Economia delle migrazioni e Pil italiano: binomio imprescindibile
Intervista Al Prof. Enzo Rossi
Maria Vittoria Bardini
Giornalista
Per avere un quadro sull’economia delle migrazioni abbiamo chiesto al Professor Enzo Rossi, docente di Economia delle Migrazioni e coordinatore scientifico del Master MEDIM (Master su Economia, Diritto e Intercultura delle Migrazioni) all’Università di Roma “Tor Vergata”, di spiegarci come sono cambiati nel tempo i flussi e quali sono i maggiori, quanto incidono sul Pil italiano. In qualità di esperto gli abbiamo domandato, inoltre, se per chi chiede la cittadinanza italiana il microcredito può essere uno strumento utile, visto che in passato è stato già utilizzato da alcune categorie di migranti.
Come sono cambiati i flussi migratori nel tempo?
Le migrazioni hanno sempre costituito una parte cospicua delle attività umane e recentemente le tendenze mostrano un aumento. Gli ultimi dati disponibili mostrano che, alla metà del 2020, i migranti nel mondo sono 281 milioni di individui, che costituiscono il 3,6% della popolazione mondiale (7,8 miliardi di abitanti). Il numero di questi migranti è cresciuto in un anno di ben 9 milioni. La tendenza è notevole: considerando che nell’anno 2000 i migranti erano 173 milioni, in vent’anni c’è stata una crescita di 2,4% all’anno in media. In particolare, guardando ai migranti forzati (impropriamente chiamati “profughi”) osserviamo che nello stesso periodo il loro numero è passato da circa 23 milioni a oltre 82 milioni di persone. Iniziano, inoltre, ad avere un peso rilevante i cosiddetti “migranti ambientali”, provocati dai cambiamenti climatici, che nel 2020 sono stati oltre 30 milioni di individui.
Quali sono i flussi migratori maggiori che arrivano in Italia?
In Italia la principale comunità di residenti stranieri proviene dalla Romania con oltre un milione di persone. Subito dopo si collocano migranti provenienti da Paesi non comunitari: nell’ordine abbiamo l’Albania e il Marocco, con più di 400 mila persone, e poi a seguire l’Ucraina le Filippine e via dicendo.
Parlando di economia delle migrazioni, quanto incidono sul Pil italiano?
Secondo l’ultimo rapporto della Fondazione Moressa (del 2020) il contributo degli stranieri al PIL italiano è del 9,5%. È anche importante considerare il saldo dei loro conti con lo stato. Infatti i lavoratori stranieri pagano tasse e contributi in una misura maggiore delle prestazioni (sanitarie, assistenziali e pensionistiche) che essi ricevono. Il centro di ricerca Idos ha effettuato un calcolo in cui stima che le entrate che gli stranieri hanno assicurato all’erario pubblico (29,25 miliardi di euro tra tasse, contributi ecc.) e le voci in uscita del bilancio statale loro riferite (25,25 miliardi di euro tra prestazioni sociali e sanitarie, istruzione, accoglienza ecc.) abbiano generato un effetto positivo, per le casse dello Stato, di 4 miliardi di euro. In particolare è positivo il saldo previdenziale: i dati della Fondazione Moressa mostrano che oltre mezzo milione di pensioni erogate dall’Inps sono pagate dai contributi netti dei lavoratori stranieri.
Secondo lei il microcredito può essere uno strumento utile di sostentamento per i migranti che richiedono la cittadinanza italiana? Può essere anche un buono strumento di integrazione?
Il microcredito nasce naturalmente come forma di inclusione di soggetti che sono economicamente fragili e socialmente esclusi, quindi è chiaro che, per quello che riguarda i migranti, svolge un ruolo particolare. Noi non abbiamo statistiche dettagliate sul microcredito che ci permettano di distinguere fra l’erogazione ai migranti e l’erogazione a italiani, abbiamo soltanto dati aggregati. Ad esempio l’ENM (Ente Nazionale del Microcredito) pubblica dati secondo i quali si riscontra negli ultimi anni un incremento delle richieste di microcredito del 230%, raggiungendo 3000 domande finanziate per 60 milioni di euro. Per quanto riguarda i migranti sicuramente il microcredito svolge un importante ruolo di inclusione. I migranti in maniera rilevante presentano una tendenza a tentare il lavoro in proprio. Le imprese gestite da lavoratori di origine straniera, alla fine del 2020, sono salite a oltre 600.000 con un incremento rispetto al 2019, seguendo un trend che era ormai consolidato già dagli anni precedenti. L’incremento delle imprese migranti nel 2020 rispetto al 2011 è ad esempio di circa il 39%. Le imprese migranti, inoltre, sono soprattutto ditte individuali, con un tasso di crescita costante mediamente negli ultimi anni pari al 23%. Sono molte anche le società di persone. Quello che possiamo osservare, nella mancanza di dati sopra richiamata, è che l’impresa migrante trae particolare vantaggio dal microcredito, perché opera in posizioni di debolezza sociale e questo pone dei freni alla sua crescita. Di solito ha un raggio d’azione più ridotto, una dimensione di impresa particolarmente piccola e una limitata adesione alle organizzazioni di categoria. Dobbiamo però osservare che il microcredito, così come viene attuato in Italia e in generale nei Paesi sviluppati, ha caratteristiche diverse da quelle originarie ideate da Yunus, che lo rendevano peculiare come sostegno alla crescita economica nei Paesi di origine.
Le esperienze maturate in Africa e, soprattutto in Bangladesh, mostrano che il microcredito viene lì erogato a tassi particolarmente bassi, in quanto le garanzie vengono offerte da strutture dei gruppi sociali, che nelle circostanze possono essere la famiglia, il clan, il villaggio. Qui il tasso di insolvenza è bassissimo e il microcredito può autosostenersi con un turnover dei fondi elevato. Tutto questo evidentemente è difficilmente replicabile per i migranti che sono radicati in un Paese sviluppato di destinazione.
La coesione di gruppo è spesso dispersa da politiche di integrazione sfavorevoli, quali l’assimilazionismo o il funzionalismo. In Italia è presente un approccio interculturale, meno distruttivo delle identità migranti, ma in ogni caso risulta difficile per comunità di migranti, che sono alle volte frammentate nell’ambito delle comunità ospitanti, offrire quella solidarietà di gruppo che costituisce l’essenza stessa del microcredito. Per questo motivo più che di microcredito si può parlare di crediti molto piccoli, erogati a condizioni di mercato. La presenza di alcune iniziative di microcredito rivolte ai migranti (ad esempio rifugiati) con finanziamenti pubblici o privati di tipo umanitario sicuramente è uno strumento di inclusione, ma non è autosostenibile e, quindi, destinato ad agire su piccola scala.
Se dovesse spiegare cosa è la finanza etica? E la finanza di impatto?
Questa domanda cade a proposito, perché è in svolgimento proprio in questi giorni la cosiddetta settimana SRI (Sustainable Responsible Investment) che è giunta alla sua decima edizione, in cui si parla appunto di uno dei particolari aspetti della finanza etica. La finanza etica nasce circa 10 anni fa con l’idea, all’epoca pionieristica, che la finanza dovesse perseguire, non solo l’obiettivo del profitto, ma anche obiettivi etici. Nascono una serie di iniziative, in Italia, ad esempio, nasce la Banca Etica, al fine di promuovere la cosiddetta Finanza sostenibile.
La finanza etica prevede il coinvolgimento degli investitori in maniera attiva per quello che riguarda le attività etiche e l’investimento nelle comunità, generalmente in quelle legate ai settori non profit. Inoltre la finanza etica si ripropone di selezionare le imprese in cui fondi di investimento Sicav ed altri gestori di attività finanziarie possono esplicare la loro opera. In particolare prevede una attività di screening sia negativo che positivo nei confronti delle aziende. Fra i fattori negativi che implicano un non coinvolgimento delle imprese nei finanziamenti ricordiamo quelle imprese che operano in settori quali il tabacco, l’alcool, il gioco d’azzardo, le forniture militari, le produzioni pornografiche, il maltrattamento di animali, la collaborazione con regimi non democratici e in generale la mancanza di tutela dei diritti umani. Fra i criteri positivi rientrano tutte quelle imprese che partecipano ad iniziative ambientali o sulla qualità dei prodotti e dei servizi, sull’impegno sociale e sulle pari opportunità e via dicendo. In quest’ambito si parla di investimenti sostenibili e responsabili (SRI appunto), che sono quei processi di investimento che combinano gli obiettivi finanziari di un investitore con l’attenzione alle questioni ambientali sociali e di governo societario (in inglese ESG: Environmental Social and Governance). Nell’ambito della finanza etica si distinguono i cosiddetti investimenti di impatto, i quali sono investimenti specifici progettati per creare un impatto ambientale o sociale misurabile, mantenendo però un ritorno finanziario positivo per l’investitore. In questa categoria rientrano attività quali la microfinanza, l’investimento in comunità, il social housing, i fondi per l’imprenditorialità, l’investimento in energie rinnovabili, eccetera.
La distinzione con gli SRI, che costituiscono un approccio più generale, è che in questa categoria di investimenti l’impatto ha una intenzionalità proattiva, in cui lo scopo sociale contemperato al ritorno economico fa parte dell’obiettivo dell’investimento. Quindi la differenza è che, mentre la finanza etica in generale e l’approccio SRI, si occupano di imprese che svolgono un’attività “tradizionale”, la finanza di impatto si rivolge a imprese che hanno come obiettivo il miglioramento sociale e ambientale in modo specifico. Per operare in maniera corretta tutta la finanza etica si è dotata del cosiddetto Rating Etico, che si affianca a quello che è il Rating Finanziario tradizionale, con la nascita di agenzie specifiche a livello nazionale e internazionale. A questo si aggiungono i nuovi criteri di classificazione o di tassonomia delle imprese stabiliti dall’Europa e che entreranno in vigore dal prossimo gennaio 2022. Esistono comunque anche a livello mondiale alcuni indici etici che permettono di discriminare l’impresa etica dall’impresa non-etica o anche, per meglio dire, dalla impresa che effettua quello che viene chiamato Green Social Washing, cioè far apparire come sostenibili attività che in realtà non lo sono. Quello che è interessante e in qualche modo sorprendente è che i fondi di investimento, che essendo etici, si riferiscono gli obiettivi ESG mostrano rendimenti superiori a quelli dei fondi tradizionali. Nel 2020 il rendimento a livello mondiale dei fondi azionari SRI è stato del 20,48% contro il 16,50% di quelli tradizionali. Le spiegazioni sono complesse, ma sicuramente devono tener conto della percezione da parte degli investitori in generale che le attività etiche, in particolare quelle ambientali e quelle collegate ai diritti umani, sono destinate ad avere un grosso ruolo nell’economia del futuro. Inoltre gli obiettivi etici hanno mostrato di essere attrattivi e di essere stabilizzanti in periodi di ricorrenti crisi finanziarie in cui le attività tradizionali sono soggette a oscillazioni dei valori con ritorni medi non sempre stabili nel lungo periodo. Tuttavia, da una recente indagine condotta da PWC, riportata da Il Sole 24 ore, condotta fra investitori istituzionali, emerge che molti gestori, a cominciare dai Fondi comuni, sono pronti a disinvestire dalle attività ESG. La preoccupazione è che i rinvii delle misure da intraprendere per il clima, come emerso dalle recenti conferenze internazionali, possano portare ad una disaffezione da parte degli stakeholder e dei portatori di interessi quali i sottoscrittori di Fondi pensione e le fondazioni, con conseguente deprezzamento delle attività in portafoglio. Come sempre in finanza, sono i fondamentali economici che alla fine guidano le preferenze dei risparmiatori.
Ha delle particolarità da segnalare in quando esperto di economia delle migrazioni? Ha consigli per la gestione delle migrazioni?
Le proiezioni demografiche non lasciano adito a dubbi. In Europa, e in particolare in Italia, i tassi di natalità sono molto bassi e senza un apporto dei migranti porterebbero in pochi decenni praticamente all’estinzione delle nostre popolazioni.
Dall’altro lato è prevista nel Sud del mondo una esplosione demografica non accompagnata da adeguato sviluppo economico, con conseguenti pressioni verso l’Europa e i Paesi sviluppati. Anche i cambiamenti climatici daranno origine a movimenti ingenti di persone verso tali Paesi. La gestione delle migrazioni dovrà equilibrare l’eccedenza di richiesta di afflusso con il fabbisogno di nuovo apporto non solo di lavoro, sia mano d’opera che lavoro qualificato, ma di nuova linfa sociale e culturale nei nostri Paesi. l’Italia e l’Europa al momento stanno reagendo con sbarramenti alle frontiere sia materiali che amministrativi. I concetti di migrante economico e migrante forzato vengono impropriamente confusi e strumentalizzati per respingimenti che sono in contrasto con i principi fondanti dell’Unione Europea e con la stessa Carta Europea dei Diritti Umani (CEDU).
A che punto si trova l’Italia per quanto riguarda le migrazioni? E l’Europa?
In Italia i decreti flussi che in passato regolavano la concessione dei permessi di soggiorno non sono più applicati a causa delle criticità che sono emerse. Secondo il Rapporto della Fondazione Moressa, dal 2011 l’Italia ha di fatto chiuso la porta agli immigrati extra-comunitari in cerca di lavoro, che per entrare in Italia hanno potuto usare solo i ricongiungimenti familiari o le richieste d’asilo. Altri Paesi europei fra cui la Germania stanno cercando di acquisire competenze secondo le esigenze della propria economia. Nonostante i Forum e le Convenzioni internazionali, l’approccio globale dell’Europa al problema delle migrazioni non va oltre la retorica. La prospettiva di aiuti allo sviluppo, soprattutto per i Paesi africani, è gestita politicamente senza una vera visione scientifica del fenomeno.
È dimostrato da studi economici e statistici che gli aiuti allo sviluppo, a parte i problemi di corruzione e di dispersione dei fondi che inficiano la bontà dei risultati, provocano inizialmente un aumento e non una diminuzione dei flussi migratori a causa di una crescita sociale in quei Paesi non equilibrata e della creazione di nuove diseguaglianze. Per questo motivo sembra che manchi una visione veramente chiara su come gestire le migrazioni nel prossimo futuro. Non si esclude la visione pessimistica che l’Europa ricorra a misure drastiche per soddisfare i propri bisogni senza rispettare i principi umanitari che ne costituiscono il fondamento.