. Questi studi definiscono negli strumenti di social landing, di crowfounding e in generale di finanza a impatto sociale, le vie che potranno concorrere a dare una risposta economicamente sostenibile a questa non solo crisi ma tensione condivisibile al finanziamento e all’inclusione finanziaria economica che ci deriva dai paesi più poveri i quali giustamente hanno un pulsione migratoria dovuta spesso alla disperazione di non trovare a casa loro strumenti alternativi interessanti. Uno strumento importante che cercheremo di portare avanti sarà l’emissione di titoli di debito pubblico con impatto sociale possibilmente cercando delle deroghe ai principi del Patto di stabilità perché saranno non dei debiti ma degli investimenti a fronte di risparmio se non altro in termini di costi sociali che alcuni Stati e il nostro in particolare non possono più permettersi di sostenere. Un altro veloce spunto è che il microcredito è uno dei pochi strumenti che consente di sviluppare, con costi contenuti, efficaci interventi di tipo economico e sociale, comunque inclusivi, non di tipo assistenzialistico. Sostanzialmente con la costituzione di fondi di garanzia diretti anche dall’Enm, a breve avremo anche in Italia l’attivazione del fondo di garanzia Pmi dedicata al microcredito, ci auguriamo di sviluppare alcune decine di migliaia di finanziamenti. Giova ricordare che l’Italia in materia di microcredito è un paese all’avanguardia, quando nel 2005 è stato colto l’appello di Kofi Annan ed era stato istituito l’allora Comitato per il Microcredito, l’Italia ha dato per prima in Europa, ora c’è anche la Francia e la Romania, una normativa primaria in materia di microcredito. Questo ci fa onore e ci ha consentito di scrivere strumenti normativi assolutamente all’avanguardia e compliency con la normativa bancaria in tema di ponderazione del rischio. E’ una grande scommessa, noi ci siamo, ci crediamo assolutamente e credo che la microfinanza e il microcredito in particolare siano uno degli strumenti tra i più significativi ai fini di delineare questa strategia per un quadro mondiale in movimento di cui oggi parliamo”.


Franco Frattini - Presidente SIOI
“Grazie a Mario Baccini per l’invito. Per evitar di ripetere analisi approfondite che ho qui ascoltato, le mie brevi riflessioni si incentreranno su questo: indicherò, proprio perché è un workshop su cui bisognerà poi lavorare, quali sono i fattori, indicandoli come titoli, che a mio avviso hanno influenza sullo sviluppo e sulla creazione di posti di lavoro. Comincio con il fattore più rilevante che è l’Europa, capire in quale direzione vada l’Europa cambia tutto, va verso una strategia che riuscirà a conciliare crescita e tenuta dei conti? Si riuscirà a superare l’antagonismo tra una visione rigorista che nega la possibilità di interventi espansivi e una controproposta che è apparsa soltanto antagonistica e non conciliabile quale quella che dice il rigore dei conti è una delle precondizioni, ma lo sviluppo e la creazione di posti di lavoro presuppongono un’azione espansionistica per l’Europa? Se si riuscirà a superare questo antagonismo cambierà molto e sarà uno dei fattori che avrà influenza direttissima sul sistema dei paesi membri e quindi anche sul nostro; se non ci riusciremo le cose andranno in un senso diverso. In Europa a mio avviso non c’è anzitutto una crisi economica, io la definirei crisi politica sulla sovranità. Oggi si discute in Europa su cosa è possibile che la sovranità europea continui ad avanzare a scapito o per volontà di cessione da parte degli Stati nazionali. Siccome non è chiaro ancora e vi sono contrasti tra chi vuole più sovranità europea e chi vuole più sovranità nazionale, questo è uno dei fattori di crisi; sull’esserci o meno un futuro di unione politica o sull’esserci soltanto un rafforzamento dell’unione intergovernativa. Questo è un fattore che ha una rilevanza decisiva, è nelle mani della nuova Commissione, è nelle mani degli Stati membri che lavoreranno con la nuova Commissione. Io penso che c’è stata l’illusione che queste tematiche, che crescita e lavoro si potessero sviluppare a livello nazionale con ricette diverse o anche mi permetto di dire soltanto a livello europeo; è troppo poco anche l’Europa. Oggi è tutto globale, è globale la ricetta per creare crescita e sviluppo e quindi lavoro, e l’Europa che non a caso sta tentando di globalizzare alcuni settori, come al negoziato in corso sul Trattato di libero scambio con gli Stati Uniti. L’Europa deve andare in questa direzione: globalizzare la risposta alla domanda come si fa ad avere più crescita, come si fa ad avere più lavoro. Ma come fa l’Europa a globalizzare questa risposta se al suo interno c’è una crisi sulla sovranità, ci sono paesi che preferirebbero un’Europa a loro immagine e somiglianza, ci sono paesi, spero che l’Italia sia fra questi, che preferirebbero un’Europa che guida e paesi membri che sviluppano con armonia il loro rapporto con l’Europa. Nessuno ha mai parlato di un’Europa italiana, qualcuno ha parlato di un’Europa tedesca; sarebbe un tragico errore se la Germania pensasse o qualcuno in Germania pensasse che la ricetta dell’Europa tedesca invece di una Germania europea, dovesse prevalere.
Secondo fattore che non di dipende da noi, anzi qualche fattore di tipo più geostrategico che va oltre i confini dell’Europa. Anche qui dò qualche titolo: di demografia si è molto parlato io condivido il titolo del saggio del Gen. Jean che la demografia è tiranna in questo i numeri che sono stati dati lo dimostrano. Poi vi sono fattori macroregionali che non dipendono da noi ma che hanno un impatto enorme sullo sviluppo economico e sulla crescita e sulla creazione di posti di lavoro come la destabilizzazione del grande Medio Oriente dalla Libia fino all’Iraq, con il capitolo che si aprirà in Afghanistan quando le truppe combattenti lasceranno e si aprirà un capitolo altrettanto drammatico come quello che abbiamo visto aprirsi in Iraq quando le forze occidentali se ne sono andate e pensavamo di aver addestrato l’esercito iracheno che è stato spazzato via. La destabilizzazione di questa macro area del mondo certamente un grande effetto ce l’ha, i milioni di rifugiati che scappano da quelle aree del mondo prima o poi guarderanno all’Europa come destinazione finale e siccome come noi sappiamo i diritti del richiedente asilo e del rifugiato sono diritti protettivi delle loro posizioni individuali, se ne dovremo accogliere, perché no potremmo dire di no, qualche centinaio di migliaia o qualche milione, questo un impatto ce l’avrà.
E’ il tema del giorno ma un altro fattore con cui dovremo confrontarci è la grande epidemia di Ebola che sta mettendo in discussione non solo i rapporti tra i popoli ma anche la circolazione delle persone attraverso il mondo. Oggi si parla di controlli, domani si potrebbe parlare di blocco della circolazione per coloro che provengono da alcuni paesi. Dico quello che il Consiglio di Sicurezza riunitosi ieri notte ha detto a proposito della questione: la prevenzione e la reazione rapida da parte degli organismi internazionali preposti al tema sanità - epidemie è stata fallimentare. Queste sono le parole con cui il Consiglio di Sicurezza ha in breve detto cosa è accaduto nelle prime settimane quando si pensava che l’Ebola potesse essere domata rapidamente, poi ci siamo accorti e ce ne accorgeremo nei prossimi mesi cosa potrebbe accadere. E’ stato accennato al tema delle migrazioni infatti il tema delle migrazioni di massa è un altro dei fattori, quanti immigrati hanno formato nuova manodopera nel momento in cui l’Italia perdeva un milione e mezzo di posti di lavoro, dimostra plasticamente come le migrazioni sono un altro di quei fattori globali di cui certamente dovremo tener conto, perché non siamo noi a determinarli, se non mettendo in pista delle strategie visionarie come fanno i cinesi che non pensano al triennio ma al prossimo cinquantennio, se vogliamo far qualcosa per il fenomeno migrazioni. Vi dico una frase che un grande leader africano, del qual non vi dico il nome, mi disse durante la Presidenza italiana del G8 del 2009 ed è una frase che dice tutto: “Caro amico e cari amici europei sappiate che voi o imparerete a prendere i nostri beni, i nostri prodotti o vi dovrete prendere la nostra gente. Se dite no all’uno e all’altro sarete sommersi”. E’ una cosa di elementare verità, se noi non affrontiamo il tema dello sviluppo nei paesi di origine e se non affrontiamo il tema del commercio e delle barriere doganali ai prodotti che vengono dal mondo più povero e quindi blocchiamo i prodotti e le persone, saremo semplicemente travolti.
Quarto fattore: vi è stata una politica sbagliata da parte dell’Europa, degli Usa, con il concorso colpevole di errori gravi della Russia, che ha portato a un sistema di sanzioni che ci penalizza e ci penalizzerà grandemente nel prossimo futuro. Non possiamo nasconderci, la possibilità di espansione italiana verrà grandemente penalizzata se questo sistema di guerra commerciale alla federazione Russa proseguirà. Io mi auguro che nelle prossime ore a margine del vertice Asem di Milano esca una parola di buon senso e di ragionevolezza che vada verso il ripensamento di un sistema di sanzioni.
Certamente perché noi europei che ci siamo messi la lancia in resta e siamo andati avanti, siamo quelli che pagheremo. Molti nostri amici che vivono dall’altra parte dell’Atlantico pagheranno molto di meno per questa guerra commerciale. Bisogna dire le cose con assoluta franchezza, sono cose che noi subiamo e che sono dipese da noi in minima parte, di certo l’Italia e la Germania da sole non avrebbero potuto mettere il veto a un’azione Euro - Atlantica che appariva tanto determinata da poter essere soltanto mitigata, ma non certamente bloccata. Ripensiamoci perché è un altro fattore che non aiuta né la crescita né i posti di lavoro.
Quinto fattore che è ancora più globale di tutti gli altri: la negazione dei diritti fondamentali delle persone, laddove esiste negazione dei diritti si creano i principali fattori per la destabilizzazione e per l’insicurezza mondiale quindi intervenire per portare giustizia economica e sociale dove occorre, è un contributo straordinariamente importante alla prevenzione di fattori di crisi che poi diventano inarrestabili. Quando la disperazione deriva dall’ingiustizia e dalla negazione dei diritti, ancor più che dalla fame, la miscela diventa esplosiva.
Poi vi sono fattori interni all’Europa e anche questi li nomino per titoli.

Ho già accennato al pericolo di un’Europa tedesca, un grande ex ministro degli Esteri tedesco che è stato mio collega e amico Fischer, grande ministro degli Esteri del governo Schroeder, il quale ha detto che il peggiore errore per la Germania è non comprendere che alla Germania conviene una Germania europea assai più che un’Europa tedesca”. Perché se crollano i consumi in Italia e in Francia chi compra i prodotti tedeschi? Il secondo fattore europeo è il ruolo della Bce, dobbiamo dire grazie per molte cose che la Bce ha fatto, ma il ruolo della Bce è da rafforzare. Arriverà un momento e credo che stia arrivando che se non la aiutiamo a rafforzare quel ruolo di monitoraggio sulle linee di direzione di destinazione dei prestiti che la Bce fa ai sistemi bancari dei paesi membri, che sono stati destinati a ricapitalizzare le banche anziché alla erogazione di liquidità al sistema delle imprese, se non diamo alla banca la possibilità di rendere binding il vincolo di destinazione di queste linee di credito, togliamo uno strumento importante che è quello di crear un volano positivo attraverso i prestiti all’1% dalla Bce ai sistemi bancari nazionali, ma con un vincolo obbligatorio e verificabile sul sistema della liquidità all’economia reale e non al rifinanziamento delle banche.
Terzo fattore europeo e qui vengo al microcredito di cui Mario Baccini è autorevole presidente, per usare un’espressione cara al premio Nobel Yulnus: il microcredito investe sulla forza della povertà. La povertà è una forza talmente straordinaria che si deve smettere di guardarla come peso e debolezza ma come grande ricchezza. Allora se il sistema europeo comprende finalmente che il meccanismo del microcredito vuol dire investire fuori dai confini europei, pensate la partenariato meridionale o a quello orientale, attraverso un microcredito che spenda bene i soldi dell’Europa là dove la povertà da peso diventa ricchezza, il microcredito diventa un’arma vincente per l’Europa come finora è stato soltanto in parte limitata. Quindi questo fattore interno all’Europa è un fattore su cui a mio avviso ancora poco si è fatto anche se diamo atto al microcredito italiano di avere la leadership sulla buona utilizzazione dei progetti europei in questo settore. Ma ce ne vorrebbero di più specialmente quando si comprende che vi sono istituzioni nazionali come l’Enm che sanno usare bene i progetti e sanno investire sulla povertà, creando dalla povertà ricchezza. Questa è una frase che chi ha preso il premio Nobel per la pace per aver inventato su larga scala questo strumento ci ha lasciato in eredità e io questa frase non la dimentico.
Poi ci sono fattori che dipendono da noi e qui i titoli saranno brevi. Riprendo quella bella frase che Angelo ci ha citato di un francese che ha fatto molto non solo per la Francia ma per il resto dell’Europa. I fattori che dipendono da noi sono investire sul fattore umano. I settori su cui ancora noi investiamo troppo poco a livello nazionale sono proprio quelli su cui il fattore umano è il valore aggiunto: i servizi, la ricerca, l’economia digitale, l’innovazione, la cultura, la formazione mirata, ma io ne metterei un altro di fattore su cui si parla ormai poco, la tradizione di chi come noi si riconosce nel popolarismo europeo a cui quel fattore ci richiama sempre: la famiglia. La famiglia è un fattore che è stato visto negli anni della crisi come un ammortizzatore sociale in cui con la pensione del nonno si manteneva il ragazzo disoccupato. Oggi la famiglia merita un investimento non più come ammortizzatore sociale, ma come unico, straordinario e insostituibile fattore di educazione dei più giovani al loro ingresso nella società. Quando ai miei tempi si studiava a scuola l’educazione civica si studiava che la famiglia è l’elemento fondante su cui una società sana cresce. Se la famiglia noi la viviamo oggi come residuale o peggio come mero ammortizzatore sociale noi disperdiamo un fattore di investimento cruciale per le generazioni che verranno. Allora su questo in Italia si sta facendo pochissimo. Io ricordo i momenti in cui, nel governo di cui facevo parte, si ragionava di quoziente familiare, di incentivazioni per le famiglie numerose. Oggi la Tasi che mira a sostituire il sistema di imposizione della casa ha fatto sparire il beneficio che persino l’Imu riconosceva ai proprietari di casa con famiglia numerosa. La nuova Tasi ha perso questo segno che il proprietario di una casa che ha 5 figli deve essere avvantaggiato rispetto al proprietario della stessa casa che di figli non ne ha oggi questo nella nuova Tasi non c’è più. Allora pensate quanto si perde di vista la centralità della famiglia, e questo dipende solo da noi. Ultima cosa che vorrei dire: il lavoro non si crea aumentando le regolamentazioni, come ha ricordato Francesco Verbaro, quando si scopre che vi è una pendenza accumulata di 480 provvedimenti attuativi di leggi in vigore e quando nella sezione del Consiglio di Stato che io presiedo, io ricevo proposte di leggi che risalgono al 2010-2011-2012, quando si attua una norma che dice “entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge 2012 il Governo predispone un regolamento che …” noi ci accorgiamo che quasi 500 provvedimenti attuativi sono il segno che si fa un bel manifesto di una legge, ma quando quella legge da delega diventa decreto delegato e poi decreto attuativo, ormai ci si è dimenticati il problema perché sono passati due o quattro anni. Questo conta, perché io che sono stato vicepresidente della Commissione europea ricordo che quando si guardavano i programmi di riforma nazionali, si chiedeva al paese membro quanto fosse credibile che quel manifesto normativo entri nella realtà cambiando le cose davvero con l’attuazione e in quanto tempo. Allora attenzione chi pensa che una riforma sbandierata come norma manifesto ripari contro il rischio di un’azione europea sbaglia. L’Ue chiede che quella norma sia credibilmente accompagnata da un action plan con una road map che venga rispettata. Quindi anche questo dipende da noi. La mia chiusura è che tutto questo può accadere se la leadership politica c’è, i mercati non si regolano da soli. A livello europeo e a livello nazionale questi risultati si hanno se la determinazione politica c’è. Possiamo fare le migliori norme, possiamo applicare le migliori direttive europee, ma se non c’è leadership e c’è crisi di leadership politica né la crescita né i posti di lavoro si moltiplicheranno per miracolo”.

Prof. Giovanni Puglisi – Rettore IULM
La partecipazione ad un workshop votato all’individuazione di una Strategia per un quadro mondiale in movimento impone evidentemente ai partecipanti di prendere le mosse dall’analisi di un contesto più ampio possibile, preferibilmente globale. E il contesto globale è chiaro: nel XXI secolo, l’industria rappresenta meno di un terzo, l’agricoltura un misero 4% e il cosiddetto terziario – o meglio i servizi – vale oltre i due terzi dell’economia mondiale. Solo tenendo ben presenti questi dati generali, che nel quadro nazionale si fanno ancora più marcati, con un’incidenza dell’industria sul prodotto interno lordo che si aggira appena intorno al 25%, è possibile capire come mai, a fronte di una performance nazionale nel settore delle esportazioni legate all’industria manifatturiera, che non esito a definire ottima, (siamo secondi in Europa dopo la Germania e uno dei soli cinque Paesi del G20 con Cina, Germania, Giappone e Corea ad avere un surplus strutturale con l’estero nei prodotti manufatti non alimentari), la nostra economia si trovi da così lungo tempo in fase di stagnazione e in tempi più recenti, persino, recessione.


In altri termini, la straordinaria tenuta delle nostre imprese nei mercati esteri, in particolare per quanto riguarda il mercato del lusso, non è in alcun modo sufficiente a compensare il drastico calo dei consumi interni e la mancanza di competitività delle aziende italiane sul piano della digitalizzazione, dell’e-commerce, dell’innovazione e della qualità dei servizi. Al contrario, nel resto del mondo, è stato proprio il settore dei servizi a trainare l’economia dei Paesi emergenti e l’occupazione nelle società occidentali più avanzate (e, oggi, “in uscita” dalla crisi): perché i servizi non sono quasi mai delocalizzabili, neppure nel mondo globalizzato, e ancor meno lo sono quei servizi, quelle attività e quei beni che hanno la propria radice nell’identità del popolo che li produce, ovvero i servizi, le attività e i beni legati alla cultura.
Inequivocabili, da questo punto di vista, sono i dati raccolti entro il Rapporto mondiale sull’economia creativa pubblicato congiuntamente dall’UNESCO e dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite e presentato nelle scorse settimane a Firenze entro il terzo Forum UNESCO sulla cultura e sulle industrie culturali, ove si attesta come, negli ultimi dieci anni (di cui almeno la metà segnati dalla crisi), il commercio mondiale dei beni e dei servizi culturali sia addirittura raddoppiato, superando i 620 miliardi di dollari all’anno; così come inequivocabili sono i dati contenuti nel Rapporto 2014 elaborato dalla Fondazione Symbola e Unioncamere e intitolato significativamente “Io sono cultura: l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi” secondo cui il comparto culturale – inteso in senso ampio come industrie culturali propriamente dette (film, video, mass-media, videogiochi e software, musica, libri e stampa), industrie creative (architettura, comunicazione e branding, artigianato, design e produzione di stile), patrimonio storico-artistico e architettonico (musei, biblioteche, archivi, siti archeologici e monumenti storici), e performing art e arti visive (spettacolo dal vivo, divertimento, convegni e fiere) – riesce a muovere (direttamente o indirettamente, valutando un effetto moltiplicatore di 1,67 sul resto dell’economia, in particolare attraverso l’indotto del turismo culturale) il 15,3% del valore aggiunto nazionale, equivalente a 214 miliardi di euro.
Ma se il settore dell’industria in senso classico, con il suo 25% di incidenza sul PIL, non riesce a trascinare con sé in modo determinante l’economia del Paese, come ci si può aspettare che riesca a farlo un settore come quello della cultura e delle industrie culturali e creative, che nel suo insieme, per altro considerato in modo assai ampio, ne costituisce solo il 15%?
Innanzitutto, si diceva, per il carattere difficilmente “alienabile” e “trasferibile” di tali produzioni; ma, soprattutto, poiché i beni culturali costituiscono in assoluto l’area industriale a più alta densità presente nel Paese, le cui potenzialità di crescita – lungi dall’essere esaurite – sono state fino ad oggi a malapena saggiate ed esplorate (e con ciò fermandomi a considerazioni di tipo strettamente economico, ché non c’è spazio, oggi, per valutare il valore aggiunto di questo genere di produzioni in termini di rafforzamento della coesione e del capitale sociale del Paese). Farò due esempi, uno particolare e uno generale. Il primo, quello particolare, riguarda Pompei: il sito archeologico “patrimonio dell’umanità” che – almeno a partire dal crollo della Schola Armaturarum Juventus Pompeiani, anche nota come Domus Gladiatori, il 6 novembre 2010 – è divenuto il simbolo del “costo” della cultura nel nostro Paese, ecco, quello stesso Sito, o meglio, la sua storia, la sua leggenda e alcuni, minori, reperti da esso provenienti, nelle sapienti mani di esperti valorizzatori del patrimonio culturale e di capaci rappresentanti dell’industria dell’intrattenimento ha generato all’estero, solo negli ultimi due anni, guadagni milionari: quattro mostre a Londra, Madrid, Monaco di Baviera e Philadelphia (tra cui l’esposizione record – con oltre due milioni di ingressi – del British Museum) e due produzioni cinematografiche, tra cui il colossal hollywoodiano diretto da Paul Anderson. Il secondo, tratto nelle sue linee generali dall’interessante, anche se non completamente condivisibile, libro intitolato “Italia, cresci o esci” di Roger Abravanel e Luca D’Agnese per i tipi di Garzanti, riguarda, invece, il turismo: secondo i dati contenuti nel Travel & Tourism Competitiveness Index 2013 elaborato dal World Economic Forum l’Italia – il Paese che detiene il primato, con 50 siti iscritti, nella Lista UNESCO del patrimonio naturale e culturale mondiale – sarebbe solo ventiseiesima per competitività nel settore turistico, a fronte di una Francia al settimo posto e di una Spagna al quarto. Ciò perché – spiegano Abravanel e D’Agnese (che si rifanno a dati meno aggiornati, ma sostanzialmente equivalenti) siamo considerati i più cari al mondo in relazione alla qualità del servizio che offriamo e delle infrastrutture: siamo carenti nel settore del turismo premium, che pretende strutture alberghiere di qualità e trasporti eccellenti e abbiamo il minor numero di esercizi riferibili a catene alberghiere (il 6% contro il 31% della Francia) e – cosa a dir poco emblematica – non siamo riusciti ad esprimere neppure una catena alberghiera di livello internazionale, con il risultato che, a buone performance sul numero di arrivi, corrispondono soggiorni più brevi e più economici e un indice di ritorni estremamente penalizzante.
Ora, come spiegare – e, cosa ancora più importante, come colmare – il ritardo maturato nella nostra capacità di sfruttare la risorsa di cui siamo, in assoluto, più ricchi? In altre parole, come effettuare finalmente, in modo rapido ed efficace, il nostro pieno passaggio ad una società e ad un’economia post-industriali? Ovviamente non esiste una risposta univoca a queste domande, una soluzione unica agli ostacoli che frenano la crescita del Paese, e che vanno dall’elefantiasi della burocrazia al ritardo nella digitalizzazione, da una legislazione sul lavoro antiquata che scoraggia la crescita delle imprese – senza entrare nel dibattito sull’art.18, credo che molti di noi abbiano diretta esperienza di aziende che rifiutano di svilupparsi per non superare la fatidica soglia dei quindici dipendenti – all’assenza di una vera cultura imprenditoriale, dal peso di una fiscalità opprimente per gli onesti, all’illegalità diffusa dell’evasione fiscale e della corruzione; eppure, se mi si chiedesse di individuare la barriera principale che costringe l’Italia ‘al di qua’ di un pieno ingresso nell’economia della conoscenza, non avrei dubbi nell’indicare la mancanza di adeguamento delle competenze, tanto della classe dirigente quanto dei giovani in ingresso nel mondo del lavoro.
In un mondo produttivo che non prevede più – se non nella misura minima ancora richiesta dall’industria tradizionale – la distinzione netta tra mano d’opera non qualificata e quadro-dirigente incaricato della progettazione, ma dove, a tutti i livelli, sono richieste capacità organizzative e gestionali; in un mondo produttivo in cui le possibilità di innovazione sono legate a doppio filo alle occasioni di sviluppo dell’auto-imprenditorialità; in cui è richiesto a tutti, lavoratori, dirigenti, imprenditori, di reinventare ciclicamente il proprio ruolo entro realtà aziendali che, per non soccombere, devono mantenere una costante capacità di ristrutturazione. In un mondo produttivo tal fatto è, dunque, necessario un profondo ripensamento sia della scuola, sia, e soprattutto, del sistema universitario, cui è demandato (al netto dei nuovi allarmanti dati sul tasso di dispersione scolastica in Italia) il difficile compito di traghettare le nuove generazioni dal mondo della formazione a quello del lavoro e di seguirle, da lì in poi, lungo tutto il corso della vita.
Tale ripensamento dovrà essere articolato in due direzioni principali:
- una strutturazione dei corsi di laurea, dei piani di studio e delle materie di insegnamento più rigorosa e maggiormente rispondente alle competenze richieste dal mercato del lavoro: alle competenze – sottolineo – non alle conoscenze. Queste ultime, infatti, in un mondo in vorticosa trasformazione divengono rapidamente obsolete e devono essere continuamente aggiornate attraverso l’utilizzo di capacità trasversali: capacità di adattamento, di problem solving, di innovazione creativa. Tali competenze potranno essere sviluppate attraverso una maggiore commistione e compenetrazione entro i curricula accademici di discipline scientifiche e umanistiche, che faccia da contraltare alla necessaria differenziazione degli studi (professionalizzanti o di ricerca, sul modello dei sistemi universitari tedesco o finlandese) e alla progressiva specializzazione dei contenuti.
- una seria e onesta rivalutazione della questione inerente il valore legale dei titoli di studio: non possiamo negare, infatti, il dato secondo il quale quello che è stato uno strumento impareggiabile di emancipazione sociale e di allargamento delle opportunità nell’Italia in crescita del dopoguerra, oggi si stia rivelando un dispositivo di livellamento verso il basso degli studenti italiani, svolgendo per lo più il compito di mezzo per il sostentamento e la proliferazione di università dal valore discutibile e, spesso, discusso.
È il caso, eclatante, delle Università telematiche, oramai divenute un vero e proprio scandalo nel sistema universitario italiano: nate per favorire l’universalizzazione del diritto allo studio attraverso l’implementazione di piattaforme di e-learning, esse si sono rapidamente trasformate – con poche, pochissime eccezioni – in una vera e propria caricatura dell’accademia. Se le missioni di quest’ultima sono il perpetuamento delle conoscenze attraverso la didattica e il progresso degli studi attraverso la ricerca, infatti, apparirà evidente come entrambe siano drasticamente compromesse dalla mancanza di un rapporto diretto tra maestri e allievi, dall’assenza di una comunità accademica riconoscibile e dall’assenza di strutture e attrezzature preposte alla ricerca scientifica; se poi consideriamo quella che è oggi unanimemente riconosciuta come la “terza missione” dell’Università – ovvero, accanto a didattica e ricerca, il ruolo di volano per lo sviluppo culturale ed economico dei territori – apparirà in tutta la sua forza il contrasto stridente generato dalla non appartenenza e identità territoriale di questi Atenei. Una situazione la cui insostenibilità è riconosciuta de facto dallo stesso Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, che, dopo aver vietato la costituzione di nuove Università telematiche non statali a partire dall’a.a. 2010-2011 e almeno fino all’a.a. 2015-2015, l’anno scorso ha scelto di bocciare tutte le richieste di accreditamento di nuovi corsi presentati dagli Atenei telematici, con l’eccezione di due su un totale di quarantanove. Ora, i titoli di studio rilasciati da queste Università – rispetto a cui una Commissione istituita ad hoc dal MIUR con DM 429 del 3 giugno 2013 sottolinea (a p.13 del Relazione conclusiva) l’assenza di criteri determinati e chiari per la valutazione qualitativa dell’offerta formativa, specie con riferimento agli sbocchi professionali; l’assenza di regolamentazione rigida in merito all’attivazione dei corsi di laurea; l’assenza di regolamentazione in materia di istituzione di Scuole di Dottorato e di modalità di svolgimento dell’attività di ricerca da parte dei docenti incardinati; la mancanza assoluta di definizione di parametri per la valutazione dell’attività di ricerca; nonché l’assenza di vincoli previsti per il reclutamento di docenti e ricercatori universitari, in particolare in merito all’assunzione per chiamata diretta (e relativo eventuale passaggio nelle Università statali) – sono del tutto equivalenti a una Laurea rilasciata dal Politecnico di Torino, dalla Normale di Pisa, dalla Bocconi di Milano, da La Sapienza di Roma o last but not list, dall’Università IULM di Milano, consentendo e privilegiando l’accesso, ad esempio, all’Amministrazione Pubblica. Niente di più incompatibile, insomma, con la crescita delle qualifiche e delle competenze tanto necessaria alla sopravvivenza del Paese in un’economia basata sull’innovazione; niente di più contrastante con una società che si vorrebbe – e lo grida da mattina a sera - meritocratica; paradossalmente, niente di più favorevole al perpetuarsi della discrezionalità nelle assunzioni e negli scatti di carriera, ove l’arbitrio – anziché comportare un’onesta assunzione di responsabilità da parte del valutatore – potrà sempre essere mascherato dalla conformità dei titoli in possesso del candidato prescelto. Nel tentativo oneroso, dunque, di disegnare oggi una strategia per l’economia e il lavoro in Italia entro un quadro mondiale in movimento, la mia risposta non può che essere quella già delineata nei più recenti documenti di programmazione sociale ed economica dell’Unione Europea, in primis la Strategia di Lisbona e la sua naturale prosecuzione, Europa 2020: il potenziamento del ruolo del sistema universitario nazionale di qualità, attraverso una sua radicale e coraggiosa trasformazione, e il più generale investimento nella cultura come motore del nostro sviluppo economico, sociale e, permettetemi, civile.

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