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BENEVENTO, MODELLO IN ATTIVO
Tra le Caritas Diocesane che partecipano al progetto Prestito della Speranza, ideato per aiutare le persone in difficoltà ad affrontare necessità impellenti o spese impreviste, c’è la Caritas di Benevento.
Valentina RENZOPAOLI
Ormai da diversi anni ha strutturato sul territorio una rete in grado di accogliere coloro che vogliono rivolgersi ai fondi per il microcredito, come ci spiega il coordinatore Angelo Moretti.
Quali servizi offre in tema di microcredito la Caritas di Benevento?
Insieme alla Conferenza Episcopale Italiana e all’Associazione Bancaria Italiana la Caritas di Benevento è riuscita, all’inizio del 2015, a far ripartire un servizio in cui crediamo molto: il Prestito della Speranza, un fondo di garanzia per le persone che versano in condizioni di vulnerabilità economica e sociale.
Quali sono le condizioni?
Per quanto riguarda il microcredito sociale il fondo prevede l’erogazione di finanziamenti a tassi agevolati per un importo fino a 6mila euro che può essere rinnovato per una sola volta. Mentre per agevolare l’avvio di un’attività o di una microimpresa abbiamo previsto l’erogazione di un importo fino a 25mila euro.
Come è nata l’idea di sviluppare un servizio di credito sociale a favore delle persone che si trovano in difficoltà?
Il primo progetto è nato nel 2008 quando abbiamo deciso di formare, grazie uno specifico corso, un pool di una quindicina di volontari e creare il primo Sportello per il Microcredito sul territorio.
Insieme al Comune di Benevento è nato un Fondo di 50mila € di tipo socio-assistenziale. In tre anni, fino al 2011, siamo riusciti a sostenere dieci famiglie con prestiti da 5mila euro ciascuno.
Ci siamo subito resi conto di quanto fosse importante questo servizio e così nel 2011 con il Centro di Ascolto Diocesano abbiamo dato vita ad un progetto più organizzato e articolato, con l’aiuto di psicologi ed esperti bancari in pensione che sono in grado di dare informazioni tecniche e di supporto.
In questi anni che tipo di persone si sono rivolte al vostro Fondo?
Sono soprattutto persone italiane che hanno perso il lavoro e che all’improvviso si sono trovate a brancolare nel buio. In gergo tecnico si chiamano “soggetti non bancabili”, persone che non hanno la possibilità di chiedere un prestito alle banche e che non riescono ad affrontare le necessità quotidiane oppure spese familiari impreviste.
Cosa rappresenta per loro il Fondo della Speranza?
Davvero una grande possibilità. Molti di loro avevano già provato altre strade, ad esempio rivolgendosi a finanziarie alle quali poi non sono stati in grado di restituire i soldi. E dopo essere stati segnalati per morosità si sono trovati completamente tagliati fuori dal mercato. In questi casi il nostro compito, oltre a risistemare il debito, è stato anche quello di educare all’utilizzo di questi strumenti che spesso nascondono un risvolto molto pericoloso.
Si spieghi meglio
Secondo la nostra esperienza, il bombardamento della pubblicità che esalta il valore delle finanziarie ha causato un vero disastro culturale, generando l’illusione di poter contare su possibilità che invece non sono reali.
Dal 2008 ad oggi qual è stato il periodo più nero?
Il 2014 è stato l’anno più difficile. Fino al 2011 infatti i prestiti che abbiamo erogato sono stati tutti restituiti. Poi c’è stato il crollo: tra il 2012 e il 2014 la solvibilità è drasticamente diminuita. La percentuale delle famiglia che non sono state in grado di restituire il fondo è salito al 50%.
Nella maggior parte dei casi si è trattato di persone che non sono riuscite a rientrare nel circuito professionale. Anche per questo la Caritas di Benevento ha attivato un altro progetto “pilota” che sta dando buoni frutti, è proprio il caso di dire
Di cosa si tratta?
Abbiamo sviluppato un coaching d’impresa per accompagnare persone rimaste senza occupazione lungo un percorso di “agricoltura sociale”. E’ un modo nuovo e diverso di fare credito, attraverso l’affidamento di terreni agricoli che erano rimasti incolti e il comodato d’uso di piccole strutture rurali abbandonate. Gli appezzamenti messi a disposizione, di proprietà della Diocesi ed enti diocesani, danno la possibilità di creare nuove opportunità, posti di lavoro e di insegnare un mestiere.
Quali risultati avete ottenuto fino ad ora?
Abbiamo attivato due fattorie che hanno coinvolto circa dodici persone, e con la collaborazione del Comune di Roccabascerana, in provincia di Avellino, abbiamo rianimato un antico borgo dove ora lavorano altre dieci persone.
Ci sono progetti nel cassetto in collaborazione con l’Ente Nazionale del Microcredito?
Stiamo lavorando insieme. In particolare, l’idea è quella di realizzare un nuovo fondo di garanzia in grado di sviluppare un effetto leva occupazionale su un territorio come quello campano che ha particolarmente bisogno di essere sostenuto.
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BUONA TERRA
Buona perché sfama e perché sa essere etica. Buona perché crea occupazione, perché è terapeutica, generosa, per i suoi prodotti, perché è socialmente inclusiva… ma soprattutto buona perché è madre… e genera la vita!
Alessandro Cardente | capoprogetto de: “La buona terra 2”
L'agricoltura è importante oggi quanto lo è stata nel passato? Dalle statistiche FAO emerge che, all’inizio del nuovo millennio, 2,57 miliardi di persone hanno avuto sussistenza proprio, e soprattutto, grazie all’agricoltura. All’interno di questo dato, sono compresi coloro direttamente occupati nelle stesse attività agricole incluse persone a loro carico; ossia il 42% di tutta la popolazione mondiale. L’agricoltura è il fulcro dell’economia della maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Nel 2001, nei paesi industrializzati, le esportazioni di prodotti agricoli hanno fruttato circa USD 290 miliardi. Nella storia sono rare le nazioni che hanno potuto sperimentare una rapida crescita economica accompagnata da una riduzione della povertà senza fare affidamento, prima o durante questo rapido sviluppo, sull’attività agricola. Alla nostra domanda quindi, possiamo rispondere con certezza: l’agricoltura oggi è importante come nel passato e forse di più. È stato un errore, una distrazione guidata dalla cultura dei sogni e non da quella dei bisogni reali abbandonare nel passato la Terra...ma la sua riscoperta...il bisogno dell’uomo di tornare ad essa, alla madre delle madri, ripensando, rielaborando e riorganizzando la visione sociale, giuridica ed anche letteraria del fenomeno agricolo. Un sentimento che in taluni casi può evolversi se pensiamo al connubio di agricoltura e modernità. La strada tecnologica ed evolutiva può essere lasciata aperta nei confronti della produzione dei prodotti in campo agricolo, ma occorre farlo però, avendo la capacità di non “umiliare” la terra (come già successo nel passato) con l’avidità dell’essere umano; di rispettarla e di comprenderne il valore, non solo economico, ma anche etico e morale e di riconoscerne l’eterna generosità.
La Buona Terra…nasce da questa passione e da questi sentimenti. Un’idea che vede patrocinata la sua nascita dal Senato della Repubblica e fortemente in linea con le indicazioni date da Europa 2020 e, non da meno, da quelle che sono le motivazioni che hanno indotto all’organizzazione dell’Expo. Grazie all’Ente Nazionale per il Microcredito, con il progetto “La Buona Terra”, si avvia quel processo di Finanza Etica anche per i microimprenditori agricoli che vorranno investire il proprio futuro e la propria professionalità nel settore dell’agricoltura sociale generando aggregazione di Microimprese e la riqualificazione e lo sviluppo dei singoli territori nazionali.
Anche grazie, e non da meno, alla partecipazione dei partners nazionali come AIAB, Avviso Pubblico, Idea 2020 – spin off dell’Università della Tuscia e della Fondazione Risorsa Donna, riusciremo a sviluppare capacità e competenze qualificate, fornendo innovazione e qualità. L’accesso alla terra, protagonista indispensabile ma a volte più complicato di quello al credito, potrà anche avvenire attraverso l’assegnazione a bando dei terreni confiscati alle criminalità organizzate e ai terreni pubblici in degrado e abbandonati dalle stesse amministrazioni.
Il Progetto Pilota… in attesa della partecipazione a Expo…è partito nel Lazio e nello specifico nella provincia di Viterbo con l’importante collaborazione della Fondazione Risorsa Donna e la Fondazione CARIVIT. Un territorio questo, di ricca vocazione agricola di qualità che, non a caso, vede la presenza del Bio-Distretto della Via Amerina che ha aderito all’iniziativa dell’ ENM, con le città di Orte, Nepi, Corchiano, Castel Sant’ Elia, Fabbrica di Roma, Faleria, Gallese, Vasanello e del Comune di Civita Castellana che ha pubblicamente proposto la nascita di uno sportello municipale informativo specifico.
La presentazione delle proposte porterà alla selezione e alla valutazione di quelli che potranno essere progetti realizzabili e finanziabili con l’ambizione di poterne presentare alcuni come buone pratiche presso l’importante vetrina internazionale dell’ Expo di Milano. …e sembra…che i giovani agricoltori non abbiano aspettato tempo! Mentre alcuni, hanno riscoperto il valore e l’importanza dell’agricoltura e della terra, altri, i giovani, lo stanno scoprendo con il loro primo approccio… riconvertendo gli equilibri e migliorando sensibilmente la relazione con l’agricoltura sociale di un tempo recente.
Quali orizzonti aiuterà ad aprire Expo e quali iniziative simili riusciranno a ricostruire nuovi percorsi culturali, nuovi modelli sociali più equi nel mondo, non lo so…ma sarebbe già tanto se tutti insieme riuscissimo a comprendere la terra. Perché la terra risveglia e rimette in moto quel processo antico e quel rapporto utile sia dal punto di vista alimentare, ambientale ma anche dal punto di vista occupazionale, d’inclusione e d’integrazione sociale. Proteggere la terra e ciò che ne deriva vuol dire assicurarsi quel patrimonio di tradizioni, di quelle mani dei nostri anziani contadini agricoltori della terra, ma anche autodidatti ingegneri e infallibili geologi del territorio formati dalla loro enorme esperienza, intuito e antica professionalità.
Riconoscere ciò, vuol dire comprendere meglio se stessi e rimettere in moto quel processo utile all’umanità per vivere..... è assurdo aver cercato fuori ciò che l’uomo porta nel suo interiore. Un rapporto profondo e spirituale, gentile e forse sentimentale...una matrice solida e indelebile che esiste da quando esiste l’essere umano. Un rapporto straordinario, tra terra, animali ed esseri umani...forse, semplicemente, geofilosofia della terra!
Carl Gustav Jung affermò: “Colui che guarda fuori sogna… ma chi guarda nel suo interiore, si sveglia!”
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CAPACITY BUILDING
UNA BUONA PRATICA CHE SI SPOSTA A EST
Giovanni Nicola PES | Direttore centro studi e progettazione ENM. Member of the fi-compass expert group on financial instruments – Commissione Europea
Una buona pratica che si sposta a Est
Sulla scorta dei risultati di successo del progetto “Capacity Building sugli strumenti finanziari”, l’Ente nazionale per il Microcredito ha ricevuto, sia in via diretta sia attraverso l’EIPA, manifestazioni di interesse da parte di una pluralità di amministrazioni estere a operare per una gestione efficiente dei fondi europei finalizzati a sostenere l’impresa.
Ecco l’argomento affrontato in questo Focus Europa, illustrando gli strumenti, i prodotti e i Paesi coinvolti, ospitando le testimonianze di due realtà legate ad Area Science Park e alla Regione Friuli Venezia Giulia, con cui l’ENM ha messo a punto una felice e proficua sinergia che sta maturando una capacità di offerta che integra accesso al credito e innovazione.
IL PROGETTO ITALIANO
Il tema della capacity building, ovvero del rafforzamento delle capacità della pubblica amministrazione di programmare, gestire ed implementare le politiche di sviluppo, è stato oggetto di attenzione nazionale ed europea già a partire dalla fine degli anni ’80, quando la tradizionale impostazione top-down della politica regionale, imperniata sui trasferimenti finanziari alle imprese e su programmi gestiti dall’amministrazione centrale, è stata sostituita da un modello di sviluppo regionale di tipo bottom-up. Tale modello, attribuendo alle regioni un ruolo di attore primario per la realizzazione delle politiche, ha evidenziato anche la necessità di avviare, a favore di dirigenti e funzionari regionali, specifici percorsi di formazione e di acquisizione di nuove competenze.
Con specifico riguardo all’implementazione dei programmi di microcredito, l’Italia è stato l’unico paese ad essersi dotato, nel quadro della programmazione 2007-2013, di un progetto complesso di capacity building volto a rafforzare le conoscenze/competenze dei personale direttivo delle regioni Convergenza, con l’obiettivo di accrescere le opportunità occupazionali attraverso l’utilizzo ottimale dei cosiddetti “strumenti finanziari”, la cui importanza è stata poi ampiamente riconosciuta nell’ambito dei regolamenti relativi al nuovo quadro di programmazione comunitaria 2014-2020 (vedi, in particolare, il titolo IV del Regolamento 1303/2013). Tra questi strumenti rientra anche il microcredito, in grado di supportare sia le politiche inclusive ed occupazionali sia quelle volte allo sviluppo del sistema imprenditoriale.
Il progetto “Capacity building sugli strumenti finanziari di microcredito: definizione e sperimentazione di nuove competenze e strumenti per la gestione efficiente ed efficace dei programmi” nasce e si sviluppa nel momento in cui l’Unione Europea mette in campo la nuova strategia per la crescita e lo sviluppo “Europa 2020” e procede alla definizione del nuovo quadro di programmazione 2014-2020. Si tratta, come noto, di un periodo caratterizzato dalla più grave crisi economico-finanziaria che abbia colpito il nostro paese nel secondo dopoguerra e che ha inciso duramente sulla vita quotidiana di persone, famiglie ed imprese, in termini di occupazione e di sopravvivenza delle attività produttive e dei servizi. Ed è anche nella previsione di un periodo prolungato di crisi e di recessione che i diversi livelli di governo -comunitari, nazionali e regionali- hanno ritenuto necessario rafforzare la dimensione sociale delle politiche di sviluppo, definendo nuovi strumenti d’intervento e implementando misure idonee a supportare l’integrazione nel mercato del lavoro dei soggetti a più elevato rischio di esclusione sociale e finanziaria.
Anche in considerazione dell’intensificarsi della stretta creditizia e dei tagli al welfare imposti dagli obiettivi di contenimento del debito pubblico, il microcredito è stato riconosciuto come uno strumento valido per svolgere un ruolo di contrasto agli effetti della crisi, perché in grado di favorire, attraverso il sostegno allo start up d’impresa e all’avvio di lavoro autonomo, l’inserimento lavorativo dei soggetti in condizioni di maggiore svantaggio quali i giovani, le donne, gli over 50 espulsi dal mercato del lavoro, i cassintegrati, gli immigrati e altri soggetti rientranti nelle fasce cosiddette “deboli”.
In tale contesto, l’Ente Nazionale per il Microcredito -sulla base di un Accordo stipulato nel giugno 2012- ha ricevuto mandato dal Dipartimento della Funzione Pubblica di sviluppare il progetto “Capacity building sugli strumenti finanziari di microcredito”, cofinanziato dal FSE nell’ambito del PON Governance e Azioni di Sistema 2007-2013, con una dotazione di 1 milione e 800mila euro. Avviato nel settembre dello stesso anno, il progetto è entrato nel vivo con la stipula di una Dichiarazione d’intenti con la quale le regioni Convergenza (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia) hanno espresso la comune volontà di collaborare per favorire il buon esito del progetto (grafico a fianco).
Occorre sottolineare che il progetto capacity building ha costituito un unicum a livello europeo perché, per la prima volta, si è inteso fornire una risposta diretta e incisiva alle criticità incontrate dalle amministrazioni dell’Obiettivo Convergenza, titolari di Programmi Operativi, nella costruzione, avvio e attuazione degli strumenti finanziari collegati alle tematiche del microcredito e della microfinanza e cofinanziati con le risorse dei fondi strutturali relative al ciclo di programmazione 2014-2020. Si trattava, in particolare, di due ordini di criticità che investono tuttora non solo il nostro Paese ma anche gli altri Stati membri dell’UE e che riguardano il sottoutilizzo dei fondi strutturali destinati alle politiche di sviluppo e di occupazione e la contrazione dell’offerta di credito che, in questi anni di crisi finanziaria, ha fortemente penalizzato il sistema imprenditoriale e soprattutto le imprese di minore dimensione.
Ed è anche per concorrere al superamento di tali criticità che nel corso del progetto è stata predisposta un’offerta formativa con un ventaglio di tools di microcredito in grado di potenziare gli strumenti operativi a disposizione degli amministratori pubblici, rafforzando nel contempo anche le competenze e conoscenze degli stakeholders sui nuovi strumenti di ingegneria finanziaria.
Scopo del progetto era quello di fornire alle Amministrazioni delle regioni Convergenza gli strumenti idonei a rafforzare la propria capacità di governare i processi di programmazione per la costruzione, l’avvio e l’attuazione degli strumenti finanziari di microcredito e microfinanza, cofinanziati dai fondi strutturali nel ciclo di programmazione 2014-2020.
Nella sua fase realizzativa, sviluppatasi nell’arco di più di due anni, il progetto ha non solo conseguito tutti i risultati previsti in relazione ai suddetti obiettivi specifici, ma ha anche posto al centro del dibattito, per la prima volta in Italia, tematiche innovative riguardanti ad esempio i nuovi strumenti finanziari, nella prospettiva di un ampliamento dell’offerta di microcredito e microfinanza delle regioni nel ciclo di programmazione comunitaria 2014-2020.
Nel prospetto che segue viene fornita una rappresentazione sintetica della vasta serie di attività realizzate dal team di progetto, che ha sempre lavorato in stretta sinergia con il Dipartimento della Funzione Pubblica, le Autorità di Gestione e la dirigenza regionale interessata.
Tabella (immagine)
Classificazione servizi “non finanziari”
Fase pre-erogazione Fase post-erogazione
Microcredito imprenditoriale Informazione Mentoring
Orientamento Assistenza tecnica specialistica
Tutoring Formazione
Prevalutazione Tutoraggio
Formazione Monitoraggio
Microcredito sociale Ascolto Formazione
Prevalutazione Accompagnamento
Monitoraggio
Tab/Graf (immagine)
Organizzazioni aderenti alle reti di stakeholders progetto capacity building
Campania Calabria Puglia Sicilia
42 44 8* 30
* Nella regione Puglia, tali organizzazioni hanno integrato una rete regionale di circa 80 soggetti, già costituita dalla regione stessa.
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CARITAS E PRESTITO DELLA SPERANZA
Valentina RENZOPAOLI
Non solo un aiuto concreto per aiutare le persone nel momento del bisogno
per recuperare autonomia economica e autostima sociale: il microcredito va inteso anche come un “dono” dal punto di vista umano, un modo per mettere competenze, conoscenze e tempo a servizio di chi è rimasto solo. Un dono che, nello stesso tempo, deve sviluppare un senso di responsabilità e consapevolezza che consenta a chi lo riceve di riuscire a restituire ciò che gli è stato dato. A spiegarci che cos’è e come funziona il Prestito della Speranza che, dal 2008 ha erogato 26 milioni di crediti a 4.500 famiglie, è Don Andrea La Regina, responsabile dei macro-progetti della Caritas Italiana.
Che cos’é e come nasce il Prestito della Speranza?
Il Prestito della Speranza 3.0 nasce sulla base di precedenti esperienze fatte grazie ad un accordo tra L’Associazione Bancaria Italiana e la Conferenza Episcopale Italiana con le banche che scelgono di partecipare. Il progetto ripartito quest’anno è regolato da una convenzione tra la Cei con Banca Intesa Sanpaolo e prevede un fondo di garanzia di 25 milioni di euro da restituire con tassi agevolati. Questa terza fase vede la collaborazione della Caritas Italiana, delle Caritas Diocesane e di Vobis, associazione di volontari bancari per le iniziative nel sociale. In particolare, la Caritas con i suoi oltre quattromila Centri di Ascolto sparsi sul territorio italiano, ha creato un sistema di collegamento diretto con le persone. Gli operatori volontari, che hanno una formazione pastorale, sono a disposizione per ascoltare chi ha bisogno di una mano o chi vuole realizzare un piccolo sogno imprenditoriale.
Qual è il valore del microcredito?
Il microcredito deve essere uno strumento non solo economico ma anche di incontro tra il capitale sociale ed umano dei volontari e le persone che hanno bisogno di aiuto, secondo una logica del dono. I volontari mettono a disposizione tempo, competenze, conoscenze: un meccanismo che si gioca sulla fiducia. L’accesso al credito infatti deve essere il frutto di un dono ma insieme sviluppare un senso di responsabilità in chi lo riceve. E il dovere della restituzione rappresenta una garanzia per chi viene dopo, affinché altre persone possano usufruire della stessa possibilità. Questo obiettivo si raggiunge attraverso un servizio di tutoraggio che consente alle persone di essere ascoltate e di uscire dalla solitudine.
Qual è il bilancio dei primi mesi di attività?
Dall’inizio di marzo a metà maggio sono state ascoltate più di mille persone. Il bisogno di essere messi in condizione di accedere al credito è ancora molto forte, ma è un percorso che va costruito. Realizzare una vera inclusione umana oltre che sociale e mettere le persone nella condizione di non aver più bisogno di essere aiutati, necessita di un iter complesso.
Qual è il target delle persone che si rivolgono ai vostri Centri di Ascolto per ottenere un prestito?
Nella maggioranza dei casi si tratta di persone che hanno perso il lavoro, che hanno avuto un problema di salute, che vivono una situazione di sovraindebitamento non ancora grave o che, per un evento temporaneo, non sono più riuscite a portare avanti le normali esigenze della famiglia. Parliamo in sostanza di una classe media devastata dalla crisi economica. In molti casi la famiglia non riesce più a pagare l’affitto di una casa o un mutuo o le rate di una finanziaria. In altri casi, non si riescono ad affrontare le spese per la cura degli anziani o per soddisfare le esigenze di familiari portatori di handicap. Con lo Stato sociale praticamente smantellato, questi disagi portano verso una realtà di esclusione sociale.
Quanti sono gli stranieri che hanno chiesto il fondo?
Possiamo dire che si tratta per un 75% di italiani e per il restante 25% di immigrati.
Quali sono le modalità dell’erogazione?
Il credito sociale e per le famiglie disagiate prevede un’erogazione del prestito fino ad un massimo di 7.500 euro, mentre quello per le microimprese raggiunge un importo massimo di 25mila euro. Questa seconda forma di credito è stata erogata perlopiù a giovani sotto i 35 anni che vogliono iniziare un’attività, a realtà cooperative o a piccole società che vogliono rilanciare la propria azienda.
l contatto diretto con la gente vi permette di avere una visione privilegiata della realtà: secondo la vostra percezione, la crisi si sta attenuando oppure no?
Il fatto che in due mesi e mezzo abbiamo avviato oltre mille pratiche già la dice lunga. Un altro dato è rilevante: 117 di queste sono richieste per avviare progetti di microimpresa; una percentuale molto più alta rispetto agli anni precedenti. Molti scommettono su un nuovo lavoro perché la realtà della disoccupazione aumenta ancora invece di diminuire.
Il fatto che però si tenti una nuova strada può essere letto anche come segno di speranza?
La speranza è quella della disperazione, un segnale che la crisi lavorativa è stata gravissima. Con una crescita dello 0,3 del Pil non si può invertire questa tendenza. Credo che ci vorrà ancora parecchio tempo prima di superare la crisi, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto occupazionale.
Papa Francesco ha più volte affermato “Lavoro significa dignità. La disoccupazione genera esclusione sociale”. Perché secondo lei c’è questa attenzione così frequente al tema da parte Sua?
Papa Francesco sottolinea che il lavoro non è solamente uno strumento per produrre reddito e consentire un sostentamento economico. Ma è anche e soprattutto lo strumento attraverso il quale avviene la realizzazione della persona. Il lavoro rappresenta, nella riflessione cristiana, la modalità dell’uomo per collaborare con il disegno della creazione e diventare a immagine e somiglianza di Dio.
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CUCINE SOLARI PER MONT-ORGANISE'
< >Responsabilità ambientale, energie rinnovabili e microcredito, parole chiave del progetto ‘Cucine solari per Mont-Organisé’ di AFNonlus per incrementare lo sviluppo socio-economico della popolazione di Haiti
Andrea TURATTI | Presidente AFNonlus
Per Haiti, una strategia di sviluppo che sia realmente sostenibile non può prescindere dalla risoluzione dei problemi ambientali. Ce lo insegna la situazione socio-economica in cui versa lo Stato con la sua storia fatta di tragedie umanitarie e tumulti politici. Tra i paesi più poveri del mondo, Haiti è oggi sull’orlo del precipizio, ma il ricorso alle energie a impatto zero potrebbe essere il motore per uscire dalla spirale di miseria e decadenza che attanaglia la società e che impedisce di guardare al futuro con ottimismo.
Il 12 gennaio 2010 un terremoto di magnitudo 7.3 colpisce l’entroterra di Haiti, la zona più popolosa del Paese, coinvolgendo circa 3 milioni di persone.1 Oltre 220 mila i morti stimati e un danno economico di 7.804 miliardi di dollari.2 Definito come il più potente che si sia mai abbattuto su Haiti in 200 anni, il sisma ha interessato il centro amministrativo ed economico del Paese, distruggendo le sedi di istituzioni pubbliche e private, partner internazionali e ONG. Sulla scia del disastro, ingenti capitali e aiuti umanitari sono stati riversati sul Paese ma l’inazione del governo, congiuntamente con l’inefficacia di alcune errate misure adottate dalla cooperazione internazionale, non hanno fatto altro che peggiorare la catastrofe. Già prima del disastro Haiti era afflitta da una dilagante miseria, con grandi disuguaglianze sociali, infrastrutture fragili, problemi ambientali, e soprattutto un governo debole. Il disastro ha portato alla luce e amplificato tutte le vulnerabilità e i problemi del Paese.
5 anni dopo il terremoto, il bilancio è ancora negativo: la situazione socio-economica haitiana, preesistente alla tragedia si è cronicizzata in una spirale discendente. Secondo lo Human Development Report dello UNDP3, con riferimento all’IDH (indice di sviluppo umano4), Haiti si è collocata nel 2014 al 168° posto/187 classificandosi come il paese più povero del continente americano e tra i più poveri dell’intero pianeta con circa l’80% di persone che vivono sotto la soglia di povertà.
Oggi Haiti è senza parlamento e il suo presidente, Michel Martelly, accusato di aver bloccato l’avvio delle riforme necessarie alla ripresa politico-economica del Paese, governa per decreto. Ma questo è solo l’ultimo atto di una lotta per il potere che dura ormai da quasi 30 anni e rende gli attori politici incapaci di eleborare una governance globale, un piano strategico di sviluppo sostenibile che venga “dall’interno” e non “dall’alto”, non sia cioè imposto dalla presenza internazionale.
Il principale settore produttivo di Haiti resta, anche dopo i fatti del 2010, l’agricoltura che interessa circa il 70% della popolazione. Diversamente da quanto accade negli altri paesi in via di sviluppo, per gli haitiani l’accesso alla terra non rappresenta un problema: il 93% delle famiglie ha un terreno da coltivare, l’82% ne è proprietario, mentre solo il 7% è senza terra.5 Tuttavia, il settore economico principale del Paese porta il marchio dell’inefficienza della leadership politica. La mancanza di infrastrutture adeguate, le scarse possibilità di accedere al credito, di meccanismi che regolamentino la risoluzione dei contenziosi fondiari, l’impoverimento delle terre, sono conseguenze di direttive politiche inadeguate e insufficienti che hanno contribuito ad ostacolare lo sviluppo rurale. A ciò si è aggiunta anche la massiccia migrazione di profughi dalle città verso le zone rurali del Paese a seguito del terremoto che ha avuto un impatto negativo sulle famiglie legate alla coltivazione della terra. Per sopravvivere, alla popolazione rurale non è rimasto che ricorrere a metodi di sfruttamento del territorio che contribuiscono ad acuire il degrado ambientale.
A partire dal 1992, con il vertice internazionale sul clima di Rio de Janeiro, il Governo ha adottato delle misure per la tutela ambientale che, tuttavia, non hanno portato a risultati rilevanti. Negli ultimi 30 anni, infatti, la copertura forestale si è ridotta al 3.6% del territorio6, mentre, nel 1923, secondo stime della FAO, era del 60%. Questo disastro ambientale è diretta conseguenza della pressione demografica: non solo più del 90% della popolazione utilizza legna come risorsa energetica7, ma negli ultimi anni sono andati rapidamente crescendo le richieste di legno per le costruzioni e lo sfruttamento senza regole della terra per soddisfare i bisogni alimentari. Direttamente connesso al fenomeno della deforestazione è la desertificazione: le riserve acquifere di Haiti stanno andando incontro ad una progressiva diminuzione. L’acqua è inaccessibile al 38% 8della popolazione e l’inquinamento minerale e organico delle falde acquifere sta peggiorando mettendo a rischio la salute della popolazione. Insomma, il Paese è sull’orlo di una crisi ambientale senza precedenti se non si adotta una politica ambientale complessiva che debba però essere parte integrante di una strategia di sviluppo sostenibile che venga “dall’interno”.
Ed è proprio questa la logica che sottende l’intervento che AFNonlus, in collaborazione con l’ENM e il partner haitiano PACNE ONG, intende proporre per iniziare a migliorare le condizioni di vita della popolazione haitiana: la diffusione di un modello di cucina solare tailor made, compatibile cioè con i bisogni sociali, ambientali, climatici e culturali del luogo.
L’analisi dello scenario internazionale, sempre più orientato verso soluzioni “tecnologiche” a impatto zero, ha ispirato l’idea di sostenere Haiti facendo ricorso alle energie rinnovabili e in particolare all’energia solare, che è pulita, facilmente accessibile, e praticamente a costo zero. Non solo gli haitiani sono già abituati a seguire il ciclo solare, ma le “cucine solari a concentrazione” progettate da AFNonlus sono di tecnologia semplice, di facile manutenzione e montaggio e non hanno bisogno di “esperti”: è possibile, infatti, imparare a costruirle con materiali reperiti in loco, abbattendo non solo i costi di un’eventuale spedizione, ma anche del ricorso continuo a personale tecnico qualificato, favorendone, così, la facile diffusione presso la comunità. Va, inoltre, sottolineato che i materiali scelti hanno caratteristiche di sostenibilità e biodegradabilità, e il dispositivo è energeticamente autonomo (non richiede cioè combustibile né attività di accensione) per essere ad impatto zero sull’economia ecologica locale.
Come luogo di sperimentazione dell’intervento AFNonlus ha scelto la comunità di Mont-Organisé, un piccolo comune dell’arrondissement di Ouanaminthe nel dipartimento del Nord-Est, dove opera dal 1985 e dal 2010, congiuntamente con PACNE (ONG locale), per offrire aiuti concreti ai nuclei famigliari esodati a seguito del terremoto, come il sostegno nelle piccole necessità quotidiane, l’avvio di piccole attività agricole per favorire l’autosostentamento, borse di studio universitarie in agronomia e progetti di recupero ambientale e agricolo. Comunità rurale isolata sulle montagne del Nord, priva di elettricità e acqua canalizzata, Mont-Organisé è il perfetto punto di partenza dell’intervento: un ristretto microcosmo fotografia del macrocosmo haitiano in cui è possibile sperimentare e valutare l’impatto sociale del progetto, creare cioè un modello esportabile nell’intero Paese e, successivamente, in tutte le zone del mondo che vivono le stesse criticità.
Con il proposito più ampio di migliorare le condizioni di vita della popolazione di Mont-Organisé, l’obiettivo è da un lato rispondere alle emergenze ambientali, agricole, alimentari (food security), e di approvvigionamento energetico, e dall’altro creare i presupposti e le condizioni per favorire uno sviluppo della microimpresa nel settore delle tecnologie a impatto zero. In questo modo, si verrà a generare un circolo virtuoso che favorirà lo sviluppo socio-economico della comunità.
Anche la scelta di partire dalle 20 scuole che AFNonlus sostiene a Mont-Organisé risponde a un’esigenza precisa, ovvero la consapevolezza che la comprensione da parte delle nuove generazioni dell’importanza delle cucine solari produrrà benefici a lungo termine su tutta la comunità locale e sulle future generazioni nell’ottica di uno sviluppo sostenibile della società che venga “dall’interno”. Destinatari principali dell’intervento sono, dunque, i 5.564 alunni AFNonlus e le loro famiglie. Per la sua attuazione, l’intervento prevede il coinvolgimento degli insegnanti che diventano i primi utilizzatori e conoscitori delle cucine solari. Dopo un periodo di formazione, questi si organizzeranno in pool di formatori con l’obiettivo di trasmettere il know-how, sensibilizzare la comunità circa il food security, l’utilizzo consapevole delle risorse agricole, i benefici sociali, economici e ambientali derivanti dall’introduzione della nuova “tecnologia” e i problemi ambientali legati all’abuso di legna. Si istituirà, poi, una linea di montaggio delle cucine solari in loco e, infine, verranno attivati programmi di microcredito ad hoc.
Per responsabilizzare la popolazione e incoraggiarla ad avere un ruolo attivo nello sviluppo del Paese, si è scelto, fatta eccezione del prototipo, di non donare le cucine solari, ma in collaborazione con l’Ente Nazionale per il Microcredito, attraverso accordi con istituzioni finanziarie locali, di garantire microprestiti di circa 300 dollari agli abitanti di Mont-Organisé per l’acquisto delle cucine solari. Il microcredito è uno strumento cardine per il raggiungimento del macro-obiettivo dell’intervento: il miglioramento delle condizioni di vita della comunità passa attraverso l’inclusione sociale delle categorie più svantaggiate stimolandone l’iniziativa economica e concorrendo alla creazione e alla diffusione di imprenditorialità per la lotta alla povertà. L’obiettivo a lungo termine è quello di avere un impatto reale sull’economia haitiana rendendo il Paese autonomo, indipendente dall’influenza internazionale.
Responsabilità ambientale, energie rinnovabili e microcredito, sono le parole chiave per l’attuazione di strategie di sviluppo sostenibile “dall’interno”, strategie che coinvolgano tutti gli aspetti fondamentali per la crescita di Haiti: economia, tutela dell’ambiente, salute, alimentazione.
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La cucina solare sfrutta due semplici principi della fisica: la concentrazione dei raggi solari, che trasforma l’energia solare in termica e l’accumulo di energia termica grazie ai legami chimico-fisici della materia irradiata. Le cucine solari che AFN intende utilizzare ad Haiti: sono tecnologicamente avanzate ma semplici da costruire; raggiungono i 400°C; mantengono il calore per 25 ore, anche senza irraggiamento solare; non hanno bisogno di stringenti caratteristiche ambientali per essere funzionali; non richiedono un ingente capitale per la loro costruzione; sono di facile diffusione, semplice utilizzo e facile manutenzione; utilizzano materiali biodegradabili per ridurre l’impatto ambientale.
BOX - AFNOnlus ad Haiti
Dal 1985, AFN Onlus s’impegna attraverso il SAD per sostenere l’infanzia svantaggiata ad Haiti aumentando il tasso di scolarizzazione nelle aree rurali e contribuendo allo sviluppo integrale del bambino con percorsi formativi incentrati sui valori universali della cooperazione reciproca. A causa anche del forte analfabetismo (35% della popolazione), infatti, la maggioranza delle persone è rimasta ferma ad una sola economia di sussistenza. La speranza di avviarsi verso un possibile sviluppo è legata alla attivazione, almeno per i bambini, di un inizio di scolarizzazione che consenta in futuro l’apprendimento di un lavoro proficuo.
Secondo la Croce Rossa Internazionale, il terremoto del 12 gennaio 2010 avrebbe coinvolto più di 3 milioni di persone i cui circa 45.000–50.000 sarebbero rimaste uccise. All’indomani della tragedia, afnonlus ha avviato il progetto “Centro accoglienza profughi a Mont-Organisé” in collaborazione con il partner locale Action contre la Pauvreté du Nord Est – PACNE per accogliere i nuclei famigliari provenienti dalle zone più disastrate.
Il progetto ha permesso la costruzione di una struttura sicura e accogliente per offrire aiuti concreti ai nuclei famigliari ospitati e il sostegno nelle piccole necessità quotidiane fino all’avvio di piccole attività agricole per favorire il loro autosostentamento.
< >NOTE
< >1 International Federation of the Red Cross
< >2 Haiti Earthquake PDNA: Assessment of damage, losses, general and sectoral needs
< >3 2014 Human Development Report - Sustaining Human Progress: Reducing Vulnerabilities and Building Resilience (UNDP)
< >4 L’HDI è un indice che misura lo sviluppo umano secondo 3 dimensioni: standard di vita adeguati, durata media della vita, salute e accesso all’istruzione.
< >5 Il contesto macroeconomico e il settore della microfinanza ad Haiti – Caritas 2012
< >6 World Bank Data 2012
< >7 UN FAO Forestry Statistics 2014
< >8 World Bank Data 2014
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DOVE SIAMO, DOVE SI VA
MICROFINANZA PER L'INCLUSIONE SOCIALE
Tiziana LANG | Ricercatrice Isfol - Componente del Comitato di gestione del programma EaSI
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Come ripetutamente evidenziato sulle pagine di questa rivista l’Unione europea, a partire dalla fine degli anni 2000 e con maggiore intensità dall’avvento della crisi economica in poi, ha inteso rispondere con una serie di interventi alla domanda sempre più frequente di microcredito proveniente dalle fasce più vulnerabili della popolazione. Il microcredito è così divenuto un braccio operativo delle politiche per l’inclusione sociale, lavorativa, finanziaria disegnate dalle strategie comunitarie di settore (Europa 2020, SEO, Semestre europeo, Piattaforma contro la povertà e l’emarginazione, Pacchetto investimenti sociali).
Le misure messe in campo dall’Unione europea intervengono selettivamente sulle diverse criticità rilevate nell’accesso alla microfinanza in ciascuno degli ambiti citati. La strategia è stata e, come vedremo, continuerà ad essere di tipo globale: creazione di uno strumento finanziario (Progress Microfinanza
1) che mira a migliorare l’accesso al credito di coloro che non riescono a ottenere prestiti dal mercato del credito tradizionale, avvio di un programma di sostegno allo sviluppo della capacità istituzionale dei soggetti che erogano microfinanza (JASMINE), emanazione di un “Codice di buona condotta per l’erogazione di microcredito” da parte della Direzione impresa e industria della Commissione europea (2011) che stabilisce una serie di standard comuni per migliorare la qualità dei servizi offerti e la sostenibilità dei microcrediti erogati da parte delle istituzioni di microfinanza (MFIs).
Pochi giorni fa è stato pubblicato il Rapporto intermedio di valutazione dello strumento di microfinanza Progress
2. Si ritiene utile riportarne gli elementi salienti e avviare una riflessione sul nuovo strumento che sostituirà Progress Microfinanza a partire dal prossimo anno.
Come noto il Progress Microfinanza è partito circa cinque anni fa e ha potuto contare su un contributo finanziario di 100 milioni di euro tratti dal bilancio dell’Unione e destinati dal Parlamento europeo alla sua attuazione. Grazie al cofinanziamento della BEI il volume totale delle risorse dello strumento ha raggiunto i 203 milioni di euro di cui 180 milioni per gli strumenti finanziari e 23,8 milioni per garanzie per il credito bancario. Lo strumento è gestito dal FEI (Fondo europeo per gli investimenti). Nonostante il Programma Progress si sia già concluso, lo strumento Progress microfinanza cesserà di esistere alla fine del 2016 e la rotatività degli strumenti sarà attiva fino al 2020. Infatti, ai sensi della Decisione istitutiva le restituzioni annue generate dallo strumento finanziario Progress devono essere riassegnate allo stesso strumento per un periodo di 10 anni dall’avvio del Programma, scaduto il quale i ricavi devono rientrare nel bilancio dell’Unione decurtati dei costi di gestione. Le restituzioni e i ricavi generati dalle operazioni avviate con il Progress Microfinanza saranno assegnate allo strumento finanziario dell’Asse Microfinanza e Imprenditorialità Sociale del programma “Occupazione e innovazione sociale (EaSI)” (v. oltre).
Il periodo temporale di attuazione di Progress Microfinanza preso in esame dal valutatore indipendente è quello compreso tra gennaio 2010 e giugno 2013. Lo scopo del rapporto era di valutare l’attuazione, l’efficacia, l’impatto, la complementarietà (con altri fondi e strumenti comunitari), l’efficienza e la sostenibilità dei risultati conseguiti dallo strumento al momento dell’indagine. A causa del periodo troppo breve di operabilità dello strumento (tre anni), il valutatore non è stato in grado di determinare, se non provvisoriamente, l’efficacia, l’impatto e la sostenibilità dello stesso in relazione agli effetti sui beneficiari finali dei microprestiti.
C’è tuttavia da considerare il significativo aumento registrato sia nel numero degli intermediari di microfinanza che hanno aderito al programma sia in quello dei beneficiari finali, che sono quasi raddoppiati. Infatti, a giugno 2013 le istituzioni di microfinanza/banche che avevano aderito al programma erano 28 e a settembre 2014 erano diventate 48; parimenti, i beneficiari che avevano ricevuto un microcredito erano passati da 12.240 nel 2013 a 31.895 nel 2014.
La valutazione ha dovuto tener conto del duplice obiettivo dello strumento Progress: da un lato, l’aumento e il miglioramento dell’offerta di microfinanza nel territorio dell’UE, quindi l’effetto ottenuto sul sistema degli erogatori di microcredito; dall’altro lato, il grado di coinvolgimento e di soddisfazione delle necessità espresse dai beneficiari finali della misura, ossia le persone che desiderano avviare o rafforzare le loro microimprese, o che sono disoccupate o rischiano di perdere il lavoro, o che hanno difficoltà a rientrare nel mercato del lavoro e sono escluse socialmente e in condizione di svantaggio nell’accesso al mercato del credito tradizionale.
I dati su cui si è basato il valutatore indipendente provenivano da: interviste a funzionari e dirigenti della Commissione europea e del FEI, interviste ai 28 intermediari di microfinanza attivi al 30 giugno 2013, un sondaggio telematico rivolto ai beneficiari che avevano ottenuto un microcredito e dei casi di studio in Belgio, Bulgaria, Paesi Bassi, Polonia e Romania (interviste con gli intermediari di microcredito e i beneficiari finali). Il tasso generale di risposta al sondaggio telematico è stato in generale poco elevato (32%), soprattutto a causa della difficoltà di raggiungere tutti i beneficiari, ed è poco affidabile per l’impossibilità di verificare la rappresentatività del campione rispetto alla totalità della popolazione.
Quanto all’efficacia del Progress Microfinanza in relazione al miglioramento dell’accesso al credito da parte dei target group, il Rapporto rileva come il 68% dei microimprenditori intervistati dichiari di aver richiesto un credito per la prima volta e il 56% affermi che sarebbe stato impossibile ottenerne uno alle condizioni offerte dallo strumento europeo di microfinanza. Meno evidente, l’efficacia dello strumento nel raggiungere i beneficiari finali socialmente esclusi o più svantaggiati nel mercato del lavoro: solo il 25% dei soggetti hanno avviato una microimpresa ha dichiarato di essere disoccupato al momento dell’erogazione del credito. Per quanto concerne l’indicatore “rischio di povertà” l’indagine riporta che il 43% dei soggetti intervistati ha dichiarato di percepire un reddito inferiore alla soglia fissata a livello nazionale per avere diritto agli aiuti sociali. Purtroppo, il valutatore indipendente non è riuscito ad ottenere dati affidabili sulle caratteristiche dei beneficiari finali e questo non ha consentito di valutare l’efficacia delle misure rispetto alle condizioni di partenza di coloro che hanno ottenuto un prestito grazie allo strumento Progress.
L’impatto sul sistema degli intermediari che erogano microfinanza è stato molto positivo. La quasi totalità degli intermediari (istituti di credito, istituzioni di microfinanza, fondazioni) non avrebbero mai preso in considerazione l’ipotesi di concedere dei crediti a soggetti appartenenti a categorie definite a rischio, in assenza dei prodotti specificamente avviati grazie alla copertura del Progress Microfinanza. La disponibilità di risorse/finanziamenti ha consentito loro di attuare condizioni di prestito più favorevoli sul microcredito (spesso sotto forma di tassi di interesse più bassi). Inoltre, le procedure per accedere allo strumento e il negoziato con il FEI sono serviti a sviluppare nuove competenze e capacità, soprattutto negli erogatori di microcredito di recente istituzione. Circa la metà degli intermediari (12) ha offerto ai beneficiari finali formazione e/o assistenza nella forma del mentoring.
L’impatto sui beneficiari di microcredito è misurabile, innanzitutto, in base alla quota di persone disoccupate che è riuscita ad avviare una propria attività autonoma o microimprenditoriale – un quarto dei beneficiari intervistati erano disoccupati al momento di richiedere il prestito e la maggioranza di essi ha dichiarato di essere un lavoratore autonomo (auto-impiego) in quanto microimprenditore, all’epoca del sondaggio. Un’altra chiara indicazione dell’impatto dello strumento Progress Microfinanza sulla creazione di nuova occupazione è data dal fatto che le imprese avviate di recente (meno di sei mesi) sono guidate da beneficiari che erano disoccupati al momento di ottenere il microcredito. Anche i casi di studio hanno offerto al valutatore diversi esempi di beneficiari per i quali il microcredito per l’avvio di impresa ha rappresentato l’unica alternativa alla disoccupazione. La sostenibilità di questa nuova “condizione di vita” degli intervistati è stata misurata anche in base all’indicatore “reddito” che nel 50% dei casi è risultato aumentato così come il fatturato, a seguito dell’ottenimento del microprestito. Infine, oltre il 64% degli intervistati aveva ricevuto il microcredito negli ultimi 12 mesi e, come noto, l’effetto “creazione di lavoro” richiede un tempo ben superiore per essere correttamente valutato. Da sottolineare che solo il 4% degli intervistati (pari a 34 persone) ha dichiarato che la propria impresa/attività non era più operativa.
I risultati attesi entro il 2020 per lo strumento di microfinanza Progress sono stati stimati nella capacità di erogazione di almeno 46mila microcrediti per un valore complessivo di 500 milioni di euro. A questa stima, del 2010, si è giunti considerando le risorse investite e un effetto leva 5. Nel momento in cui il Rapporto di valutazione è stato chiuso (giugno 2013) tale effetto era pari a 4,41.
Alcuni dati di attuazione più recenti
A settembre 2014 erano 31.895 i microcrediti concessi per un valore di oltre 280 milioni di euro, a fronte di poco più di 30.473 imprese avviate o rafforzate grazie ai microcrediti Progress.
I settori che hanno ricevuto la maggior parte degli aiuti di microcredito sono quelli del commercio all’ingrosso e al dettaglio, dell’agricoltura e della meccanica e riparazione auto.
Il 61% delle persone che hanno ottenuto il microprestito Progress sono uscite dalla condizione di disoccupazione o di inattività (e, quindi, sono state socialmente incluse), e sono divenute esse stesse “creatrici” di nuova occupazione. Sono stati più di 47mila i lavoratori svantaggiati assunti dalle nuove (micro)-imprese.
Tra i beneficiari finali dello strumento la percentuale di donne non supera il 36% ed è rimasta stabile per tutto il periodo considerato (2010-2014). Il 20% degli stessi beneficiari non ha studiato o possiede solo un livello di istruzione primaria (erano il 7% nel 2013). Solo il 6% dei beneficiari è rappresentato da giovani di età inferiore ai 25 anni e il 10.3% da persone con più di 55 anni. Sembrerebbe pertanto che lo strumento sia maggiormente rispondente alle necessità delle persone adulte, degli uomini e dei disoccupati di età inferiore ai 55 anni.
Il 40% circa degli intermediari di microcredito offrono servizi completi di accompagnamento (mentoring) ai loro clienti, il 41% servizi di mentoring di base, mentre il 20% non fornisce alcuna forma di accompagnamento ai beneficiari finali. Questo impegno degli intermediari di microfinanza sull’accompagnamento assume un particolare rilievo, soprattutto, in relazione al basso tasso di mortalità registrato tra le imprese nate con i microcrediti del Progress, che si ferma al 2,3% (in Italia il tasso di mortalità d’impresa è superiore al 7,5%). Se i servizi di mentoring per un periodo medio-lungo all’avvio di impresa ottengono l’effetto di aumentare il tasso di sopravvivenza, allora è da considerare come molto positiva la presenza nel nuovo programma “Occupazione e innovazione sociale (EaSI)” di specifici finanziamenti rivolti al consolidamento della capacità istituzionale delle istituzioni di microfinanza.
I paesi membri che hanno saputo utilizzare al meglio lo strumento di microfinanza Progress, in quanto hanno ottenuto la quota maggiore di supporto finanziario per i beneficiari finali, sono la Francia, la Romania, i Paesi Bassi e la Polonia.
Quali prospettive
Dal Rapporto di valutazione intermedia e dai dati forniti dalla Commissione è possibile trarre alcune conclusioni e indicazioni per il prossimo futuro.
1. Lo strumento di microfinanza Progress sembrerebbe essere riuscito solo in parte a raggiungere i target più vulnerabili e quelli che presentano caratteristiche peculiari (donne, giovani, over 55). Nell’ottica della complementarietà con le attività finanziate con il contributo degli altri fondi comunitari (ESIF) sarebbe utile invitare gli Stati membri a porre particolare attenzione a questi target, dedicando loro attività mirate sui propri territori a valere sia sul FSE (priorità “imprenditorialità sociale ed economia sociale per l’occupazione”) sia sul FESR (priorità “sostegno alle imprese sociali”). In relazione al target giovani u.25 la Garanzia per i Giovani potrebbe riuscire ad ottenere migliori risultati grazie agli strumenti finanziari che gli Stati membri stanno avviando nell’ambito delle misure della Iniziativa per l’occupazione dei giovani (YEI) a favore dei giovani Neet iscritti alla Garanzia.
2. L’obiettivo del sostegno all’economia sociale che non si è concretizzato nel programma Progress (come evidenziato dal valutatore indipendente) dovrebbe essere maggiormente e più facilmente perseguibile nell’ambito del nuovo programma EaSI che comprende una misura specifica dedicata al sostegno all’impresa sociale. L’intento è di favorire lo sviluppo del mercato dell’investimento sociale e di facilitare l’accesso al credito per le imprese sociali attraverso strumenti di equity, semi-equity, prestiti e garanzie per un valore massimo di 500mila euro destinati alle imprese sociali che presentano un fatturato annuo non superiore a 30 milioni di euro e che non si configurano quali imprese d’investimento collettivo. L’Asse dedicato nel Programma e le risorse vincolate a questo obiettivo (circa 90 milioni di euro) dovrebbero garantire un impatto discreto sul sistema dell’economia sociale, in particolare in quelle realtà meno strutturate, che ancora dipendono quasi totalmente da risorse pubbliche e che hanno dimostrato buone potenzialità di crescita favorendo nuova e sostenibile occupazione.
3. Considerando i settori economici ai quali sono andati il maggior numero di finanziamenti del Progress Microcredito, sarebbe opportuno sviluppare attraverso l’Asse Microfinanza e impresa sociale del programma EaSI il sostegno sia all’agricoltura di produzione e trasformazione (priorità microcredito) sia all’agricoltura sociale (priorità impresa sociale). L’effetto trascinamento di EXPO 2015 dovrebbe essere colto dagli intermediari che saranno autorizzati dal FEI ad erogare i microfinanziamenti di EaSI, i quali, oltre ad essere esaminati per l’adeguamento delle proprie strutture e prodotti finanziari al “Codice di buona condotta per l’erogazione di microcredito”, dovranno anche dimostrare di voler “mettere sul mercato” prodotti microfinanziari adeguati, efficaci e sostenibili nel medio e lungo periodo.
< >NOTE
< >1 Decisione 283/2010/EU che istituisce lo strumenti di Microfinanza Progress.
< >2 Interim evaluation of the European Progress Microfinance facility. Final Report, European Union, 2015. Pubblicato sul sito della Commissione il 4 maggio 2015.
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ECONOMIA ALTERNATIVA
< >Che cosa avranno in comune una capra, una spazzola per i capelli, una vettura, delle sementi, dei mattoni, un chioschetto in legno e una macchina da cucire?
Romina GOBBO | giornalista freelance, più volte inviata in aree di crisi e Paesi in via di sviluppo
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Che restituiscono dignità personale e autostima. Allora ben venga “l’economia alternativa”, per chi, a causa dell’impossibilità di presentare garanzie, non può accedere al finanziamento bancario. Benvenuti nel mondo del microcredito, che offre opportunità e stimola le potenzialità produttive e commerciali. Là dove le opportunità mancano, una capra può essere il viatico per riprendere in mano la propria vita e dare un futuro ai figli.
La capra è latte, capretti e sterco. Latte per i figli denutriti, ma anche prodotto da vendere; capretti, da donare ad altre donne bisognose della comunità, per alimentare un circolo economico virtuoso; sterco, da usare come combustibile, per riscaldare le gelide notti afghane. Dal 2002, a consegnare personalmente le capre nei quartieri più poveri di Kabul, ma anche nei villaggi rurali, in quelli più impervi, a oltre 2.000 metri d’altezza, proprio posti “da capre”, ci va Carla Dazzi, responsabile di “Una capra per le donne afghane”, un progetto della onlus bellunese “Insieme si può”, realizzato in collaborazione con il Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) e le partner in loco: Hawka (Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan) e Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan).
Sempre puntuale, Carla, anche nei luoghi più a rischio, come Arghandai, nella provincia di Kandahar, ex roccaforte dei talebani, e anche nei momenti di maggior tensione. «Allora bisogna consegnare e scappare». “Beneficiarie privilegiate” sono le vedove. Hanno perso il marito durante i vari conflitti, oppure per l’esplosione degli Ied (Improvised Explosive Devices), gli ordigni rudimentali, che tanto piacciono agli insorgenti, e che tengono con il fiato sospeso militari e civili.
«Le vedove sono le più reiette della società, è necessario aiutarle nell’acquisizione di una piccola autonomia economica - spiega la Dazzi -. Portiamo le capre, perché sono tra i pochi animali in grado di sopravvivere in quelle terre aride e stremate da una guerra senza fine. Non c’è niente di più bello che vedere la felicità negli occhi di queste donne, mentre ricevono un dono, per noi insignificante, ma per loro straordinario».
L’autosufficienza economica è il primo passo verso il riscatto sociale delle donne, soprattutto nei Paesi dove hanno sempre contato poco. E la voglia di riscatto è la spinta per la riuscita.
Maty, 58 anni, tre figli, ma una grande famiglia allargata di 40 persone, una tipica African family, è una delle donne inserite nel progetto “Village Saving and Loans Association” (VSLA) di Plan Italia, in Senegal, nel villaggio di Cherif Lo, nella regione di Thies.
Maty è un’imprenditrice “multitasking”: si occupa di pastorizia, agricoltura e, grazie all’acquisto di una vettura, trasporto pubblico. Il tutto è iniziato grazie ad un prestito di 1.000 dollari. Una cifra interessante, considerando che a certe latitudini già 50 o 100 euro fanno la differenza. Maty aveva già le attività, ma il credito le ha permesso di implementarle e, soprattutto, migliorarne la redditività, grazie anche alla formazione, parte fondamentale del progetto. «Uso una pressa a freddo per produrre olio di arachidi, tengo quello che mi serve, il resto lo vendo. La polpa di arachidi rimasta è cibo per i miei animali, così risparmio». Non c’è spreco, né dispendio di denaro. «Si chiama value chain, catena di valore, una parola che ho imparato durante la formazione», spiega soddisfatta Maty.
In Senegal, Plan Italia ha sostenuto la creazione di 657 gruppi, di cui fanno parte 1.763 donne, in 146 villaggi, nell’area arida e secca compresa fra Saint Louis (capoluogo del Paese prima dell’attuale Dakar), Thies e Kaolack. «Il progetto VSLA - spiega Insa Gassama, project manager di Plan Senegal per la microfinanza - contribuisce anche a cambiamenti di strategia, in termini di una migliore pianificazione finanziaria. Nei nostri corsi, educhiamo proprio a questo. Le persone acquisiscono tutti gli strumenti per poter avviare progetti dai risultati sicuri. Per lo più, i prestiti vengono erogati ad un gruppo, i cui membri sviluppano fiducia e solidarietà nei confronti l’uno dell’altro. Più tutti sono regolari nei pagamenti delle rate, più il sistema funziona e il gruppo può continuare nella propria attività senza difficoltà». Il “metodo Plan” significa anche condivisione della conoscenza. Il piccolo villaggio di Guelakh, nel nord del Senegal, ad una ventina di chilometri da Saint Louis, ne è un esempio. Quando Plan è arrivata in queste terre, ne ha capito subito le potenzialità, rendendosi però anche conto delle grosse difficoltà, come la scarsità d’acqua. L’approccio integrato - che ha combinato miglioramenti infrastrutturali con investimenti in capitale umano - ha portato questo villaggio, non solo sulla strada dello sviluppo, ma anche a porsi al servizio di altri villaggi vicini, alla ricerca di un futuro migliore. È nata pure “Saving and Loan Association”, che fornisce prestiti fino a 25mila franchi sefa (circa 38 euro) per sei mesi, senza interessi, per aiutare i piccoli imprenditori, e le attività si sono moltiplicate e diversificate. Oggi a Guelakh arrivano giovani da fuori, per imparare le basi della meccanica, la falegnameria, il cucito ed il commercio.
«La mia vita è totalmente cambiata - conclude Maty - quando, durante una sessione formativa, intitolata “Modello di imprenditorialità”, ho ricevuto una scheda con il disegno di un’automobile; riguardava il business dei trasporti. L’idea di acquistare un veicolo per farne un’attività commerciale, non mi era mai venuta, perché mi sembrava impossibile da realizzare. Ma quel giorno, mi sono detta: “Perché no?”».
I progetti di microfinanza devono essere contestualizzati e, naturalmente, in accordo alle leggi del Paese. Ecco perché in questo periodo il microcredito in Burkina Faso, del Movimento Shalom di San Miniato (Pisa) è in stand by, in attesa del nuovo agreement con il Ministero dell’economia, dopo una recente revisione legislativa. Procedono invece i progetti in Senegal e Uganda. Dal 2010, quando Shalom ha avviato l’iniziativa, nei tre Paesi interessati, sono state raggiunte 1.600 donne (699 solo in Senegal), che rimangono le beneficiarie privilegiate, anche qui per lo più riunite in cooperative o gruppi formali, che garantiscono trasparenza e tempestività. «Viene stilata una successione temporale, pertanto chi è in lista d’attesa si premura di “stimolare” i predecessori alla restituzione del debito, in una sorta di autocontrollo interno - spiega il referente Stefano Torre - così facendo, i debiti vengono saldati in 12/15 mesi. Alla quota capitale, viene aggiunta una piccola percentuale di interesse, in modo da generare utili per la copertura delle spese di gestione del progetto stesso».
In Senegal, la referente Shalom è Fatou Kebe, felice dei successi ottenuti con il microcredito. «C’è chi ha aperto una sartoria, e confeziona anche abiti da sposa, ma anche chi ha aperto un negozio di alimentari, e poi abbiamo aiutato ad avviare molte attività agricole». Con Fatou, percorriamo le strade di Dakar, per visitare i vari progetti, fino ad arrivare alla grande fiera agricola, dove mi presenta orgogliosa le “sue donne imprenditrici”, che espongono i loro prodotti.
Alle ugandesi le idee non mancano. Così, grazie al microcredito, sono sorti saloni di parrucchiere, attività di produzione e vendita di carbone, ma anche di alimentari, attività agricole e di ristorazione, nonché negozi di abiti. Qui alla capra si preferisce la mucca, ma l’utilizzo è lo stesso: latte e carne per sé e per la vendita. E, se tutto va per il verso giusto, si parte con un animale e si realizza un allevamento. Un “giro d’affari” che si vede dalle case: il fango lascia il posto a mattoni e lamiere. È evidente che lo sviluppo di un Paese è direttamente proporzionale alla sua stabilità politica. Ed ecco perché Burkina, Senegal e Uganda hanno grandi potenzialità.
Si rivolge invece a sostenere visite mediche e spese sanitarie il progetto di microcredito proposto dal Vis, Volontariato internazionale per lo sviluppo (che si ispira a san Giovanni Bosco) in Bangladesh, nell’area di Utrail, distretto di Netrokona, una delle zone più indigenti del Paese. L’intervento finora ha coinvolto 198 famiglie, ciascuna delle quali contribuisce, mensilmente, in base al proprio reddito, alla costituzione di un fondo, del quale potranno beneficiare quanti avranno bisogno di cure. Tale prestito viene poi gradualmente restituito secondo un programma personalizzato, a seconda della situazione economica. Finora il tasso di restituzione è stato del 98%. Un ottimo risultato, conseguenza anche del pieno coinvolgimento e della fattiva partecipazione delle famiglie beneficiarie, sia nella fase di ideazione che di implementazione. “Lavorare con” è la ricetta per la sostenibilità dei progetti, oggi una filosofia quasi ovvia, ma nel recente passato era il “sistema assistenziale-caritativo” ad essere ampiamente praticato da onlus e organizzazioni governative e non. Il Bangladesh, poi, ha una marcia in più, visto che il microcredito è nato proprio lì, grazie all’idea illuminata dell’economista e banchiere locale, Muhammad Yunus, che nel 2006 gli ha valso il Nobel per la pace.
Vendita di abiti usati e di pesci essiccati, bancarelle di frutta e verdura, ma anche di polli, piccole botteghe di sartoria, laboratori di intaglio del legno, produzione di ciabatte e souvenir. Tutte attività che possono essere avviate tramite Karibuni onlus, che ha ideato “Obiettivo lavoro”, su suggerimento della diocesi di Malindi, in Kenya. Ai parroci il compito di organizzare nelle varie comunità dei comitati, anche interreligiosi, allo scopo di individuare famiglie interessate ad aprire botteghe artigianali e commerciali, che diano garanzia di serietà e affidabilità nella restituzione del credito, dando priorità ad attività femminili. Un vero contratto d’onore e di fiducia tra la famiglia bisognosa e la diocesi, che funge da ente erogatore.
Ma non è solo una questione economica, ne sono convinti alla Fondazione Pangea onlus, che ha programmi di microfinanza in Afghanistan, Nepal e India. “A strumenti prettamente finanziari - si legge nel sito - affianchiamo sempre servizi non finanziari di formazione tecnica legata alle attività di imprenditoria, gestione del credito e raccolta del risparmio e, oltre a essi, strumenti che rafforzino nelle donne le capacità di leadership, l’autostima, la consapevolezza dei propri diritti, della propria salute; ogni programma nasce da un confronto con le donne delle comunità presso le quali si va a operare; ogni microcredito è concesso sulla base di regole trasparenti tra Pangea e la richiedente”. Sono le donne le protagoniste del microcredito, perché sono considerate più virtuose - da loro dipende la vita dei figli, e lo sanno bene - e anche perché molti padri, mariti e fratelli spesso sono emigrati. Oggi, dunque, empowerment, inteso come capacità di compiere le proprie scelte e perseguire obiettivi personali, è parola nota a tutte le latitudini, però in alcune la strada per arrivarci è ancora impervia.
Ma la strada alle donne africane - abituate da sempre a percorrere chilometri per andare a prendere l’acqua - non ha mai fatto paura.
Sembra di vederle, avvolte in tessuti colorati, con il loro portamento da modelle, aiutate nella postura da grandi ceste in equilibrio sulla testa. Camminano, scandendo i passi, quasi danzando, ogni tanto intonano un canto tradizionale, mentre si avviano chi alla bancarella, chi al negozio, chi nei campi a seminare... Sarà un’altra giornata dura. Ma quando il lavoro c’è, la vita può cambiare. Quello che non cambia in Africa sono i ritmi. Il sole scende e una coltre scura avvolge le attività diurne. È il momento del riposo. Ma prima c’è ancora un po’ di tempo, magari per un “sabar”, una festa improvvisata davanti a casa, per ringraziare a passi di danza delle opportunità insperate.
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ASSOCIAZIONI DI CUI SI PARLA< >
www.365giorni.org/< >
https://plan-international.org/where-we-work/africa/senegal< >
www.movimento-shalom.org/< >
www.karibuni.org/< >
www.volint.it/vis/< >
www.pangeaonlus.org/
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EDUCARE ALLA FINANZA
Francesco Verbaro | Presidente Formatep
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< >Una sfida per le istituzioni, un dovere verso le nuove generazioni
La crisi che dal 2008 si è abbattuta con forza sull’economia mondiale ha imposto la necessità di ricercare nuove soluzioni, strategie e contestualmente metodi innovativi di intervento per tentare di arginarne le conseguenze e rilanciare la crescita e la competitività a livello globale.
Molto spesso però è difficile conoscere e capire i variegati strumenti messi a disposizione dai governi, dalle autorità finanziarie e dagli istituti di credito, rendendo ancor più incerto e complesso il percorso di scelta degli strumenti più appropriati per poter far fronte alle proprie esigenze.
Proprio in virtù della ormai diffusa consapevolezza delle criticità evidenziate derivanti dalla somma di più ostacoli quali gli effetti della crisi, la difficoltà di accesso al credito e la scarsa conoscenza coniugata alla disinformazione circa gli strumenti di aiuto, si sta sempre più diffondendo la convinzione che sia indispensabile educare non solo all’imprenditorialità ma anche alla finanza estendendo, soprattutto tra i giovani, la cultura economica.
Secondo i recenti dati emersi dall’ultima indagine in materia economico-finanziaria-assicurativa promossa dall’OCSE, l’organismo internazionale che finora ha dedicato maggiore attenzione al tema dell’educazione finanziaria, è ancora insufficiente il livello di riferimento per le competenze di alfabetizzazione finanziaria -soprattutto in Italia - e ciò genera inevitabili ripercussioni sull’economia di un Paese in cui i cittadini non sanno scegliere gli strumenti finanziari adeguati in modo né oculato né tempestivo.
Inoltre, dato l’aumento della segmentazione e la complessità di tali servizi (Conto Corrente, Bancomat e Carta di Credito, Mutuo, Prestito Personale, RC Auto, RC Capofamiglia, Polizza vita e infortuni, Polizza malattia, Risparmio/Investimento) è necessario ideare e implementare specifici programmi di formazione per i docenti affinché i giovani vengano coinvolti in maniera pro-attiva promuovendo politiche di educazione finanziaria volte a migliorare la tutela dei consumatori nei mercati finanziari complessi e spesso irresponsabili, poiché continuano a non fornire in maniera adeguata le informazioni circa i rischi connaturati ai prodotti offerti.
Emerge dunque una vera e propria contraddizione tanto più se si considera l’importanza della cultura finanziaria indispensabile per il buon andamento dell’economia globale e la crescita economica di ogni Paese che necessita dell’azione sinergica di tutti i protagonisti del sistema economico: Enti regolatori, industria bancaria e finanziaria, media, sistema scolastico e associazioni di consumatori che dovrebbero focalizzare la loro attività sulla creazione di un network per la diffusione di informazioni, istruzioni e spiegazioni per poter assumere decisioni.
In un contesto globalizzato per potersi districare in un mercato multiforme come quello dei servizi finanziari, l’alfabetizzazione dei risparmiatori è il punto da cui partire affinché questi siano in grado di gestire le proprie risorse acquisendo una migliore conoscenza e dunque una maggiore consapevolezza e responsabilizzazione e divenire effettivamente parte integrante dei processi economici.
I giovani e in primis i loro docenti, unici veri deputati all’educazione e alla formazione che, data la trasformazione del mercato del lavoro dovrà essere sempre più specializzata e professionalizzante, devono avvicinarsi con sempre più slancio ed interesse agli argomenti di attualità che non possono prescindere dall’economia, tematica e problematica costantemente presente.
Apprendere e padroneggiare le nozioni indispensabili per l’analisi e la comprensione delle dinamiche economiche per saper gestire il proprio futuro dovrà essere un obiettivo da perseguire grazie alla collaborazione e alla concertazione di tutti gli elementi della società che, in tandem con gli operatori del settore, dovranno sviluppare una cultura finanziaria non solo generale ma che sia anche coerente con la specifica situazione di ciascun paese, delle diverse fasce di popolazione/consumatori interessate e delle possibili forme di coinvolgimento.
Allargando l’orizzonte di indagine, occorre citare insieme all’attività svolta dall’OCSE che ha promosso la creazione di un network (International Network on Financial Education, INFE) di esperti a livello globale che ha l’obiettivo di definire le priorità in materia e agevolare la diffusione delle best practices in materia di educazione finanziaria, anche quella fortemente sostenuta dalla Commissione Europea sin dal 2007.
Alla fine del 2007, è stata infatti emanata una specifica Comunicazione contenente i principi base per la realizzazione di programmi di financial education mediante il coordinamento tra gli operatori del settore su base nazionale, per ottenere una chiara definizione dei ruoli, facilitare lo scambio di esperienze, razionalizzare le risorse e definire le priorità.
A livello europeo è stato altresì costituito, nell’ottobre 2008, un gruppo di esperti in materia di educazione finanziaria (Expert Group on Financial Education – EGFE), che fino al 2010 si è riunito periodicamente con l’intento di analizzare le varie strategie di sviluppo dei programmi di educazione finanziaria, non solo incoraggiando la cooperazione tra il settore pubblico e privato al fine di favorire una migliore realizzazione, ma anche sponsorizzando le iniziative governative o private, organizzando conferenze sul tema per valorizzare e dare visibilità alla questione, pubblicare un database di tutti i programmi formativi europei per facilitare scambi di informazioni, ricerche e materiali, estendere il programma di educazione finanziaria messo a punto dalla Commissione, DOLCETA (Development of On Line Consumer Education Tools for Adults), corredandolo con strumenti didattici per i docenti delle scuole.
Emerge chiaramente che l’obiettivo degli organismi internazionali e delle istituzioni europee è quello di migliorare il livello di alfabetizzazione finanziaria e promuovere il consumo responsabile dei prodotti finanziari, ma ciò non potrà mai realmente attuarsi se contestualmente all’educazione finanziaria non viene analizzata una questione correlata rilanciando il dibattito sul tema dell’accesso da parte del pubblico ai servizi bancari di base (financial inclusion), con l’obiettivo di garantire a tutti i cittadini e i residenti nell’area euro l’accesso a tali servizi.
Il tema della “esclusione finanziaria” fa riferimento alla difficoltà di accesso a prodotti o servizi finanziari da parte di soggetti a basso reddito o con una difficile storia creditizia che si auto-escludono ancor prima che vengano esclusi/emarginati da parte del sistema finanziario, mentre una formazione capillare e diffusa produrrebbe certamente effetti positivi anche sul piano sociale, in termini di integrazione della popolazione e, in particolare, delle fasce economicamente più deboli.
Naturalmente la sola educazione finanziaria non può ritenersi sufficiente se non è accompagnata da una legislazione adeguata che tuteli il consumatore da frodi e pratiche ingannevoli, e proprio in riferimento a quest’ultimo aspetto, è intervenuto il Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) che, pur avendo riconosciuto lo sforzo congiunto dei vari organismi e istituzioni, ha comunque continuato a invitare il settore finanziario ad applicare correttamente la nuova normativa in materia di trasparenza e a ricorrere all’autoregolamentazione per favorire delle prassi adeguate e oneste, agevolando l’accesso a prodotti finanziari trasparenti.
E’ dunque evidente l’impegno a tutti i livelli di governance mondiale che dovrà essere sostenuto partendo “dal basso” cominciando proprio a rafforzare la “confidenzialità” dei cittadini in generale e dei giovani con i temi economici e finanziari e, al contempo, potenziare le capacità delle imprese di fronteggiare le esigenze di liquidità e di individuare modalità innovative ed efficaci per finanziare il proprio business.
Inoltre, implementare programmi di formazione che puntino a sviluppare capabilities finanziarie avrà ricadute positive anche sul versante dell’offerta di nuove opportunità di lavoro e della crescita professionale sotto molteplici profili grazie alla valorizzazione delle potenzialità creative dei giovani, alla creazione di professionisti per lo sviluppo di settori strategici dell’economia locale, e al rafforzamento delle competenze dei dipendenti della PA relativamente alle materie economiche e finanziarie.
L’Ente nazionale per il microcredito che opera per la promozione degli strumenti di microcredito e degli strumenti di ingegneria finanziaria in favore dei soggetti non bancabili è consapevole che la “non bancabilità” deriva spesso da una scarsa conoscenza degli strumenti e delle regole che governano il credito e la finanza.
Un’azione di prevenzione della non bancabilità quindi passa attraverso una educazione e formazione obbligatoria in materia di finanza che investa i giovani e i meno giovani.
Naturalmente lo stesso settore finanziario, gli operatori e gli intermediari dovranno impegnarsi attivamente nella doppia azione «micro finanza ed educazione», nonché nell’agevolare l’accesso a servizi finanziari di base data la difficoltà all’accesso al credito da parte dei giovani che invece, se adeguatamente educati, sapranno autonomamente utilizzare al meglio gli strumenti finanziari e dunque prevenire problemi come la non bancabilità.
Chi promuove strumenti come il microcredito sa che il ricorso di soggetti deboli a strumenti di aiuto deriva spesso da un precedente cattivo utilizzo dei servizi e da una scarsa cultura sul credito, sulle regole e sui prodotti finanziari, ed anche in virtù di questa considerazione è fortemente diffusa la convinzione che l’educazione finanziaria vada introdotta come materia obbligatoria nei programmi di studio del sistema di istruzione e in una linea di continuità nei programmi di qualificazione e riconversione professionale dei lavoratori.
L’ENM, anche attraverso i propri sportelli nell’ambito del progetto Micro work, cercherà di favorire la formazione e l’informazione presso i target adulti della popolazione e cercherà di svolgere un ruolo di stimolo, in particolare nei confronti delle istituzioni formative per promuovere l’educazione finanziaria.
L’esclusione sociale si previene con la formazione. Educare alla finanza si rivela quindi una sfida per le istituzioni e un dovere verso le nuove generazioni.
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FATTORIE SOCIALI - RIPENSARE L'AGRICOLTURA
DAI UN PESCE A UN UOMO E LO NUTRIRAI PER UN GIORNO; INSEGNAGLI A PESCARE E LO NUTRIRAI PER TUTTA LA VITA". CONFUCIO
Marco Berardo Di Stefano | Presidente della Rete delle fattorie sociali e titolare della Fattoria biosolidale del Circeo
Se l’autore di questa frase fosse vissuto oggi, avrebbe parlato di agricoltura sociale. In questo caso la parola “sociale” significa “solidarietà” e non “assistenzialismo”. Si è in presenza di realtà che coinvolgono nella propria attività agricola soggetti svantaggiati (come, ad esempio, persone disabili, pazienti psichiatrici, ex detenuti, vittime della tratta, ex tossicodipendenti, rifugiati politici, ecc.), attraverso l’inclusione lavorativa; realtà che puntano all’autosostenibilità economica grazie a dei modelli commerciali che le permettano di essere competitive sul mercato.
Dieci anni fa iniziava l’avventura della Rete Fattorie Sociali; nel 2005 gli operatori di agricoltura sociale sentirono il bisogno di mettersi in rete per poter meglio far conoscere al paese e alle istituzioni le incredibili opportunità offerte dalle fattorie sociali. In questi anni molta strada è stata fatta; oggi in Italia è in discussione una legge in Parlamento sull’agricoltura sociale e in Europa c’è grande attenzione a questo tema.
Nel decennale della fondazione della Rete Fattorie Sociali, sarà inoltre attivato presso l’Università di Roma Tor Vergata, un Master sull’agricoltura sociale. Il Master, progettato in collaborazione tra la Rete Fattorie Sociali, l’Associazione Oasi e le strutture universitarie, ha lo scopo di formare gli operatori agricoli e sociali alla creazione e gestione di progetti di agricoltura sociale.
Il Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE), nell’ambito di un suo parere sull’agricoltura sociale (2012) l’ha definita come “un insieme di attività intese ad agevolare l’inserimento sociale, che impiegano risorse agricole, sia vegetali che animali, al fine di creare prestazioni sociali nelle aree rurali o periurbane”, distinguendo quattro aree: terapeutico-riabilitativa; inclusione lavorativa di soggetti deboli; didattico-educativa; assistenza alla persona.
L’agricoltura sociale ha una molteplice valenza: innanzitutto opportunità per soggetti deboli di usufruire dei benefici sulla salute psichica e fisica propri del contesto rurale, opportunità di ulteriore reddito per gli agricoltori, attivazione di forme diversificate e spesso più economiche di erogazione dei servizi sociali. Infatti il miglioramento della salute psicofisica di una persona che le permetta di uscire da una situazione di assistenzialismo puro, con tutte le spese che questo comporta come, ad esempio, le pensioni sociali, le rette dei centri diurni, l’accompagno, ecc., e di diventare soggetto attivo della società attraverso il lavoro, è fonte di grande risparmio per le Istituzioni.
Per questo, favorire lo sviluppo dell’agricoltura sociale nel nostro paese rappresenta un obiettivo non solo morale ma anche economico. Permette di creare rapporti nuovi fra aziende agricole, consumatori (filiere corte) e istituzioni sociali, sanitarie e scolastiche, ponendosi come una innovazione sociale a forte valenza territoriale. L’agricoltura sociale è infatti un potente fattore di sviluppo territoriale in grado di valorizzare gli asset locali e di costituire un nuovo approccio sostenibile per rivitalizzare le aree rurali coerente con la strategia di Europa 2020.
Per questi motivi l’agricoltura sociale si è sviluppata un po’ dovunque in Europa con un numero crescente di iniziative con molte similitudini ma anche grandi differenze. Tre sono i modelli principali: il modello “istituzionale” con prevalenza di istituzioni pubbliche rispetto alle iniziative private (Germania, Francia); il modello “privato” basato su iniziative private (Olanda e Fiandre con le care farms che dietro corrispettivo offrono servizi ai disabili); il modello “misto” dell’Italia dove, con la chiusura dei manicomi negli anni ’70, i soggetti psichiatrici sono stati presi in carico dalle cooperative sociali. A queste, negli anni 2000, si sono affiancate anche iniziative di aziende agricole profit.
Sebbene il numero di fattorie sociali sia crescente, esse sono ancora un fenomeno minoritario che non supera l’1% del totale delle aziende agricole europee. È peraltro crescente l’interesse dell’UE per l’agricoltura sociale: la Commissione ha infatti avviato diverse iniziative specifiche (Azione Cost 866, Progetto Sofar, Rete Europea per lo Sviluppo Rurale) al fine di mettere in contatto i diversi stakeholders e di favorire la conoscenza e la diffusione del fenomeno.
Carente è peraltro l’integrazione fra le istituzioni pubbliche, sia a livello UE che nei singoli paesi, nonché la connessione fra le politiche coinvolte dall’agricoltura sociale. Manca infatti un quadro giuridico in grado di favorirne lo sviluppo, aspetto che è stato sottolineato dal Comitato Economico e Sociale UE individuando nel nuovo ciclo di programmazione dei Fondi Strutturali 2014-2020 il luogo ove attivare nuove forme di integrazione.
La legge in discussione nel nostro Parlamento individua per agricoltura sociale le attività esercitate dagli impenditori agricoli e dalle cooperative sociali.
Iniziative di agricoltura sociale si sono sviluppate anche in altri contesti (orti terapeutici presso ospedali o centri diurni, attività agricole presso istituzioni carcerarie o enti del terzo settore, reti di orti urbani). In complesso si stimano in circa 2000 i progetti oggi attivi in Italia, numero in costante crescita anche per la graduale emersione di esperienze prima non conosciute. Queste iniziative hanno molte caratteristiche comuni:sviluppo dal basso con approccio “bottom-up”; forte motivazione degli operatori; apertura al territorio; attuazione contestuale di altre forme di multifunzionalità; metodi di coltivazione biologica e capital saving.
Una delle caratteristiche fondamentali del fenomeno è la multidisciplinarietà in quanto viene coinvolta una vasta gamma di attività: agricole, sociali, sanitarie, del lavoro, educative, della giustizia, ecc. E in questo senso le associazioni specifiche dell’AS svolgono una azione di ponte tra le diverse aree facilitando la comprensione reciproca. Lo stesso non avviene purtroppo per le istituzioni pubbliche che operano a compartimenti stagni se non addirittura in contraddizione fra loro.
Accade così che la politica agricola definisce agricoltura sociale “azione chiave” da sostenere nell’ambito delle politiche di sviluppo rurale cofinanziate dall’UE e finanzia lo start-up di fattorie sociali, mentre il Ministero della Salute esclude l’agricoltura sociale dalle attività finanziabili dal Servizio Sanitario Nazionale non essendoci a suo parere sufficienti prove scientifiche della loro efficacia terapeutica. Tuttavia si moltiplicano a livello locale queste esperienze che vedono coinvolti i diversi attori (agricoltori, cooperative sociali, ASL, Servizi Sociali).
Diversa la situazione in altri settori: la normativa scolastica consente percorsi attivabili in aziende agricole per l’inserimento di alunni con difficoltà sociali o di apprendimento; infine la normativa sui beni confiscati alla mafia consente di destinare tali beni (che comprendono molti terreni agricoli) per scopi di utilità sociale.
In assenza di una normativa nazionale diverse Regioni si sono dotate di leggi specifiche (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Friuli VG, Liguria, Marche, Molise, Sicilia, Toscana) mentre Lazio, Lombardia, Emilia Romagna, Umbria e Sardegna hanno provvedimenti in corso di definizione.
Una particolare rilevanza per l’agricoltura sociale è rivestita dai Fondi UE (Fondo Sociale Europeo; Fondo Europeo di Sviluppo Regionale; Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale), principalmente attraverso l’Asse Inclusione sociale del FSE e le misure di diversificazione della attività agricole dello Sviluppo Rurale.
I regolamenti comunitari relativi al nuovo ciclo di programmazione 2014-2020 prevedono rispetto al passato un migliore coordinamento fra i vari Fondi e a tal scopo definiscono un “Quadro Strategico Comune” (QSC) valido per tutti gli Stati membri, ciascuno dei quali provvede poi a dotarsi di un proprio “Accordo di partenariato” nel quale definire gli obiettivi dei diversi fondi e le modalità della loro interazione. La logica della programmazione territoriale (“Approccio Leader”) è estesa a tutti i fondi in una visione “place based” dello sviluppo locale con la possibilità di attivare pacchetti plurifondo nei quali far rientrare programmi di agricoltura sociale per il miglioramento dei servizi alla popolazione nelle aree rurali.
Nell’ottobre 2014 la Commissione UE ha approvato l’accordo di partenariato italiano che conferma il ruolo positivo che l’agricoltura sociale può svolgere per lo sviluppo delle aree rurali. Sono ora in corso di approvazione i programmi regionali (uno per ciascun Fondo) nei quali si può peraltro rilevare sia una relativa modesta incidenza dell’agricoltura sociale, sia, in generale, una scarsa coordinazione fra i diversi Fondi a dispetto di quanto previsto dalla normativa comunitaria.
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FIDUCIA ALLE PMI
MICROFINANZA E SOSTEGNO DELL'UE ALLE MICROIMPRESE (AGRICOLE)
Tiziana LANG | Ricercatrice Isfol - Componente del Comitato di gestione del programma EaSI< >
Gli strumenti finanziari promossi dall’Unione europea a sostegno delle micro, piccole e medie imprese si caratterizzano in base ai programmi che li finanziano: di rafforzamento e sviluppo, di innovazione e ricerca, di nascita e promozione sociale.
Le micro e pmi europee possono quindi contare su più interlocutori e su numerosi strumenti di ingegneria finanziaria per ottenere prestiti e incentivi di entità estremamente variabile (da poche migliaia di euro a centinaia di milioni). A titolo esemplificativo le imprese che sono sostenute o avviate attraverso il programma COSME (che mira a facilitare l’accesso al credito per le PMI europee) possono avere fino a 150.000 euro di finanziamento in garanzie e controgaranzie, oppure usufruire di appositi strumenti di equity per l’espansione delle proprie attività. Le imprese innovative, invece, possono trovare le risorse per lo start up o lo sviluppo di attività di ricerca - anche in partenariato con università e altri centri di ricerca che puntano all’innovazione - nell’ambito del Programma Horizon 2020 (iniziativa “InnovFin-EU Finance for Innovators”). I finanziamenti per le microimprese che favoriscono l’inclusione sociale e finanziaria dei loro creatori o dipendenti rientrano invece tra le risorse che i Fondi SIE (in particolare il Fondo sociale europeo) e il programma EaSI 2014-2020 destinano al rafforzamento dell’economia sociale e all’autoimpiego per la creazione di nuova occupazione.
Purtroppo, è ancora poco approfondito lo studio degli effetti sui beneficiari finali, i (micro-) imprenditori, dei finanziamenti e microprestiti ricevuti dall’UE nel periodo di programmazione 2007-2013. La conoscenza di tali effetti potrebbe servire a migliorare gli strumenti finanziari dei prossimi sei anni dal punto di vista dell’orientamento alle necessità reali dei beneficiari finali (per settore produttivo e dimensione d’impresa) e al contempo per favorire la razionalizzazione degli investimenti dell’UE evitando sovrapposizioni inutili degli strumenti finanziari dai diversi Programmi.
La Commissione europea, invero, ha realizzato alcune raccolte di buone pratiche sull’avvio e consolidamento di attività d’impresa (micro e PMI) derivati dall’offerta di strumenti d’ingegneria finanziaria co-finanziati con fondi dell’Unione europea. Inoltre, con cadenza annuale o pluriennale sono prodotti i dovuti rapporti di monitoraggio e valutazione dei citati strumenti che risultano lacunosi sul punto in questione, in quanto spesso non registrano le opinioni e i risultati conseguiti dai (micro-) imprenditori a causa delle difficoltà che gli esperti dichiarano di riscontrare nel raggiungere i beneficiari finali per condurre le necessarie interviste.
Uno dei settori produttivi su cui sarebbe opportuno concentrare, a parere di chi scrive, l’attenzione della Commissione è l’agricoltura poiché dal Rapporto sull’implementazione dello strumento Progress di microfinanza - 2013, pubblicato a ottobre 2014, è il secondo settore economico più finanziato (21%) dopo il commercio (31%). I beneficiari di questi due settori superano il 50% del totale dei beneficiari dello strumento Progress nel 2013 (oltre 20.000), v. grafico tratto dal Rapporto della Commissione. Sono pertanto 4000 i micro-imprenditori agricoli che sono stati aiutati a far partire o consolidare le proprie attività rurali provenendo dalla condizione di disoccupati o finanziariamente esclusi a causa della loro incapacità di fornire garanzie reali alle banche e altre istituzioni che operano nel mercato del credito tradizionale. L’invito alla Commissione europea è di realizzare quanto prima uno studio su questi microimprenditori agricoli, per capirne le peculiarità e la capacità di evolversi verso dimensioni d’impresa maggiori, quanto a produzione e a risorse umane impegnate nell’attività.
A titolo esemplificativo si riportano di seguito alcuni esempi, tratti dai rapporti e pubblicazioni della Commissione europea, di attività agricole avviate grazie al Progress Microfinanza e agli aiuti alle micro e PMI dell’attuale Direzione generale mercato interno, industria, imprenditorialità e PMI (ex Impresa e industria).
Grafico
Bulgaria - Ampliamento di attività e assunzione di lavoratori svantaggiati
Il caso di un coltivatore di ortaggi bulgaro di 23 anni che dopo aver costruito una nuova serra intendeva ampliarla per iniziare a coltivare più tipi di vegetali. Non riusciva, tuttavia, a trovare una banca disponibile a erogargli un prestito a causa della sua difficoltà di dimostrare il suo reddito reale. Grazie all’organizzazione Mikrofond, autorizzata a operare nell’ambito del programma Progress microfinanza in Bulgaria, il giovane agricoltore è riuscito a ottenere i 1.150 euro necessari a comprare sementi, fertilizzanti, pesticidi e a finanziare l’ingrandimento della sua serra. Inoltre, grazie al carico di lavoro supplementare dovuto all’ampliamento della serra, l’agricoltore assume stagionalmente alcuni lavoratori della comunità rom locale, disoccupati da lungo tempo, che in questo modo riescono a integrarsi meglio nel villaggio di Kovachite. Il giovane agricoltore, con un passato di disoccupazione, ha ora un lavoro stabile e redditizio, e non sarà costretto a lasciare il suo paese di nascita rimanendo vicino alla famiglia.
Irlanda - Accesso al credito per un supermercato biologico che “vince” in Internet.
L’accesso al credito per una PMI può ancora essere un ostacolo, ma non se si sa dove guardare. Un giovane imprenditore irlandese nel 2008 decide di concretizzare un suo sogno ed aprire un supermercato biologico al 100% a Dublino. Grazie al FEI è riuscito ad accedere a uno dei microcrediti da 25 mila euro destinato alle microimprese con meno di 10 dipendenti ed erogati da un intermediario del FEI in Irlanda (l’Irish microfinance website First-Step). A tre anni di distanza il supermercato era ancora attivo e aveva aumentato la sua clientela grazie anche al sito internet che ha vinto il premio per il miglior sito internet di una piccola impresa in Irlanda sia nel 2010 che nel 2011. Il giovane imprenditore ha dichiarato che “Il miglior investimento per la sua azienda è stato il sito internet, in considerazione del grande ritorno economico che ne è derivato (almeno 25 volte la somma investita)”. In questo senso una start up nata da un micro-prestito è riuscita a competere con le maggiori multinazionali nel settore, essendo diventati leader nel campo dei siti internet tematici. L’azienda ora impiega otto persone, ha un marchio commerciale registrato in tutta Europa e presto dovrebbe espandere l’attività online nel resto del Regno Unito. La chiave del successo, spiega l’imprenditore consiste nell’ “essere in grado di assicurarsi le risorse per gli investimenti successivi (di espansione), mantenere sempre dinamico e innovativo il sito internet ed espandere i prodotti dell’azienda anche in Europa”.
Romania - Nascita di una piccola azienda agricola familiare e creazione di nuovo lavoro
Il caso di un lavoratore rumeno di 41 anni che dopo essere stato licenziato da una compagnia mineraria ha deciso con la moglie di tornare al villaggio natale (Poiana Mare) per avviare una piccola azienda agricola. Nel novembre 2011, al termine della pratica di richiesta del prestito l’organizzazione di microcredito rumena Patria Credit ha erogato loro 5.000 euro per la costruzione di una serra come previsto dal business plan della nuova attività. Dopo solo un mese hanno sottoscritto un contratto per fornire circa 35 tonnellate di ortaggi l’anno al più grande dettagliante «cash & carry» della Romania per la copertura della loro zona. La loro azienda, nata grazie a Progress microfinanza, ha già assunto tre dipendenti a tempo determinato e part time (due giorni alla settimana). Attualmente, nelle 11 serre aziendali riescono a coltivare quantità significative di ortaggi (ad es. 5.000 cetrioli, 3.000 peperoni verdi, 7.000 pomodori, 5.000 cavoli, ecc.) e altre verdure che, oltre al cliente principale, vengono venduti anche nei mercati di due città vicine. Dopo un anno eccezionale nel 2011, Il neo imprenditore ha acquistato una pompa idraulica ad elevata capacità per migliorare l’irrigazione delle serre e la capacità produttiva.
Spagna - Piccola impresa di macchinari per l’agricoltura agguanta il successo internazionale grazie alla Rete europea per l’impresa (EEN)
Una piccola ditta spagnola specializzata in macchinari per l’agricoltura ha rafforzato la sua capacità di vendita internazionale, non attraverso investimenti diretti in risorse finanziarie da parte dell’UE, bensì grazie al supporto strategico dei “cluster dell’innovazione” promossi dalla DG Impresa e Industria della Commissione europea. Il Cluster di Lerida, in Catalogna, fornisce sostegno mirato alle imprese locali grazie al suo team di consulenti, docenti universitari e ingegneri. I consigli degli esperti e la formazione mirata hanno consentito alla piccola impresa agricola di un imprenditore catalano di sviluppare nuovi processi produttivi e nuovi materiali per la costruzione di macchinari. Lo stesso proprietario ha partecipato a diversi gruppi di lavoro e missioni commerciali al fine di ottenere questo salto di qualità dell’azienda. Il risultato di questa intensa attività di studio e progettazione ha comportato l’espansione delle vendite anche al di fuori della Spagna (è presente in 15 paesi dell’America latina, dell’Africa e larghe zone dell’Europa). Il tasso di internazionalizzazione delle imprese che afferiscono al Cluster di Lerida è pari al 55% (27 su 50 imprese). Secondo l’UE i cluster sono dei potenti motori di sviluppo economico e innovazione.
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FONDO DI GARANZIA
Lapo Mazzei
< >Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il decreto sul Microcredito alle Pmi del Ministero dello Sviluppo economico firmato dal Ministro Federica Guidi è legge dello Stato.
Arrivati a questo punto la misura del Microcredito e la procedura di accesso al fondo di garanzia da 40 milioni di euro a disposizione per i soggetti privi di una garanzia reale divengono formalmente operativi. Queste le principali novità del decreto: è stata allargata la platea dei “soggetti finanziatori” abilitati ad operare con il Fondo, il cui elenco sarà reso disponibile sul sito del Fondo stesso.
Il beneficiario finale (lavoratore autonomo o microimprenditore o aspirante tale) potrà effettuare la richiesta di prenotazione delle risorse in modalità telematica ottenendo il conseguente rilascio di ricevuta e codice identificativo.
La sezione del Fondo centrale di garanzia dedicata al microcredito dispone di risorse pari a trenta milioni di euro, stanziate dal Ministero dello sviluppo economico, a cui si aggiungono i versamenti volontari tra cui quelli operati dai parlamentari del gruppo del Movimento 5 Stelle.
Con il Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, l’Unione europea, lo Stato Italiano e l’ente Nazionale per il Microcredito, affiancano le imprese che hanno difficoltà ad accedere al credito bancario perché non dispongono di garanzie reali. La garanzia pubblica, in pratica, sostituisce le normali garanzie richieste per ottenere un finanziamento. La garanzia del Fondo è una agevolazione del Ministero dello sviluppo economico, studiata con la task force dell’ENM.
Il Fondo non interviene direttamente nel rapporto tra banca e impresa. Tassi di interesse, condizioni di rimborso e via di questo passo, sono lasciati alla contrattazione tra le parti. Ma sulla parte garantita dal Fondo non possono essere acquisite garanzie reali, assicurative o bancarie.
Possono essere garantite le imprese che rispettano i parametri dimensionali delle imprese di microcredito stabilite insieme all’ENM nel Testo Unico bancario (art. 111 TUB). L’impresa non può inoltrare la domanda direttamente al Fondo. Deve rivolgersi a una banca per richiedere il finanziamento e, contestualmente, richiedere che sul finanziamento sia acquisita la garanzia diretta. Sarà la banca stessa a occuparsi della domanda. In alternativa, l’impresa si può rivolgere a un Confidi che garantisce l’operazione in prima istanza e richiede la controgaranzia al Fondo.
L’intervento è concesso, fino ad un massimo dell’80% del finanziamento, su tutti i tipi di operazioni sia a breve sia a medio-lungo termine, tanto per liquidità che per investimenti. Il Fondo garantisce a ciascuna impresa un importo massimo, un plafond che può essere utilizzato attraverso una o più operazioni, fino a concorrenza del tetto stabilito, senza un limite al numero di operazioni effettuabili. Il limite si riferisce all’importo garantito, mentre per il finanziamento nel suo complesso non è previsto un tetto massimo.
Un ruolo strategico in questa partita sarà giocato dai servizi aggiuntivi. Chi dovrà assistere l’impresa in tutto il processo di finanziamento, dalla richiesta all’erogazione allo sviluppo del piano imprenditoriale, e dall’operatore del Microcredito, che gestisce operativamente la pratica, ha anche una serie di obblighi relativi alle strategie di sviluppo. In attesa delle istruzioni operative del ministero dello Sviluppo Economico, ultimo passaggio normativo dopo il decreto applicativo dello scorso 18 marzo, il resto il meccanismo di base è noto, e prevede che l’impresa si rivolga ai soggetti indicati per offrire i servizi di tutoraggio, accompagnamento e presentazione delle pratiche.
La vera vittoria del Microcredito come strumento utile allo svilupppo dell’autoimpresa risiede appunto nei servizi aggiuntivi che fanno la differenza riducendo il default del progetto/azienda azzerandolo quasi completamente.
L’operatore del microcredito, quindi la banca o l’intermediario finanziario, riceve il progetto entro cinque giorni lavorativi dalla prenotazione della garanzia, ed entro 60 giorni istruisce la pratica, valuta il progetto, e conclude l’iter.
Le regole prevedono che l’operatore sia tenuto a prestare almeno due dei seguenti servizi:
- supporto alla definizione della strategia di sviluppo del progetto e all’analisi di soluzioni per il miglioramento dello svolgimento dell’attività;
- formazione sulle tecniche di amministrazione dell’impresa (gestione contabile, gestione finanziaria, gestione del personale);
- formazione sull’uso delle tecnologie per la produttività dell’attività;
- supporto alla definizione di prezzi e strategie di vendita, anche effettuando studi di mercato;
- supporto per la soluzione di problemi legali, fiscali e amministrativi e informazioni circa i relativi servizi disponibili sul mercato;
- supporto alla definizione del percorso di inserimento nel mercato del lavoro;
- supporto all’individuazione e diagnosi di eventuali criticità dell’implementazione del progetto.
E’ possibile anche affidare queste attività a soggetti terzi, che si impegnano a riferire periodicamente all’operatore l’andamento della situazione. Per quanto riguarda la garanzia, è concessa dal fondo a titolo gratuito senza che debbano essere assistite da garanzia reale e senza valutazione economico-finanziaria del beneficiario. E’ prevista una misura massima pari all’80% del finanziamento, con copertura fino all’80% dell’esposizione per capitale e interessi.
Le attività finanziabili: acquisto di beni (anche materie prime necessarie alla produzione di beni o servizi e merci destinate alla rivendita), e di servizi strumentali all’attività (compresi i canoni delle operazioni di leasing e il pagamento delle spese per polizze assicurative). Pagamento di corsi di formazione anche di natura universitaria o post-universitaria per agevolare l’inserimento nel mercato del lavoro delle persone fisiche beneficiarie del finanziamento.
Sin qui il quadro normativo. Dal punto di vista pratico occorre fare un ragionamento di sistema.
Il termine “economia” indica un sistema di gestione dei beni per la soddisfazione dei propri bisogni. Nell’immaginario collettivo tale sistema si concretizza nell’attività delle banche che, secondo gli insegnamenti dell’economia moderna, si impegnano in un gioco continuo di bilancio tra attività e passività, in accordo con le regolamentazioni statali. Se non si vuole entrare troppo nel dettaglio, il tutto può essere riassunto in maniera molto semplice: le banche concedono agli utenti dei crediti che dovranno essere ripagati entro un limite di tempo prestabilito e con un determinato tasso d’interesse.
Eppure non può essere ignorato l’aspetto soggettivo intrinseco nelle transazioni economiche, la loro parte più essenziale e allo stesso tempo più labile: la fiducia. Il punto centrale della questione è che, se da una parte riporre fiducia in una banca può essere inevitabile, dall’altra ottenere la fiducia di una banca può rivelarsi impossibile. Molti non hanno la sicurezza economica che gli consente di ottenere un credito - non sarebbero in grado di ripagare la somma richiesta nei tempi prestabiliti - ma spesso sarebbero proprio quelli che ne avrebbero più bisogno per affrancarsi dalla propria povertà. È possibile aiutare chi è più in difficoltà, dargli fiducia tramite un sistema di credito più sostenibile?
Negli ultimi anni, tra entusiasmi e critiche, la risposta a questa domanda è stata offerta dalla diffusione dei cosiddetti programmi di microcredito, che promuovono la cessione di piccole somme a persone economicamente svantaggiate, con condizioni di restituzione più accessibili. Insomma il futuro è small, non certo great. E l’Italia sta andando esattamente in questa direzione, grazie anche al decreto firmato dal ministro Guidi.
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LA CONDIVISIONE COME SOLUZIONE
Romina Gobbo | Giornalista freelance, più volte inviata in aree di crisi e Paesi in via di sviluppo
L’economia di comunione è un modello economico proteso al “dare”, non a tenere tutto per sé». È questa la riflessione che sottende al libro “Dalle settimane sociali al microcredito e all’economia di comunione” (per i tipi di Città Nuova Edizioni), scritto da monsignor Giuseppe Silvestre - docente di teologia all’Istituto teologico calabro S. Pio X e cultore di diritto canonico, ecclesiastico e delle religioni, presso l’Università Magna Grecia di Catanzaro -, assieme a Suzana Mattiello, insegnante di religione e consacrata, del Movimento dei Focolari. Un percorso di 226 pagine per riflettere sul rapporto dell’uomo con i beni e sulla necessità di un’economia sostenibile. Una via possibile, ma che rimette tutti gli attuali parametri in discussione. Il libro analizza con competenza e precisione la situazione attuale e le sue cause, ma non con rassegnazione, anzi, con lo sguardo proteso alla speranza. «Non più la produzione al centro, bensì l’uomo. È da qui che dobbiamo ripartire. Ecco la speranza», dice l’autore. Mons. Silvestre, perché oggi etica ed economia non vanno più insieme? È una storia che viene da lontano. La parola “economia” in greco - come usata da Aristotele per la prima volta - significa “regola dell’amministrazione della casa”, è cioè la regola che amministra la quotidianità di una famiglia. Fino all’Illuminismo, etica ed economia sono andate insieme, quando poi hanno cominciato a formarsi - già a Firenze con i Medici - i banchieri, allora l’etica si è distaccata dall’economia, si è cominciato a pensare solo al profitto, all’accumulo, all’aumento del capitale.
L’illuminismo, poi, ha esasperato tale concezione, e il punto di riferimento è diventato l’individuo. Non si costruiscono più relazioni, perché ciascuno si appropria di quello di cui ha bisogno, senza preoccuparsi degli altri. In un’economia basata sulla produzione e basta, tutto diventa strumento, mezzo; se l’obiettivo è il denaro, anche la persona diventa un mero strumento, Invece, ciascuno deve contribuire al cambiamento, anche rinunciando “a un po’ di proprio”, in favore “del dare”. Il libro presenta le settimane sociali (nate nel 1907 come reazione al non expedit, il divieto papale rivolto ai fedeli di partecipare alla vita politica, e poi diventate un appuntamento fisso a cadenza pluriennale, per guidare l’azione dei cattolici nel mondo del lavoro, ndr) come un’esperienza particolarmente significativa. Con le settimane sociali, la Chiesa italiana vuole raggiungere una maggiore coscientizzazione dei credenti sulla dottrina sociale della Chiesa e, nello stesso tempo, passare il messaggio che la fede va incarnata nella storia, nella vita quotidiana. Il credente non deve solo andare a messa la domenica e compiere i precetti, ma deve impegnarsi a cambiare la storia e le relazioni nella società. Solo passando dall’individualismo alla ricerca del bene collettivo, si può comprendere appieno il messaggio evangelico e arrivare a una più equa redistribuzione delle ricchezze. Già nell’Antico Testamento c’è un richiamo al bene dell’altro, alla garanzia che l’altro possa usufruire del beni della terra. Poi, a partire dalla Rerum Novarum (1891), molte encicliche hanno questi temi, fino ad arrivare alla “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI e all’“Evangelii Gaudium”, di papa Francesco, che sono davvero rivoluzionarie. A mio avviso, riconciliare etica ed economia è possibile proprio a partire dalla dottrina sociale della Chiesa, ma dobbiamo cominciare a chiederci quale sia la nostra condizione di credenti di fronte alle sfide della società attuale. Sfide, che possono essere vinte - come dice la Mattiello, co-autrice del libro - solo se il futuro sarà fondato sulla “cultura dell’incontro e della responsabilità del bene comune”.
Mentre la prima parte del libro è densa di riferimenti teologici e biblici, la seconda si sofferma su esperienze concrete di microcredito e di economia di comunione. Sono segni di speranza che nel futuro possa esserci un’economia sostenibile. Il microcredito è un’esperienza iniziata con l’economista indiano Muhammad Yunus. Egli sceglie di mettere la scienza economica al servizio della povertà, aiutando con piccoli prestiti le famiglie dei quartieri poveri. Pochi dollari per acquistare una macchina da cucire, o una mucca da latte. Un modello che si è poi diffuso in tutto il mondo, ispirando numerosi esperimenti nei Paesi in via di sviluppo e in numerose economie avanzate. L’economia di comunione deriva da una felice intuizione di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari. Nel 1991, durante una visita in Brasile, ebbe modo di vedere che le aziende creavano ricchezza, ma solo per gli imprenditori, mentre i lavoratori, sfruttati, rimanevano fuori dalla ripartizione dei profitti. Lei, dunque, propose una maggiore attenzione alla manodopera, innanzitutto attraverso un salario adeguato, ma anche investendo gli utili per creare nuovi posti di lavoro e allargare la base dei beneficiari. Ma la cosa più importante è far circolare negli ambiti lavorativi la parola “amore”, perché l’altro è prima di tutto una persona che dobbiamo amare, così come dice l’enciclica “Caritas in Veritate”. Per la prima volta un documento parla di amore nell’economia, un’economia basata sulla centralità dell’uomo. Il modello della Lubich è stato adottato da alcune imprese che hanno scelto di improntare la vita aziendale alla cultura di comunione. I profitti vengono messi in comune, non solo con il fine di nuovi investimenti, ma anche per aiutare persone in difficoltà, e per creare nuovi posti di lavoro. Un circolo virtuoso che può rappresentare una risposta concreta alla crisi economica mondiale. Mons. Silvestre, che cosa pensa dell’Expo? Potrebbe essere un momento forte per fare un esame di coscienza sulla situazione del nostro pianeta, sulla necessità di una maggior attenzione, non solo allo sviluppo, ma anche ai nostri consumi, che devono essere equilibrati, perché altrimenti il pianeta non regge. Gli analisti hanno stabilito che, nel 2030-2040 se si va avanti con questo ritmo, non basteranno due pianeti per sostenere i consumi. Il pericolo è che l’Expo venga strumentalizzato dalle multinazionali, interessate a piazzare sul mercato i propri prodotti, e che non vi sia un richiamo alla necessità della sobrietà.
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LA VERA TUTELA DELLA NOSTRA SALUTE LA GARANTISCONO I NAS
Enza Colagrosso
Intervista al Comandante dei Nas Carabinieri di Roma, Capitano Dario Praturlon.
Nell’anno che pone sotto la lente d’ingrandimento il cibo, nelle sue specificità e nelle sue problematiche, come non sentire la voce di coloro che giornalmente lavorano per salvaguardare la nostra salute, anche attraverso un’alimentazione garantita, perché salva da ogni tipo di frode: il comando Carabinieri per la tutela della salute, meglio conosciuto come i NAS. Il Nucleo Antisofisticazioni e Sanità dell’Arma, opera dal 1962 e, da allora, è cresciuto tanto che oggi dispone di 1096 unità specializzate.
“I NAS a livello europeo, e credo di non sbagliare nell’affermare anche a livello mondiale, sono uno delle poche forze di Polizia che è allo stesso tempo un organismo ispettivo e amministrativo. E’ per questo che quando noi andiamo all’estero, a spiegare questa nostra funzione, veniamo presi da tutti come un esempio da seguire”.
Ci spiega così, brevemente, le caratteristiche dei NAS, il Capitano Dario Praturlon, Comandante Nas Carabinieri di Roma al quale chiediamo ancora:
Qual è l’obiettivo dell’attività dei NAS?
La nostra azione, ha come obiettivo la tutela della salute. Quindi se interveniamo su una frode alimentare, lo facciamo esclusivamente nel caso in cui questa possa determinare un pericolo per la salute di chi consuma il prodotto. Per chiarezza le specifico meglio: a noi non interessa se un vino che esce con una determinata denominazione sia in tutto e per tutto aderente a questa, quello che valutiamo è se il prodotto finale sia, o non sia nocivo per la salute del consumatore. C’è da dire che la normativa che contrasta i fenomeni di illeciti, del settore alimentare, ha subìto, negli ultimi 20 anni, una forte depenalizzazione. La maggior parte delle sanzioni, da penali sono state ridotte ad amministrative, per aderire alle direttive europee che sono molto meno orientate a punire penalmente questi reati e scelgono di sanzionarli solo con procedimenti amministrativi. E’ per questo che oggi, chi commette una frode alimentare, è spesso soggetto al solo pagamento di una multa.
Quali sono le frodi alimentari più diffuse?
Noi riscontriamo alimenti che vengono presentati alla vendita come portatori di un certo livello di qualità, qualità che in realtà possiedono in maniera molto inferiore. L’esempio forse più facile da cogliere è quello dell’olio di oliva. Spesso questo prodotto, presentato come extravergine, in realtà contiene miscele di olii che lo rendono molto difforme da quello che dovrebbe essere un olio extravergine di oliva. Altro filone di frode alimentare è quella della conservazione dei prodotti. Troviamo spessissimo alimenti mal conservati, magari accatastati in locali non idonei. E’ frequente nei nostri sequestri trovare forme di formaggio rosicchiate da topi oppure prosciutti invasi da muffe che poi vengono ripuliti, riconfezionati e destinati al mercato. Questi casi però, rientrano nelle sanzioni penali, perché rappresentano un grave rischio per la salute.
Come vengono seguite e attuate le norme per la sicurezza alimentare da chi lavora nel settore?
La maggior parte delle contestazioni che facciamo, e parliamo di circa un 75%, sono proprio di tipo amministrativo, relative cioè alla mancata attuazione di tutta quella che è la normativa che determina l’autocontrollo. Le direttive europee hanno voluto infatti individuare nel negoziante, nel ristoratore e nell’avventore, il responsabile dell’esercizio di somministrazione, di produzione del cibo e della corretta tenuta degli alimenti. Si è così delineata la responsabilità di colui che deve garantire, con una serie di controlli periodici, la qualità del prodotto che arriva al consumatore. Questi deve farsi carico di verificare la temperatura, l’umidità oltre all’igiene dei luoghi ove avviene lo stoccaggio, la qualità del prodotto che somministra, la pulizia dell’attrezzatura con cui viene in contatto, ecc. Deve poi mantenere un manuale di questi controlli, riempiendo delle schede periodiche con cui attesta le procedure di controllo e di sicurezza attuate. Questo è ciò che comunemente si chiama “pacchetto di igiene” frutto di una normativa di derivazione europea che deve essere applicato da tutti. E’ per questo che in gran parte dei nei nostri controlli quello che verifichiamo è se sono state previste, e quindi applicate, le procedure di autocontrollo.
Parliamo di prodotti agricoli: marchi come “prodotto biologico” oppure “Km 0” rappresentano una garanzia per il consumatore?
Mi lasci dire che dove esiste una legge esiste anche l’inganno. Le dico questo per chiarire che anche marchi come “prodotto biologico” oppure “Km 0” non sono esenti da frodi. Spesso ci troviamo davanti a prodotti, etichettati come biologici, ma che biologici non sono. Certo questo non vuol dire che siano nocivi, ma sicuramente non sono stati coltivati rispettando le caratteristiche di un’agricoltura biologica. Magari hanno subito un trattamento con dei concimi o con dei prodotti fitosanitari, oppure sono stati coltivati con tecniche che non sono ammesse. Quindi presentarli come prodotti biologici, è una truffa. Stessa cosa per i prodotti a “Km 0”. La normativa stabilisce che la vendita a “Km 0” prevede la produzione entro i 70 Km. Ora, 70 km sono certo pochi, ma quello che troviamo molto spesso è la documentazione falsificata proprio sulle distanze. Questo ovviamente non va per forza a discapito della qualità, ma per tutelare il consumatore sono stati creati degli organismi di certificazione privati, che sono afferenti al Ministero delle politiche agricole.
Nella nostra regione, il Lazio, il fenomeno della truffa alimentare è diffuso? In quale maniera?
Nel Lazio, Roma, assorbe circa l’80% della nostra attività. L’affluenza continua di turisti ci porta infatti, a tenere sotto controllo gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, che vanno dai Pub, ai Bar fino ai grandi ristoranti, compresi quelli più noti. Il problema che riscontriamo più frequentemente? La mancata applicazione degli autocontrolli, da parte degli esercenti. Un sistema diffuso tanto che lo troviamo almeno nel 25% dei locali che controlliamo. Va però detto che noi non visitiamo tutti i locali della capitale, non siamo le Asl, noi agiamo in modo mirato, anche perché siamo pochi e dobbiamo farlo in modo specifico. Abbiamo un’attività informativa che ci segnala le attività che potrebbero essere in difetto, noi poi selezioniamo quelle che potrebbero presentare le situazioni più pericolose. Quindi quando parliamo di numeri, come ho fatto prima, va tenuto presente che, ad esempio il 25% citato, in realtà è poi relativo alla piccola porzione di locali che andiamo a controllare. A Roma inoltre cerchiamo di tutelare anche prodotti che ci identificano, come la pizza, affinché vengano somministrati ai turisti, nel rispetto delle regole, mantenendone alta la qualità. Per esempio la pizza congelata fatta passare per artigianale, preparata al momento, lede gravemente l’immagine di questo prodotto italiano.
I NAS a luglio saranno a Expo 2015. Di cosa parleranno?
Parleranno dei NAS, e della loro esperienza considerata da tutti un modello da emulare. Saranno i colleghi di Milano a curare l’iniziativa, organizzata su diversi moduli tematici che spiegheranno la complessa e variegata attività del Nucleo Antisofisticazioni e Sanità. Coinvolgeremo i diversi Ministeri legati alla nostra azione lavorativa, le altre forze di Polizia e le agenzie investigative per condividere un momento di confronto e dibattito destinato non solo a chi svolge azione di controllo ma anche al consumatore. Verranno per questo proposti consigli per una spesa attenta a chi deve ogni giorno confrontarsi con il mondo del cibo, appunto, il consumatore.
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LE INIZIATIVE DEI BALCANI
Stephen TAYLOR | direttore Servizio Marketing, Comunicazione e Sviluppo mercato di AREA Science Park
L'integrazione dell’intera area balcanica all’interno dell’Unione Europea è un processo ampiamente avviato e sostenuto a livello comunitario grazie allo Strumento di Assistenza alla Preadesione (IPA), una linea di finanziamento della Commissione europea che offre assistenza ai futuri membri dell’Unione. Dell’IPA usufruiscono, tra gli altri, Serbia, Montenegro e Albania, così come ne ha beneficiato in precedenza la Croazia, fino al suo ingresso effettivo nell’UE il 1° luglio 2013.
L’opportunità per i Paesi destinatari dei fondi è rilevante, come ha evidenziato di recente Jadranka Joksimovic, ministro senza portafoglio del Governo serbo incaricato per l’integrazione europea, che ha indicato in 1,5 i miliardi di euro i fondi IPA a disposizione del suo paese entro il 2020, ovvero 200 milioni di euro l’anno. “Le riforme che abbiamo implementato - ha sottolineato la Joksimovic - sono riconosciute come il fattore più importante in vista dell’apertura dei primi capitoli negoziali”.
La crescita di competitività e la convergenza dell’economia serba e degli altri paesi balcanici verso standard europei passa anche attraverso il rafforzamento delle strutture dedicate alla ricerca, allo sviluppo tecnologico e all’innovazione. Sono questi, infatti, asset in grado di accrescere la conoscenza e rivitalizzare il tessuto imprenditoriale, contribuendo a innescare i processi di modernizzazione.
AREA Science Park, il principale parco scientifico e tecnologico italiano con sedi a Trieste e a Gorizia, è da sempre attivo nella promozione di partenariati internazionali e nella consulenza alla progettazione di poli scientifico-tecnologici (cd capacity building) in Italia e all’estero. Grazie alla sua collocazione transfrontaliera ha stretto legami, in particolare, con i Paesi dell’Europa Centro-orientale, realizzando con successo attività di assistenza tecnica e capacity building in Serbia, Croazia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina.
“In Serbia da tempo collaboriamo con diverse istituzioni ministeriali, università, centri di ricerca e parchi tecnologici - spiega Stephen Taylor - Più in generale, operiamo nei paesi dell’area balcanica trasferendo agli enti pubblici e privati know-how e metodologie in grado di migliorare i processi di business, di trasferimento tecnologico e di collaborazione interaziendale”.
In questo percorso è sembrato naturale per AREA Science Park incrociare la propria iniziativa con quella della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e dell’ente Nazionale per il Micro Credito di Roma, definendo una strategia congiunta per offrire assistenza agli Stati in preadesione dell’area balcanica. Del resto la Regione, in particolare con la Serbia, ha consolidato nel tempo i rapporti grazie a diversi progetti, tra i quali citare il Memorandum d’Intesa del 2009 per collaborazioni in tema di sviluppo delle PMI, energia e ambiente, infrastrutture, istruzione e cultura, università e ricerca. Rilevante anche il Protocollo d’Intesa con il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali della Repubblica di Serbia, per lo scambio nei settori dell’e-Government e della ricerca scientifica in campo sociale, così come il Protocollo d’Intesa con la Provincia Autonoma della Vojvodina, per collaborazioni in campo commerciale e la cooperazione fra PMI, nella ricerca, nella formazione e nella cultura.
Nel corso degli ultimi anni si è rafforzata la posizione di rilievo acquisita dal Sistema Friuli Venezia Giulia in Serbia, attraverso il consolidamento delle relazioni instaurate sia a livello istituzionale che operativo dall’Amministrazione Regionale e da molteplici attori dello sviluppo locale. La realizzazione di progetti sviluppati anche nel quadro di diversi Protocolli d’intesa conferma il ruolo del Friuli Venezia Giulia in questo paese.
La Serbia, non a caso, è stata individuata quale primo paese obiettivo dall’iniziativa congiunta con AREA e l’Ente Nazionale per il Microcredito, assieme a Montenegro, Albania e Croazia, con l’idea di avviare iniziative finanziabili attraverso i fondi IPA disponibili, a partire dalla seconda metà del 2015. “Sulla base dei rapporti intercorsi tra AREA Science Park e varie istituzioni governative dei paesi coinvolti - sottolinea Taylor - dalla primavera 2014 sono partite le attività di coordinamento con i policy makers governativi che hanno manifestato grande attenzione e reale interesse verso le nostre proposte. Un primo risultato formale è stata la firma di un Memorandum of Understanding con il Ministero serbo per l’Educazione, la Scienza e lo Sviluppo Tecnologico per un piano di assistenza tecnica pluriennale”.
I tecnici di AREA, insieme all’Ente Nazionale per il Microcredito e Regione FVG, stanno lavorando alla prima stesura di un Modello di Assistenza Tecnica, base per il lavoro congiunto che porterà nel settembre 2015 alla presentazione alle autorità competenti dei paesi coinvolti di un piano organico di interventi. “Promuoveremo piani operativi di interscambio con Serbia, Albania, Montenegro e Croazia – dice ancora Taylor – per il trasferimento di tecnologie e per lo sviluppo economico, sociale e finanziario. Sarà avviato un piano pluriennale di assistenza tecnica a sostegno dell’occupazione, dell’inclusione sociale e culturale, della competitività delle piccole e medie imprese e del rafforzamento di infrastrutture di ricerca e sviluppo tecnologico”.
Contestualmente AREA Science Park, nella sua funzione di coordinamento degli enti di ricerca presenti in Friuli Venezia Giulia, sta lavorando al coinvolgimento dell’intero sistema di ricerca regionale al progetto ottenendo un primo contributo dalla Regione FVG per l’organizzazione di una serie di workshop in Serbia, Montenegro e Albania (vedi box 1). Da febbraio 2015 sono iniziate le attività per l’organizzazione del primo workshop a Belgrado che sarà al massimo livello politico, sia per dare visibilità all’iniziativa che per favorire il pieno appoggio istituzionale e finanziario del Governo Serbo.
Gli enti di ricerca del Friuli Venezia Giulia potranno valorizzare le proprie competenze anche nel Piano di Assistenza Tecnica, il cui obiettivo strategico è accelerare l’integrazione europea supportando i responsabili politici e gli attori economici nei paesi in pre-adesione nell’attuazione delle riforme necessarie a soddisfare i criteri di Copenaghen1. Ciò con il fine di creare un ambiente economico più attraente, che stimoli lo sviluppo economico e la coesione sociale anche incentivando l’imprenditorialità, migliorando le tecnologie e il know-how.
Friuli Venezia Giulia e cooperazione nei Balcani
I Balcani sono un’area di primaria importanza per l’Italia e in particolare per il Friuli Venezia Giulia dal punto di vista politico ed economico. I paesi interessati alla cooperazione regionale sono la Serbia, la Croazia, il Montenegro, l’Albania, il Kosovo, la Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia e la Bosnia. In questo contesto in linea con un’azione già avviata nei paesi, che stanno perseguendo un iter di integrazione nell’Unione europea, viene assicurato anche un sostegno a specifici programmi di assistenza tecnica mirati alla crescita delle capacità istituzionali necessarie per accedere ai fondi di pre-adesione (IPA). L’impegno assunto dal Governo regionale prevede uno sforzo per ridurre la frammentazione dell’aiuto e la massimizzazione del valore aggiunto delle risorse stanziate. Tali indicazioni hanno permesso di individuare un numero limitato di obiettivi che sono strettamente legati agli ambiti di intervento preferenziali della cooperazione internazionale:
- sostegno al dialogo politico e sociale, al decentramento politico e amministrativo;
- governo del territorio, inclusa la pianificazione e gestione dei servizi al territorio e la promozione dei processi di democrazia partecipativa;
- sostegno alle iniziative di sviluppo locale finalizzate alla coesione sociale, alla creazione di ambienti favorevoli alla crescita di forme associative di tipo cooperativistico e di micro, piccole e medie imprese e alla promozione di sistemi creditizi equi e sostenibili oltre al rafforzamento delle Agenzie di sviluppo e dei parchi tecnologici;- il sostegno alle politiche di tutela del patrimonio ambientale e culturale;
- la creazione di centri di formazione professionale e specialistica per la crescita dell’occupazione.
Numerose sono le intese stipulate dalla Regione FVG con partner istituzionali omologhi in queste aree che hanno portato alla intensificazione delle attività di cooperazione e partenariato del sistema FVG. La strategia privilegia modalità di partenariato territoriale imperniate su intese istituzionali tra i territori che cooperano, coinvolgendo in un impegno organico e prolungato tutti gli attori delle rispettive comunità locali (enti locali, istituzioni pubbliche, organismi strumentali, enti formativi, università, soggetti economici, ecc.) e di partenariato tematico, basate sulla creazione di reti tra gli attori dello sviluppo locale.
In riferimento alla Serbia, paese target della cooperazione regionale, nel corso degli ultimi anni si è ulteriormente rafforzata la posizione di rilievo acquisita dal Sistema Friuli Venezia Giulia attraverso il consolidamento delle relazioni instaurate sia a livello istituzionale che operativo dall’Amministrazione regionale e da molteplici attori dello sviluppo locale. La realizzazione di molteplici progettualità e iniziative di scambio sviluppatesi anche nel quadro dei Protocolli d’intesa in vigore confermano una prospettiva di più ampio impatto per il ruolo della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia in loco. Ci sono alcune intese in essere che fungono da volano per un rafforzarsi delle relazioni tra le due sponde dell’Adriatico, in particolare il Memorandum di Intesa con la Repubblica di Serbia sottoscritto a Roma in data 13 novembre 2009 che prevede tra i settori prioritari di collaborazione lo sviluppo delle PMI attraverso la ricerca e l’innovazione, l’energia e l’ambiente, le infrastrutture materiali e immateriali, l’istruzione e la cultura, l’università e la ricerca.
Sempre nell’ambito del rafforzamento istituzionale ed economico la regione ha firmato per la prima volta nel 2003 un Protocollo d’Intesa con la Provincia Autonoma di Vojvodina che si incentrava sulla collaborazione fra le parti in campo commerciale, sul sostegno a nuovi investimenti e sulla cooperazione fra PMI, nella ricerca, nella formazione e nella cultura. Accordo successivamente rinnovato nel 2007 per consolidare l’effettiva collaborazione nei settori industriale e commerciale, delle infrastrutture e dello sviluppo territoriale, nonché del turismo, della cultura, della ricerca scientifica, dell’ambiente e della formazione, conferendo particolare importanza allo sviluppo delle PMI. Nel 2009 è stato istituito un Gruppo di lavoro misto dedicato alla promozione di iniziative congiunte di sviluppo locale, con specifici approfondimenti su temi quali l’ordinamento istituzionale, il federalismo fiscale, lo sviluppo locale, l’utilizzo di fondi di preadesione e di altri fondi comunitari.
In questo quadro di intese istituzionali, numerose sono le progettualità sostenute dalla Regione che coinvolgono i Balcani in generale e la Serbia in particolare, tra queste emergono alcuni casi di buone prassi, quali il progetto integrato OPEN-UP per il sostegno alla riqualificazione del sistema economico del Distretto di Zajecar (Serbia) e allo sviluppo dell’interscambio fra le realtà imprenditoriali del Friuli Venezia Giulia e quelle della Serbia orientale, o il Programma SeeNet, un’iniziativa di cooperazione decentrata con l’area del Sud Est Europa cofinanziata dalla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri che ha visto coinvolti in maniera attiva come partner locali 47 pubbliche amministrazioni di 7 Paesi dei Balcani Occidentali. L’obiettivo che il Programma si propone è quello di facilitare il dialogo fra stati, enti e comunità locali per un efficace sviluppo locale dei territori favorendo in particolare l’accesso alle risorse economiche comunitarie, nazionali ed internazionali e l’adozione e lo sviluppo di programmi e servizi innovativi per lo sviluppo locale.
Le logiche strategiche della Regione Friuli Venezia Giulia dovranno quindi puntare nel presente e nel futuro prossimo, piuttosto che sul finanziamento di singoli progetti, su un approccio sinergico con le politiche di altre Regioni, dello Stato e dell’Unione Europea per ridurre i rischi di frammentazione delle iniziative e di dispersione delle risorse.
L’obiettivo per la Regione non è sostenere molti progetti isolati ma promuovere processi di dialogo e di messa in rete di iniziative tra i diversi attori, articolando gli interventi con meccanismi di governance multilivello e promuovendo partenariati pubblico-privato.
NOTE
1 Il criterio politico: la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti dell’uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela; il criterio economico: l’esistenza di un’economia di mercato affidabile e la capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’Unione; il criterio dell’”acquis comunitario”: l’attitudine necessaria per accettare gli obblighi derivanti dall’adesione e, segnatamente, gli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.Affinché il Consiglio europeo possa decidere di aprire i negoziati, deve risultare rispettato il criterio politico.
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Attività Previste dal progetto WAITC
Serbia
Un workshop ad alto livello istituzionale a Belgrado con l’obiettivo di presentare il sistema regionale, sensibilizzare gli attori e massimizzare la loro partecipazione attiva all’evento successivo. Un evento di due giornate a Trieste per favorire lo scambio tra i policy maker istituzionali su tematiche di interesse macro-regionale (strategie, processi di cooperazione, strumenti, etc.).
Albania
Due workshop, il primo a Tirana, il secondo a Scutari, durante i quali sarà presentato il sistema regionale della ricerca e dell’innovazione ai principali portatori di interesse locali. L’obiettivo è consolidare reti di collaborazione internazionale nell’ambito di future iniziative macro-regionali. La presentazione sarà aperta agli stakeholder locali.
Montenegro
Due workshop, uno a Podgorica, l’altro a Budva durante i quali sarà presentato il sistema regionale della ricerca e dell’innovazione ai principali portatori di interesse locali con l’obiettivo di consolidare reti di collaborazione internazionale nell’ambito di future iniziative macro-regionali. La presentazione sarà aperta agli stakeholder locali.
Croazia
Un workshop a Zagabria durante il quale sarà presentato il sistema regionale della ricerca e dell’innovazione ai principali portatori di interesse locali con l’obiettivo di consolidare reti di collaborazione internazionale nell’ambito di future iniziative macro-regionali. La presentazione sarà aperta agli stakeholder locali.
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AREA Science Park: la ricerca per l’innovazione
Nato sull’altopiano carsico triestino, in un territorio con una delle più elevate concentrazioni di istituti di ricerca in Italia, AREA Science Park è un sistema complesso incentrato sull’innovazione, la valorizzazione della ricerca e lo sviluppo di nuove imprese tecnologiche.
Nei suoi 94.000 m2 circa di laboratori attrezzati e spazi comuni, sviluppati su due campus a Trieste e uno a Gorizia, operano oltre una novantina di centri di R&S e imprese high-tech con oltre 2.400 addetti.
Le attività di R&S svolte in AREA Science Park sono focalizzate su cinque cluster:
• Scienze della vita;
• Informatica, Elettronica, Telecomunicazioni;
• Fisica, Materiali, Nanotecnologie;
• Energia e Ambiente;
• Servizi Qualificati.
AREA è un contesto nel quale le imprese hanno l’opportunità di lavorare accanto ai centri di ricerca, con maggiori chance di valorizzare idee e creatività e finalizzare progetti di sviluppo. Hanno sede nel parco grandi istituzioni scientifiche come Elettra Sincrotrone Trieste, il Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologie (ICGEB), la Sezione triestina dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) o diversi laboratori del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), dove la ricerca di base e quella finalizzata a risultati applicabili in campo medico, diagnostico o nello sviluppo di nuovi materiali si concretizzano in numerosi progetti.
L’ambiente è favorevole alla nascita di nuove imprese, alcune delle quali si stanno facendo strada a livello nazionale e internazionale. Qui è stato sviluppato un nuovo modello di incubazione, Innovation Factory, che interviene nella fase embrionale del ciclo di vita di un’impresa (pre-seed), caratterizzato da un alto rischio di fallimento.
AREA è un hub dell’innovazione, della ricerca e della scienza aperto a PMI e grandi imprese, enti di ricerca, startuppers e Pubbliche Amministrazioni.
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MISSIONE TERZO SETTORE
IMPATTO SOCIALE E MODELLI DI MISURAZIONE UNA PROPOSTA PER ORIENTARE LA SCELTA
Cecilia Grieco*, Gennaro Iasevoli**
1 La misurazione dell’impatto socio-economico
Il concetto di misurazione dell’impatto sociale generato dalle imprese sociali e dalle organizzazioni del terzo settore, è attualmente oggetto di un’attenzione crescente nel contesto italiano. L’esigenza di attuare processi di valutazione è espressa in primis dal legislatore stesso, il quale, nella Legge Delega di Riforma del Terzo Settore1, ha assunto il concetto di impatto sociale come elemento identificativo dell’impresa sociale. Secondo questa prospettiva, tali organizzazioni vengono qualificate come imprese private d’interesse generale in grado, appunto, di generare impatti sociali positivi, conseguiti mediante la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale. Analoga è l’impostazione adottata dal Ministero dello Sviluppo Economico relativamente alle linee guida per il riconoscimento delle startup innovative a vocazione sociale (SIAVS), nelle quali l’impatto sociale viene identificato come uno dei criteri di identificazione.
A questi aspetti normativi si aggiunge la crescente affermazione delle politiche di microcredito in Italia; come è noto quest’ultimo è chiaramente identificabile come uno strumento di inclusione sociale e di lotta alla povertà che si propone di andare oltre l’aiuto caritatevole e la mera risposta a bisogni momentanei. Soprattutto in passato quando si valutavano le iniziative del microcredito, si aveva una forte attenzione agli aspetti economico-finanziari laddove la dimensione sociale veniva praticamente trascurata. In realtà, grazie anche alla più recente consapevolezza del ruolo che il microcredito svolge ad esempio nell’inclusione finanziaria di soggetti svantaggiati, nel favorire l’empowerment delle persone o nel generare sviluppo locale, risulta quanto mai necessario spostare il focus, o perlomeno attribuire pari rilevanza, anche all’impatto sociale generato da tali attività.
La stessa questione si presenta anche in una più ampia prospettiva europea, dove, relativamente all’erogazione di fondi per il sostegno dell’imprenditorialità sociale, l’impresa sociale viene definita come un’organizzazione che ha come obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi misurabili2.
La tendenza ad impostare il discorso sulle imprese sociali in termini di impatto sociale generato, risponde a due principali esigenze: da un lato quella posta dalla crisi a finanziatori ed investitori, di indirizzare le risorse disponibili verso iniziative che possono dimostrare la loro reale capacità di intervenire nella risoluzione dei problemi sociali, dall’altro quella sentita dalle stesse imprese sociali, di valutare ed incrementare l’efficacia e la sostenibilità delle attività svolte.
Nel definire il concetto di impatto sociale ed il processo da attuare per misurarlo, ciò che si evidenzia è innanzitutto l’assenza di un linguaggio comune univocamente definito e generalmente condiviso (OECD, 2015). Per alcuni l’impatto sociale rappresenta un cambiamento creato dalle attività delle organizzazioni e dai relativi investimenti, al di là della creazione di valore economico (Epstein & Yuthas, 2014), ed include gli effetti desiderati e indesiderati, negativi e positivi, che si manifestano nel breve, medio e lungo periodo. In merito al processo di misurazione dell’impatto sociale generato, esso viene definito come un’azione comparativa attraverso la quale l’organizzazione valuta l’entità degli impatti generati e le categorie di stakeholder coinvolti, per chiarire, misurare e rendicontare la capacità di creare benefici ed evidenziare le potenzialità di innovazione e di cambiamento che l’organizzazione ha nel sistema in cui opera.
Le difficoltà che emergono relativamente ad una definizione univoca, sono legate ad una serie di fattori che non ne facilitano l’identificazione: in primo luogo la natura prevalentemente qualitativa ne rende difficile la traduzione in termini oggettivi e misurabili; l’esistenza, inoltre, di diverse dimensioni (sociale, ambientale, economico) e di diverse prospettive temporali in base alle quali stimare l’impatto; infine, la difficoltà di collegare le attività svolte con l’impatto generato, considerando al contempo le componenti esterne che possono influire sui risultati finali.
Il fine è quello di comprendere come indirizzare la strategia e le decisioni verso un impatto sociale positivo per tutte le parti interessate (Epstein & Yuthas, 2014). Si tratta di un processo nel quale la dimensione partecipativa è ampiamente sottolineata, e che si fonda sul coinvolgimento attivo degli stakeholder al fine di massimizzare equità e trasparenza.
2 Benefici e limiti della misurazione
Nonostante la consapevolezza circa l’importanza di queste tematiche sia molto sentita in ambito accademico e manageriale, l’attuazione dei processi di misurazione dell’impatto sociale rimane spesso un fenomeno marginale. Il valore di questo processo è certamente condiviso, così come l’impegno maggiore dedicatovi, incrementato notevolmente negli ultimi anni, tuttavia in Italia le organizzazioni che regolarmente misurano il loro impatto sociale sono una minoranza rispetto ad altri paesi europei, come ad esempio il Regno Unito, dove questi processi sono ormai largamente condivisi (Fondazione Sodalitas, 20143).
Probabilmente la presenza di alcune barriere limitano il diffondersi di questa pratica; la prima difficoltà spesso incontrata dalle organizzazioni è proprio la mancanza di consapevolezza circa l’oggetto stesso della misurazione (Epstein & Yuthas, 2014). La comprensione del concetto di impatto sociale richiede infatti un cambio di prospettiva: l’attenzione passa dall’analisi degli output a quella degli outcome (Hehenberger et al., 2013). I primi fanno riferimento ai risultati diretti e tangibili che derivano dalle attività svolte dall’organizzazione; sono prevalentemente dati quantitativi e si verificano nel breve termine come conseguenza dell’intervento effettuato (es. numero di partecipanti ad un corso di formazione). Il concetto di outcome riguarda invece i cambiamenti più radicali che si verificano nella società nel medio/lungo termine anche grazie alle attività svolte dall’organizzazione (es. riduzione dell’esclusione sociale, decremento delle ineguaglianze), ma che sono determinati da un più complesso sistema di fattori. Il processo di misurazione dell’impatto sociale si basa proprio sull’analisi di questi cambiamenti, nel valutare i quali è fondamentale non sottovalutare il ruolo avuto da attori altri rispetto all’organizzazione o da eventuali condizioni esterne.
L’adozione di una prospettiva di valutazione che si allontana dai tradizionali risultati economici e finanziari, focalizzandosi invece sull’analisi del valore sociale generato, è un’altra grande barriera all’attuazione del processo. Da questo punto di vista è influente la convinzione circa l’elevata difficoltà, se non impossibilità, di misurare e quantificare la creazione di un valore sociale, insieme al cosiddetto “warm-glow feeling” derivante dall’impegno verso una missione sociale, che rende secondario il bisogno di valutarne il raggiungimento. Oltre alla componente concettuale, spesso è la scarsa conoscenza del processo e degli strumenti esistenti a costituire un ostacolo, così come la scarsità di risorse da investire in tale processo.
Se questi elementi possono costituire un effettivo ostacolo per le organizzazioni, è vero anche che il processo di misurazione dell’impatto sociale comporta benefici considerevoli. In primo luogo, la comprensione per l’organizzazione del valore effettivo del proprio operato, e l’identificazione degli elementi che generano maggiore valore per ciascuna tipologia di destinatario. Un’informazione di questo genere risulta essere certamente strategica, e funzionale per l’ottimizzazione dell’efficienza complessiva.
In secondo luogo, la misurazione dell’impatto sociale consente di raccogliere informazioni che possono essere molto importanti da divulgare ai propri stakeholder, rafforzando la legittimità dell’organizzazione all’interno della propria rete di interlocutori.
In questa prospettiva è importante notare come la misurazione dell’impatto sociale si leghi al fenomeno emergente dell’impact investing (investimenti ad impatto), nel quale gli strumenti di investimento tradizionali vengono utilizzati per raccogliere capitale privato da destinare alla risoluzione di problematiche sociali finanziando attività volte alla generazione di un impatto sociale misurabile, ed allo stesso tempo di un rendimento finanziario per gli investitori. In questo contesto il ruolo della misurazione dell’impatto sociale generato assume un rilievo considerevole, soprattutto in relazione a quegli strumenti come i Social Impact Bonds4, in cui la remunerazione degli investitori è vincolata al raggiungimento di un outcome sociale prestabilito.
3 Il processo di misurazione: obiettivi, fasi e strumenti (Tab 1 + Fig 1)
L’interesse condiviso nei confronti della misurazione dell’impatto sociale pone l’esigenza di definire e divulgare delle modalità specifiche con cui tale processo possa essere concretamente implementato, dotando le organizzazioni di strumenti che consentano loro di tracciare i progressi fatti verso il raggiungimento della propria missione sociale. Tale esigenza si scontra con la difficoltà di definire un sistema univoco che possa essere idoneo per tutte le tipologie di organizzazioni, e che deriva dalla connotazione case-specific della misurazione dell’impatto sociale, la quale dipende largamente dall’oggetto da valutare (progetto, organizzazione, attività), dalle caratteristiche dell’organizzazione implementante, dalle condizioni esterne e dagli stakeholders coinvolti. In questo senso, standard generalmente definiti per guidare il processo rischiano di svalutare la specificità dei singoli casi. D’altro canto è innegabile il valore che la misurazione dell’impatto sociale ha nell’attività di rendicontazione, soprattutto nei confronti dei finanziatori, e ciò richiede un certo livello di comparabilità dei risultati conseguiti da organizzazioni differenti, nonché di chiarezza sulle modalità di raccolta ed elaborazione dei dati per assicurare la validità e l’affidabilità del processo.
La ricerca di un trade-off tra queste necessità ha portato allo sviluppo di modelli finalizzati a valutare i risultati non solo economici delle organizzazioni a finalità sociale, nei quali si riflettono i diversi approcci esistenti al processo di misurazione dell’impatto sociale. Il panorama attualmente presente a livello mondiale è estremamente variegato, sebbene si possano identificare alcuni principi e fasi comuni. La misurazione dell’impatto sociale, infatti, può essere effettuata a diversi livelli di dettaglio o con modalità operative differenti, ma generalmente si svolge in base ad alcune macrofasi che possono essere sintetizzate come:
• identificazione degli obiettivi della misurazione, della missione dell’organizzazione e dei risultati che si vogliono raggiungere;
• definizione degli outcome e degli indicatori attraverso i quali misurarli;
• identificazione del ruolo effettivo svolto dall’organizzazione nel raggiungimento di tali outcome;
• raccolta ed analisi dei dati;
• comunicazione interna ed esterna dei risultati ottenuti.
Queste fasi sono il punto di partenza per la definizione dei modelli specifici che prescrivono in modo più dettagliato il framework dell’analisi o i passaggi per la quantificazione dell’impatto generato. La proliferazione di questi modelli è dovuta al fatto che, come anticipato, numerosi sono i soggetti interessati al tema della misurazione dell’impatto sociale: università e centri di ricerca, società di consulenza, investitori sociali, e soprattutto le stesse organizzazioni non-profit. Dal loro punto di vista, infatti, l’ampia gamma di modelli a disposizione risponde alla necessità di selezionare quello maggiormente rispondente ai propri obiettivi ed alle proprie specificità. In tale logica si esclude il cosiddetto “modello taglia unica” per una serie di motivi già emersi nella trattazione: le diverse dimensioni a cui può fare riferimento il concetto di impatto sociale (pianificato/non pianificato, positivo/negativo, di breve/medio/lungo periodo), le differenze in termini di dimensione, attività, obiettivi e risorse esistenti tra le organizzazioni, gli stakeholders maggiormente interessati a questo tipo di informazione che possono variare notevolmente da un caso all’altro.
4 La selezione del modello di misurazione più idoneo alle esigenze dell’impresa (Fig 2 + Tab 2)
L’esistenza di numerosi modelli rappresenta un vantaggio per le organizzazioni, che possono in questo modo scegliere tra le molte opzioni esistenti quella più idonea alle proprie caratteristiche e disponibilità; tuttavia, il rischio è che l’abbondanza possa anche generare confusione, soprattutto quando non si hanno specifiche competenze nell’attività di misurazione (Grieco et al., 2014).
Per ovviare a questo potenziale limite, può essere utile ricorrere ad un sistema di autovalutazione che consente alle organizzazioni di essere guidate nella scelta del modello da utilizzare, focalizzandosi sulle caratteristiche in esso ricercate e sull’analisi dei propri bisogni relativi alla misurazione (Grieco, 2015). Tale sistema parte da una serie di considerazioni sulla situazione di partenza, che consente alle organizzazioni di individuare una categoria specifica di modelli a cui fare riferimento:
• su quale tipo di impatto si vuole concentrare l’attività di misurazione? Si desidera avere una visione complessiva degli effetti delle attività o si vuole focalizzare l’attenzione su una tipologia specifica di impatto (sulla comunità, sui dipendenti/volontari, sull’ambiente naturale, sulla creazione di valore economico)?
• a quale fine si vuole implementare un processo di misurazione dell’impatto sociale? Quale tipo di informazione si aspettano di ricevere gli interlocutori? Qual è l’obiettivo prevalente: valutare l’operato in relazione agli obiettivi preposti, ottenere una misura quantitativa del valore sociale generato, ricevere una certificazione esterna? Chi sono i destinatari di questa informazione?
• a che livello di approfondimento è possibile effettuare l’analisi in base alle risorse disponibili in termini economici, di competenze, di esperienza e di tempo da dedicare al processo?
• che prospettiva temporale si vuole prendere in considerazione, una valutazione predittiva per stimare i possibili risultati dell’attività da svolgere o una valutazione retrospettiva per valutare l’impatto effettivamente generato?
• che tipo di dati ho a disposizione o possono essere raccolti? È più idonea una quantificazione/ monetizzazione dell’impatto generato, un’analisi qualitativa o un insieme di entrambe le categorie?
Rispondere a queste domande significa analizzare le necessità e le disponibilità dell’organizzazione al fine di identificare il modello più idoneo. La Figura 2 mostra come, nello specifico, ogni domanda preveda una serie di opzioni, ciascuna connessa ad un gruppo di modelli. In questo modo, in base alla configurazione delle variabili incluse nel sistema di autovalutazione, emergerà come migliore opzione una specifica categoria di modelli tra i quali scegliere.
L’output del sistema di autovalutazione proposto è una categoria di modelli rispondente alle esigenze dell’organizzazione e coerenti con le caratteristiche evidenziate attraverso le domande; in tal modo, l’impresa sociale può effettuare un primo screening per poi orientarsi verso uno specifico modello in grado di rispondere efficacemente ai propri bisogni e disponibilità di risorse.
In particolare, possono essere identificati quattro principali categorie di modelli;
• i modelli “CONTROLLO-QUALITATIVI” impiegano variabili qualitative e una prospettiva di analisi olistica. Hanno un timeframe prevalentemente retrospettivo e, anche in virtù della loro natura qualitativa, hanno un livello base di complessità. I modelli che appartengono a questa categoria possono essere riferiti anche a settori specifici e sono proposti da tipologie di soggetti differenti;
• i modelli “GESTIONALI” si basano su variabili qualitative o quantitative e l’oggetto dell’analisi può essere di diversa natura (olistico, persone, ambientale, sociale economico). Ciò che caratterizza prevalentemente questo gruppo di modelli è lo scopo: infatti, sono impiegati per l’attività di gestione o certificazione ed applicati durante tutto lo svolgimento delle attività (timeframe concomitante);
• i modelli “OLISTICO-COMPLESSI” sono caratterizzati da variabili sia qualitative che quantitative. Hanno per oggetto prevalente un’analisi ad ampio spettro (olistica) del valore generato (comprende l’analisi dell’impatto sociale, ambientale ed economico). Gli scopi prevalenti sono la verifica del raggiungimento degli obiettivi e l’attività di reporting. In tal senso, infatti, l’applicazione del modello è spesso volta alla produzione di una documentazione utile per la rendicontazione agli stakeholder. Hanno un grado di complessità elevato (alcuni di essi contengono oltre 100 indicatori) e sono applicabili a qualsiasi settore. Il timeframe prevalente è quello di un’analisi concomitante o retrospettiva;
• i modelli “SOCIO-QUANTITATIVI SEMPLICI” si basano su indicatori quantitativi che hanno per oggetto prevalente sia il valore sociale generato (es. numero beneficiari dei servizi erogati) sia l’impatto sulle persone (es. soddisfazione del personale, clima organizzativo). Con riferimento al timeframe, tali modelli misurano l’impatto prevalentemente a posteriori. Sono generalmente modelli semplici (costituiti da non più di 15 indicatori) e generalisti, quindi applicabili a qualsiasi settore.
Nella tabella 2, sono riportati alcuni esempi di modelli per ciascuna categoria.
Come è stato recentemente sottolineato da una recente indagine internazionale della Fondazione Cariplo sulle iniziative di microcredito, nella quale sono state tra l’altro individuati alcuni specifici indicatori di impatto (indicatori di outreach, espressione del livello di inclusione finanziaria, indicatori relativi al sovra-indebitamento), in queste realtà risulta ancora una forte necessità di potenziare la presenza dei meccanismi di rendicontazione sociale in affiancamento a quelli del merito creditizio.
In tal senso, la presenza di numerosi modelli e la possibilità di ricorrere a strumenti di pre-selezione, come quello innanzi descritto, potrebbe spronare le imprese sociali e più specificamente quelle coinvolte nelle iniziative di microcredito a cimentarsi con maggiore intensità e incisività nel misurare e rendicontare il valore effettivamente generato per l’intera società.
BOX - Abstract
The topic of social impact assessment is becoming a pressing urge, most of all for those organizations, like social enterprises, that leverages an entrepreneurial activity to achieve a social mission. As for the key role that social mission plays in this kind of organizations, they have to find a way to measure and monitor the fulfillment of this mission. From this perspective, assessing social impact has both internal and external benefit: it allows to assess resources allocation and to keep stakeholders informed about achieved results. Starting from these premises the purpose of this article is to highlight the practice of social impact assessment, explaining the main barriers that could hamper its implementation, along with the benefits that can come from it. Developed models that can drive the process are also introduced, with a self-assessment proposed to guide social entrepreneurs in selecting the group of models that best meets the specific needs of their organizations.
NOTE
* Phd, Ricercatore Human Foundation.
** Professore ordinario di Economia e gestione delle imprese, Università Lumsa
1 Il 10 Luglio 2014, il Governo Italiano ha approvato la Legge Delega per la riforma del Terzo Settore e dell’impresa sociale. Il disegno di legge si propone da un lato di riordinare ed armonizzare incentivi e strumenti di sostegno che valorizzino il potenziale di crescita e occupazione dell’economia sociale, dall’altro di coordinare ed uniformare la disciplina della materia. Per un maggiore approfondimento si veda il Disegno di Legge C.2617 “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale”.
2 Per un maggiore approfondimento si veda il Regolamento (UE) n. 346/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 aprile 2013 relativo ai fondi europei per l’imprenditoria sociale (EuSEF).
3 La ricerca “Come le organizzazioni Nonprofit valutano l’impatto delle proprie attività”, svolta da Fondazione Sodalitas e IRS (2014) ha coinvolto un campione di circa 200 organizzazioni del terzo settore in Italia. Il fine era replicare quella condotta nel Regno Unito nel 2012 da New Philanthropy Capital dal titolo “Making an impact. Impact measurement among charities and social enterprises in the UK”. L’obiettivo è quello di capire quanto le organizzazioni del terzo settore misurano l’impatto sociale e quanto le informazioni ricavate siano utilizzate nella definizione della strategia e nel miglioramento del valore sociale generato. I risultati mostrano come in Italia solo il 32% delle organizzazioni misura regolarmente il proprio impatto sociale, mentre nel Regno Unito la percentuale sale al 70%.
4 Un Social Impact Bond (SIB) è configurabile come una partnership tra diversi attori, sancita da contratti bilaterali e finalizzata a raccogliere capitali privati per il raggiungimento di outcome sociali. Al pari di altre forme contrattuali di tipo pay for results, nei SIB la remunerazione per l’investitore è determinata dall’effettivo raggiungimento dell’outcome prestabilito.
BOX - Bibliografia essenziale
Clark C., Rosenzweig W., Long D., & Olsen S. (2004). Double bottom line project report: Assessing social impact in double bottom line ventures.
http://www.riseproject.org/DBL_Methods_Catalog.pdf.Duqi A., Fondazione Cariplo (2014), Performance economica e sociale delle istituzioni di microfinanza: alcune evidenze empiriche, Quaderni dell’Osservatorio, n. 15.
Epstein M. J., & Yuthas K. (2014), Measuring and Improving Social Impacts: A Guide for Non-profits, Companies, and Impact Investors; BK Business
Grieco, C. (2015). Assessing Social Impact of Social Enterprises: Does one size really fit all? Springer International Publishing
Grieco, C., Michelini, L., & Iasevoli, G. (2014). Measuring Value Creation in Social Enterprises A Cluster Analysis of Social Impact Assessment Models. Nonprofit and Voluntary Sector Quarterly, 0899764014555986.
Hart T., & Haughton G., (2007). Assessing the economic and social impacts of social enterprise. Centre for City and Regional Studies, University of Hull.
https://www.escholar.manchester.ac.uk/. Accessed 15 June 2012.
Hehenberger L, Harling A.M. , Scholten P. (2013), A Practical Guide to measuring and managing impact, European Venture Philanthropy Association
OECD (2015), Policy brief on social impact measurement in social enterprises, Forthcoming.
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NUOVE IDEE: NUOVI MODELLI ECONOMICO-SOCIALI E RUOLO DEL MICROCREDITO
Letizia MORATTI | Presidente del Comitato Etico dei Garanti – Comitato Tecnico Operativo ENM - Co-fondatrice Fondazione San Patrignano
< >Stiamo vivendo un’epoca di profondo cambiamento nella quale domina una grande incertezza, entro cui però possiamo anche scorgere nuove opportunità.
Se abbiamo imparato qualcosa dalla crisi è che i vecchi modelli economici e sociali, così come l’approccio mutuato in primo luogo dalla finanza speculativa della ricerca del massimo profitto nel tempo più breve, non funzionano più.
Al contempo, per limitare il dilagare della sofferenza sociale prodotta dall’estendersi della crisi all’economia reale e alla vita concreta di milioni di presone i governi hanno dovuto impegnare enormi risorse finanziare a supporto delle fasce più deboli della popolazione e, ancor più, a tutela della tenuta del sistema creditizio.
Dal 2008 al 2013 il debito consolidato dei Paesi del G-7, per rimettere in sesto i sistemi bancari e far ripartire l’economia, è cresciuto di 18mila miliardi di dollari raggiungendo un record mai visto di 140mila miliardi.
L’Organizzazione internazionale per il lavoro ha segnalato all’inizio di questo anno che entro il 2019 più di 212 milioni di persone saranno senza lavoro, contro i 201 milioni del 2014.
Se il tasso di povertà globale era sceso nel 2010 a meno della metà del tasso del decennio precedente, a livello globale 1.2 miliardi di persone ancora oggi vivono in estrema povertà.
Questi numeri sono il segnale di un modello economico inadeguato che ha prodotto gravi emergenze sociali. È una situazione che nessuna società avanzata e civile dovrebbe tollerare e, soprattutto, che nessuna può permettersi perché costituisce il principale rischio di tensioni fra i vari settori della popolazione.
I sistemi di welfare tradizionale stanno diventando sempre meno sostenibili dai singoli Stati e già oggi in molti paesi si registrano gap miliardari tra la domanda di servizi pubblici e la capacità di far fronte a tale domanda. In Italia, secondo Oxford Economics, il gap entro il 2025 è stimato in 70 miliardi e 80 miliardi per la Germania e 170 per il Regno Unito.
Con i tassi di crescita appena citati non possiamo certo pensare che tale gap tra bisogni crescenti espressi dalle comunità e risorse pubbliche sempre più scarse per il finanziamento dei sistemi di welfare possa ridursi.
Non è un caso, dunque, che in ogni parte del mondo siano andati affermandosi con sempre maggior vigore idee, proposte e iniziative concrete improntante ad approcci culturali diversi, più attenti alle prospettive di lungo periodo, alle nuove generazioni, alla dimensione collettiva e comunitaria oltre che individuale, alle specificità delle dinamiche locali dei territori oltre a quelle globali, alle dimensioni sociali e ambientali oltre che economiche e finanziarie. Qui stanno le opportunità per costruire le basi di un mondo capace di affrontare con successo le enormi sfide che abbiamo di fronte.
In paesi con una marcata tradizione liberale come il Regno Unito e gli Stati Uniti, si stanno affermando soluzioni, anche di carattere normativo, volte a promuovere modelli d’impresa diversi e maggiormente orientati al bene comune.
La Circular Economy si basa sull’imitazione della natura, dove nessun rifiuto resta sprecato, ma viene reintrodotto nel sistema a beneficio di qualcos’altro. Ripensare, ridisegnare, ridurre, riusare, riciclare, recuperare le risorse sono le azioni che costituiscono il cuore di questa nuova economia. Quindi non solo produrre meno o sprecare meno, ma ripensare l’economia guardando ai cicli della natura.
Tra le esperienze globali, la Blue Economy teorizzata da Gunter Pauli può essere considerata un’evoluzione della Green Economy e sta già dimostrando non solo la sua validità in termini di sostenibilità ambientale, ma anche la sua capacità di generare competitività, maggiori flussi di reddito e al tempo stesso capitale sociale.
Il Movimento per l’Economia Positiva, teorizzato dall’economista francese Jacques Attali e al quale ho aderito con entusiasmo, è un formidabile strumento per promuovere una nuova cultura orientata alle generazioni future. Propone azioni da attuare e iniziative da sviluppare attraverso un approccio basato sulla triplice applicazione del principio di altruismo razionale, elemento fondamentale nella definizione dell’economia positiva: tra le generazioni (punto di riferimento nel tempo); tra i territori (punto di riferimento nello spazio); tra gli attori (punto di riferimento nelle relazioni).
In Italia, il Prof Stefano Zamagni ha rilanciato l’“economia civile”, riprendendo i concetti promossi dai Francescani nel XV secolo quando furono protagonisti dell’invenzione dei cosiddetti monti di pietà. L’economia civile cerca di tradurre la convinzione che una buona società è frutto sia di un mercato che funziona sia di processi che attivano la solidarietà da parte di tutti i soggetti. Se potessimo dirlo con un’unica espressione, diremmo che l’economia civile propone un umanesimo del mercato.
Complessivamente si tratta di una mobilitazione di energie e intelligenze su vasta scala che non si limita alla pur necessaria elaborazione teorica e non coinvolge solo studiosi ed esponenti del mondo accademico, ma, necessariamente, un’ampia platea di soggetti per lo più impegnati direttamente e quotidianamente, portatori di esperienza oltre che di competenze. Ed è importante che anche una sempre più ampia schiera di attori istituzionali a ogni livello, dall’ONU alle amministrazioni locali, mostri sensibilità e impegno per il cambiamento.
In quest’ambito è evidente come il Terzo Settore giochi un ruolo da protagonista. Non solo perché possiede uno straordinario patrimonio di conoscenze accumulato in decenni di esperienza su una gamma estremamente differenziata di attività svolte nei più disparati settori e territori, ma anche perché si pone su un piano spesso più avanzato rispetto agli attori economici privati e al contempo mostra un’efficacia d’azione senz’altro maggiore rispetto agli attori pubblici. Il Terzo Settore rappresenta la più importante alternativa di fronte, da un lato, alla crisi della finanza pubblica destinata a politiche di welfare e, dall’altro, alla difficoltà degli attori orientati al profitto, di farsene carico.
Recenti studi stimano che l’Economia Sociale in Europa rappresenti il 10% delle imprese europee e occupa circa il 7,4% della forza lavoro nell’Europa. Il fenomeno è cresciuto costantemente tra il 2002 e il 2010 incrementando i posti di lavoro da 11 a 14,5 milioni. Nel nostro paese, vale circa il 5% del PIL, con oltre 300mila organizzazioni che danno lavoro a quasi un milione di persone. Siamo il paese in cui storicamente l’economia sociale ha trovato un terreno più fertile. A questi si aggiunge il peso del volontariato, attualmente uno dei capisaldi del non profit in Italia, che ha da tempo superato la soglia dei 4,7 milioni di persone impegnate.
Uno dei punti cruciali su cui in molti stanno lavorando da tempo è proprio quello delle forme innovative di finanziamento a sostegno delle imprese sociali.
A livello comunitario, per esempio, in questi anni sono stati molteplici gli sforzi per cercare nuove soluzioni. Innanzitutto grazie al lavoro compiuto dai Commissari
Barnier, Tajani e Andor, e alla Social Business Initiative, alla Dichiarazione di Strasburgo o alla Social Impact Investment task force del G-7. Con lo stanziamento nel budget 2014-2020 da parte dell’unione Europea di 1 miliardo di Euro a favore delle imprese sociali, lo scenario è quello di un’Europa che punta sull’impresa sociale come volano di sviluppo sostenibile, provando a creare un contesto per attirare buoni capitali privati.
Alla pluralità di soggetti coinvolti nell’Economia Sociale corrisponde l’ampia gamma di strumenti di finanza innovativa sviluppata nel corso degli ultimi anni a loro servizio, cui anche il lavoro di produzione legislativa a livello istituzionale ha dato recentemente impulso. Loans, equity investment, Social Bond, Social Impact Bond, Development Impact Bond e securitizations.
Il microcredito, che ha radici antiche, in questo contesto ha potuto e potrà affermarsi sempre di più. Sappiamo che in Italia nel 2013, nonostante l’assenza di regolamenti attuativi, aveva raggiunto i 65 milioni di euro rispetto ai 25 milioni del 2012. Oggi, grazie al completamento dell’intero impianto normativo possiamo ragionevolmente immaginare che conoscerà un’ulteriore fase di crescita. E sappiamo che, oltre al finanziamento di iniziative imprenditoriali e di inserimento nel mercato del lavoro, il microcredito rappresenta un’opportunità fondamentale per progetti con obiettivi specificamente di carattere sociale.
La Comunità di San Patrignano, con Banca Prossima, la banca del Gruppo Intesa Sanpaolo dedicata esclusivamente al non-profit, Banca Carim, Fondazione Marche, Accenture e Vobis ha dato vita, alla fine del 2013, a un progetto di microcredito che ha l’obiettivo di sostenere la costituzione di piccole imprese da parte di quei ragazzi che, terminato il percorso di recupero in Comunità, intendono reinserirsi nella società ma soprattutto nel mondo del lavoro.
Grazie a un fondo di garanzia, costituito dalla Fondazione San Patrignano, integrato da Fondazione Marche e affidato a Banca Prossima e a Carim, i ragazzi della Comunità che intendono impegnarsi come neoimprenditori potranno accedere a finanziamenti messi a disposizione da Banca Intesa per un importo massimo di 25mila euro.
L’iniziativa ha visto il coinvolgimento diretto di educatori di San Patrignano in affiancamento ai ragazzi nella fase preparatoria e di start-up della propria impresa. Educatori formati presso la scuola di formazione per Operatori del Microcredito, promossa dalla Fondazione San Patrignano con la direzione scientifica dell’Università Bocconi di Milano.
Si tratta di un punto cruciale. L’erogazione non basta. Al contrario, il valore principale sta proprio nel generare condizioni di sostenibilità durevole dei progetti finanziati, affinché si crei un circolo virtuoso. A due anni dall’avvio del progetto, le nuove micro-imprese nate dai ragazzi usciti da San Patrignano sono attive ed economicamente stabili e ognuna di esse ha creato occupazione per circa altre 2 o 3 persone.
Impegniamoci quindi a diffondere lo strumento del microcredito, in grado di creare opportunità di lavoro in particolar modo ai giovani che in questo momento hanno bisogno di grande sostegno.
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NUTRIZIONE, ULTIMA FRONTIERA: LA DIETA "SPAZIALE"
Enza Colagrosso
< >
Samantha Cristoforetti è finalmente rientrata dal suo viaggio nello spazio, durato quasi 7 mesi.
L’incidente occorso al Progress59, la navicella russa finita fuori controllo dopo il lancio, ha infatti impedito il suo ritorno sulla Terra per la data stabilita. L’astronauta ESA/ASI ovviamene non si è persa d’animo, e ha colto di buon grado l’opportunità di poter raggiungere il primato di permanenza di una donna nello spazio. Nel frattempo Samantha ha continuato a inviarci incredibili foto del nostro pianeta e ad aggiornare il suo Avanposto 42 con nuovi dati su quello che è stato il tema che ha scelto per la sua comunicazione: la nutrizione.
A proposito sapete perché la Cristoforetti ha denominato “Avamposto 42” il suo blog interstellare? Forse ricorderete che nel romanzo di fantascienza di Douglas Adams: “Guida Galattica per gli Autostoppisti”, un libro di fantascienza un po’ umoristica, a una non ben specificata domanda sul senso della vita e dell’Universo, il computer, “Pensiero Profondo”, dopo averci pensato per sette milioni e mezzo di anni, risponde: 42! Quarantadue, è poi anche il numero della spedizione a cui sta partecipando l’Astronauta italiana. Ecco la concomitanza che ha portato alla definizione del nome di quel luogo virtuale, dove Terra e Spazio si stanno incontrando da diversi mesi. E’ nato così Avamposto 42! Dal suo sito, Samantha, ci ha raccontato la sua esperienza di “abitante dello Spazio”, tanto da farla diventare un po’ “l’esperienza” di tutti, perché condivisa giorno per giorno. Ma cosa c’entra il tema della nutrizione in una spedizione spaziale sulla ISS. Per rimanere nello Spazio gli astronauti devono seguire un regime alimentare equilibrato che permetta loro di dare un apporto giusto all’organismo che vive, ovviamente, mesi di forte stress fisico. Va tutelato, per esempio, il loro apparato scheletrico e quello muscolare, cercando di ridurre al minimo le conseguenze di una prolungata mancanza di gravità. E se si riesce a trovare la giusta dieta per chi soggiorna nello Spazio come non trovarla per chi sulla Terra ci vive! Questa è la riflessione fatta da Samantha Cristoforetti che ha così deciso di far conoscere, a tutti coloro che hanno seguito la sua missione, poche e semplici regole, sull’interazione tra il cibo e corpo. Conoscenze che per lei hanno rappresentato un’esperienza dai risultati molto positivi in termini di salute e benessere.
Non dimentichiamo poi che questo è l’anno di Expo 2015 che ha voluto esplorare proprio il tema dell’alimentazione nel mondo, e questo non solo per mettere in vetrina usi e modi legati alla nutrizione, ma per suscitare una riflessione mondiale su come questa deve cambiare per preservare e curare la salute fisica e mentale dell’uomo ed assicurare la giusta somministrazione di cibo a tutti gli abitanti del pianeta, arginando finalmente così quel processo, ormai ingiustificabile, per cui dei popoli buttano gli alimenti, mentre intere popolazioni non ne hanno. Samantha Cristoforetti partecipa a questa riflessione con i suoi “spunti spaziali”, lanciati, quasi ogni giorno, dalla ISS che contengono tutta una serie di consigli e di considerazioni sulla nutrizione tesi a scalzare luoghi comuni per far spazio a idee nuove sul modo di mangiare. Come e cosa mangiamo infatti, e il tempo che dedichiamo a prepararci il cibo definiscono esattamente quanto e come ci prendiamo cura di noi. E’ ormai certa una cosa però: mangiamo molto di più di quanto consumiamo e questo ci sta rendendo sempre più grassi. Gli scienziati concordano nell’affermare che alla base di quanto appena detto, c’è il fatto che l’essere umano è stato programmato per procacciarsi il sostentamento in un ambiente ostile, e con poco cibo a disposizione. E’ stato predisposto inoltre per ingrassare perché, in una condizione in cui doveva impegnarsi con un lavoro fisico e una fatica continua, accumulare grasso gli dava una maggior garanzia di sopravvivenza. Il nostro DNA non è cambiato nel tempo, è solo drasticamente mutato il rapporto tra calorie introdotte e quelle consumate a causa del cibo sempre più a portata di mano e della trasformazione del lavoro, da fisico, a intellettuale. Nel tempo poi è cambiato anche il cibo, è diventato sempre più raffinato e povero di fibra ed è cambiato il nostro rapporto con esso, da quando abbiamo iniziato a considerarlo fonte di emozioni piuttosto che semplice mezzo di sostentamento. Questi più o meno si possono considerare i contorni che delineano quella che è oggi la problematica che investe il nostro modo di alimentarci. Ecco allora che Samantha, per farci capire l’importante distinzione tra una nutrizione scelta, rispetto ad un “mangiare veloce e casuale”, ha posto l’accento sul valore dell’assunzione del cibo giusto, con il quale si possono prevenire o curare patologie come quelle che riguardano l’apparato cardiocircolatorio, ma anche il diabete ecc. L’attenzione al nostro apparato cardiocircolatorio, ad esempio, passa attraverso una attenta alimentazione che prevede un consumo limitato di zuccheri, cereali raffinati e grassi idrogenati e saturi, e preferisce invece cereali integrali, pesce azzurro ricco di omega-3 e olio extravergine di oliva, alimenti capaci di innalzare i livelli di colesterolo HDL o di abbassare i livelli di LDL. Sembrerebbe facile e ovvio mangiare così, ma non lo è visto che ormai è altissimo il numero delle persone che mangiano regolarmente junk food, il cosiddetto cibo spazzatura. Anche per questo i consigli della nostra Astronauta diventano un ottimo promemoria per rivedere la lista degli alimenti che normalmente ingeriamo. Lei, con l’aiuto di Stefano Polato di Argotec, l’azienda italiana che ha preparato il cibo per la missione “Futura” e in particolare proprio per la Cristoforetti, ci suggerisce, ad esempio, che gli oli vegetali, ricavati dai frutti o dai semi di molte piante, sono un’ottima alternativa al burro e alla margarina, troppo spesso usati in cucina, perché rispetto a questi sono molto meno impattanti per l’organismo e, se si fa attenzione al loro “punto di fumo
1” sono certamente anche più salubri. Frutti e semi sono anche una fonte ricca di nutrienti tanto che sono stati scelti per preparare quelli che sono diventati i famosi snack di Samantha: le barrette con le bacche di Goji, il cioccolato e la spirulina. Argomento non meno interessante quello che tratta delle proteine, che servono, ma non vanno prese in quantità eccessiva perché possono rendere la nostra dieta troppo acida con conseguenze negative sul nostro sistema muscolo scheletrico. Questo, in particolare, per le persone che praticano pochissima attività fisica, cioè un po’ per tutti! E’ bene però ricordare che si possono assumere proteine anche dalle verdure: carciofi, cavoli peperoni funghi prataioli ecc, ne sono ricchi e sono in grado di fornircene una buona dose anche la frutta fresca, quella essiccata e ovviamente i legumi, che sono anche ricchi di ferro e potassio. Leggendo Avamposto 42
2 si trovano notizie anche sullo zucchero e su quello che deve essere il suo giusto apporto al nostro organismo. Le nostre cellule hanno sicuramente bisogno di zucchero, ed è per questo che il nostro corpo lavora per produrlo nella misura che necessita. Molti studi sembrano far ricadere proprio sull’alto consumo di zuccheri, associati alla sedentarietà diffusa e a diete ad alto valore calorico, il diffondersi dell’insulino resistenza che di fatto è l’anticamera del diabete. Le fibre, si legge ancora sul blog spaziale, sono quasi assenti nella nostra alimentazione ormai fatta quasi completamente di cibi raffinati. Questo sta producendo effetti sempre più devastanti sul nostro organismo, perché la fibra assorbe zuccheri e grassi ed ottimizza il transito intestinale. In sua assenza sono sempre più diffuse le patologie del tratto gastrointestinale e quelle legate all’aumento della glicemia e del colesterolo. Parlando di colesterolo la mente va subito ai condimenti ed in particolare a quello più incriminato negli ultimi tempi: l’olio di palma. Lo mangiamo ogni giorno perché è presente in moltissimi alimenti, nei biscotti nelle merendine, nelle creme spalmabili, nelle patatine nei sughi pronti ecc. L’allarme è già stato dato: questo olio sembra ormai certo che produca danni al nostro sistema cardiovascolare e conduca inesorabilmente ad ammalarsi di diabete, visto che distrugge le cellule del pancreas. Una distinzione però va fatta tra l’olio di palma integrale, quello rosso per intenderci, con un alto contenuto di vitamine e sostanze antiossidanti, utilizzato però solo dai paesi produttori, e quello raffinato, trasparente, presente nella nostra industria alimentare per il suo costo bassissimo e completamente privo delle sue sostanze benefiche. E così mentre per produrlo si sta praticamente distruggendo la foresta tropicale, noi che lo consumiamo stiamo pagando un prezzo molto salato in termini di salute. La Cristoforetti ci parla ancora del valore nutrizionale del pesce e dell’importanza dei cereali nella dieta quotidiana e tutti noi speriamo che i suoi messaggi “cosmici” arrivino anche all’industria alimentare che, sotto la spinta dalla nuova consapevolezza dei consumatori, dovrebbe iniziare una produzione diversa, fatta di cibi che salvaguardano la salute della specie umana.
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NOTE< >
1 Temperatura a cui un grasso alimentare riscaldato comincia a decomporsi (disidratarsi) alterando la propria struttura molecolare e formando acroleina, una sostanza tossica e cancerogena. (Wikipedia)< >
2 http://avamposto42.esa.int/
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REALIZZARE IL MILLENNIUM GOAL
CIBO, SVILUPPO SOSTENIBILE E MICROIMPRESE
Claudio Landi
Contesto Storico
Il 2015 rappresenta il turning point delle strategie globali per lo sviluppo. Fermo restando il grande contributo che l’Expo riserva soprattutto a un’accelerazione radicale verso un netto cambiamento del vocabolario dello sviluppo, il dibattito globale è ormai orientato fortemente verso un concetto di sviluppo più ad una rimodulazione dei concetti di umanità, diversità e alla presa di coscienza di alcune errate strategie del passato1, che si concentra sulla parola chiave che racchiude lo spirito di ciò che caratterizzerà lo scenario dello sviluppo globale dei prossimi decenni: sostenibilità.
Il tema del cibo è al cuore del presente dibattito sull’obiettivo del dimezzamento della proporzione della popolazione che vive nella povertà estrema, posto dai MDGs. Secondo la visione ottimistica di Jeffrey Sachs, economista della Columbia University of New York in cui è dirigente dell’Earth Institute, è solo attraverso una più marcata cooperazione internazionale che risulta possibile raggiungere grandi risultati in modo sistematico e scientificamente fondato. Le trappole individuate da Sachs risiedono nello scarso risparmio, nella rapidità della crescita della popolazione dei PVS e nella povertà come fotografia della condizione attuale di quello che Paul Corrier definisce “l’ultimo miliardo”2. Secondo la visione dominante di Sachs, grazie alla scienza e alla tecnologia, coadiuvate da un nuovo approccio più incline a un’etica della responsabilità filantropica fondata sulla virtù civica tra le élite politiche ed economiche unitamente a un significativo flusso maggiore di capitali da investire nei PVS, sarà finalmente possibile centrare gli obiettivi del 2015 e addirittura debellare il fenomeno della povertà estrema entro la decade successiva.3 È in questo contesto che le Nazioni Unite hanno ripensato ai MDGs, proponendo a partire da settembre 2015, la sostituzione di questi ultimi con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, concepiti nella Conferenza dello Sviluppo Sostenibile Rio+20 nel 2012.
Studio dei casi
Le istituzioni di microfinanza (MFIs) svolgono un’importante attività di supporto alle popolazioni dei PVS, soprattutto per quanto concerne l’approvvigionamento alimentare e l’apertura di iniziative di credito agevolato in ambito agricolo. Per quanto riguarda gli interventi in situazioni di emergenza, le MFIs svolgono anche attività umanitarie, come la distribuzione di aiuti alimentari di emergenza, non solo per i loro beneficiari ma anche per le popolazioni colpite da calamità naturali. Dopo il violento ciclone Aila che ha colpito l’India e il Bangladesh nel 2009, Uattran una Organizzazione Non Governativa che lotta per la riduzione della povertà, ha fornito aiuti finanziari per l’avvio di piccole imprese tra i beneficiari gravemente colpiti oltre a fornire sostegno materiale, cibo e acqua potabile; la MFI bengalese Sabalamby Unnayan Samity (SUS) ha fornito a un basso tasso di interesse (4%) attività di prestito o di mutuo per l’acquisto o la ristrutturazione di abitazioni. La grande organizzazione per lo sviluppo e riduzione della povertà BRAC ha sostenuto i contadini poveri tramite l’erogazione di prestiti senza interesse nell’ambito dell’Agricultural Credit Program (ACP) al fine di incoraggiare gli agricoltori a produrre colture alternative adatte al clima locale come fagioli, mais e girasole per meglio predisporsi al cambiamento climatico e alla scarsa disponibilità di acqua.4 Nel caso del Bangladesh si può osservare come le MFIs abbiano saputo affrontare e arginare il problema dell’approvvigionamento delle risorse alimentari a fronte delle sfide poste dal cambiamento climatico e dalla estrema povertà. In uno studio condotto sul campo si sottolinea come i responsabili politici debbano mettere in evidenza il ruolo di MFIs e la loro necessità di affrontare il cambiamento climatico e la sicurezza alimentare, soprattutto con la concessione di prestiti agevolati alla popolazione femminile. I responsabili politici dovrebbero anche adoperarsi verso scelte razionali per favorire un equilibrio tra agricoltura e cambiamento climatico. Ad esempio, sempre per quanto riguarda il caso del Bangladegh, si è notato come della crescente salinità delle acque, dovuta al cambiamento climatico e dallo sfruttamento delle stesse per l’allevamento di gamberetti, abbia beneficiato soprattutto la classe ricca dei proprietari terrieri e che, senza una più efficace collaborazione tra MFIs e soggetti governativi locali, non sarà possibile ottenere risultati apprezzabili per soddisfare i bisogni degli strati più poveri della popolazione.5
Degne di nota anche le modalità di intervento di microfinanza proprie delle istituzioni islamiche, nell’area MENA e in Europa. Dare importanza all’analisi di questi metodi alternativi di intervento nell’ambito dello sviluppo rurale sostenibile e di riduzione della povertà, predispone a entrare in un’ottica di “incontro di civiltà” e di reciproca crescita. Nell’ambito dei prodotti di microcredito sharia-compliant, cioè conformi ai dettami dell’etica economica islamica, è opportuno segnalare alcune iniziative di successo. In Sudan l’Agricultural Bank of Sudan Microfinance Initiative (ABSUMI), creata nell’ambito dell’Agricultural Bank of Sudan (ABS), dopo essere entrata nel mercato della microfinanza tramite la concessione di piccolo prestiti (in media 130 dollari), ha allargato le proprie attività con programmi di sostegno dedicati soprattutto alla popolazione femminile. Tramite i suoi prestiti sulla base di contratti murabaha e musharaka, ABSUMI sostiene piccole attività agricole, l’acquisto di bestiame da ingrasso e di allevamento, e una serie di microimprese come il piccolo commercio, bancarelle di tè e fabbricazione di mattoni. In Siria, il progetto Idleb Rural Development Project, finanziato dal Fund for Agricultural Development (IFAD) delle Nazioni Unite, sta attualmente lavorando per migliorare la sicurezza alimentare e il reddito degli agricoltori e delle donne rurali in 140 dei villaggi più poveri del paese. Per fare ciò, i canali di credito ai progetti passano attraverso i sanadiq, istituzioni di microfinanza locali autonome che forniscono prestiti a persone svantaggiate che risiedono nelle aree rurali, in particolare donne. I sanadiq sono gestiti dalle comunità locali come fondi del villaggio, erogano prestiti sotto forma di finanziamento murabaha, beni che i mutuatari intendono acquistare. In compenso i clienti rimborsano attraverso un piano composto da piccole rate. I prestiti consentono agli agricoltori di bypassare usurai e rendere più profittevoli le proprie produzioni. Nel contesto del sistema bancario altamente centralizzato della Repubblica araba siriana, il concetto di sanadiq è rapidamente diventato uno dei più innovativi modelli di microfinanziamento di successo nel paese. Ad oggi, questi interventi hanno interessato ben 48 villaggi nella zona rurale di Idleb coinvolgendo più di 6.600 azionisti, il 45% dei quali sono donne. I tassi di rimborso hanno raggiunto il 98%. Altre iniziative di microfinanza islamica, sostenute dall’IFAD, sono state intraprese in Bosnia-Erzegovina tramite la Bosna Bank international (BBI) nell’ambito del Rural Enterprise Enhancement Project, tramite la combinazione di musharaka (business venture) e ijara (leasing). L’iniziativa mira a sostenere la crescita delle imprese rurali e l’aumento delle opportunità di lavoro in zone svantaggiate. In linea con la strategia di riduzione della povertà del governo, i programmi di assistenza dell’IFAD si concentrano sul sostegno alla produzione zootecnica su piccola scala, rafforzando le organizzazioni rurali e potenziando le attività degli agricoltori. Un esempio concreto di successo attraverso queste iniziative è la società MS Alem che, nel 2009, ricevette un prestito sharia-compliant da IFAD e BBI, utilizzato per l’acquisto e l’impiego di nuove apparecchiature per il trattamento degli animali e da investire in formazione professionale per modernizzare la propria infrastruttura di produzione di carne. L’azienda, fornita peraltro della certificazione halal per il mercato islamico, grazie all’apertura di questo credito, oltre ai profitti ha visto espandere le opportunità di lavoro interne e per i fornitori, risultando oggi una delle società leader nella industria nazionale della carne.6
Posizioni a confronto e possibili strategieSecondo alcuni teorici dello sviluppo, appartenenti a una scuola di pensiero cosiddetta “radicalista” rappresentata da Esther Duflo, che fa propria la metodologia randomista, il microcredito risulterebbe uno strumento limitato di aiuto, non sempre efficace a liberare la maggioranza delle persone dalla trappola della povertà. Per sostenere questa tesi
.7 Duflo e Banerjee, entrambi docenti di economia al MIT di Chigago, fanno riferimento a indagini metodologiche sperimentate sul campo che proverebbero disinteresse, da parte degli strati più poveri della popolazione mondiale, a diventare imprenditori di se stessi preferendo lavorare, piuttosto, alle dipendenze di terzi. Duflo, inoltre, cerca di dimostrare come le microimprese non generino incrementi di reddito sostanziali proprio perché concentrate all’interno di un segmento di mercato a basso contenuto di lavoro qualificato
.8Molte le critiche mosse a questo approccio metodologico basato sui randomised controlled trials (RCT) applicati alla cooperazione allo sviluppo e allo studio della povertà, tra cui la selezione di campioni non sufficientemente ampi, come il trarre delle conclusioni da risultati statistici basati su medie matematiche e dunque difficilmente applicabili ai singoli casi, non permettendo generalizzazioni, oltre ad essere esposte a manipolazioni al fine di ottenere i risultati desiderati. D’altra parte, diverse teorie giungono a conclusioni differenti nello stesso ambito, puntando a un approccio alternativo a quello dell’impostazione tecnico-liberista applicata ai programmi di sviluppo che pone al centro l’inserimento di piccoli produttori nei mercati internazionali a sostegno di una più ampia produttività agricola e alimentare nei PVS, che abbia come protagoniste le organizzazioni governative e non che implementino programmi di microcredito rurale
.9 Il “post-2015” preannuncia una svolta storica per il dibattito ormai secolare sullo sviluppo globale. Alcuni studiosi, come Poku e Whitman, sostengono la tesi che i MDGs debbano essere più rispondenti alle esigenze e alle peculiarità dei contesti locali
10. Altri, come Sumner e Tiwari, danno maggior enfasi all’introduzione di una serie di misure per riformare il quadro generale del sistema economico internazionale, soprattutto per quanto riguarda l’approvvigionamento alle risorse alimentari e la lotta alla povertà estrema
.11Nel dibattito in corso tra le diverse posizioni scientifiche che animano sedi accademiche e istituzionali, risulterà decisivo lo sforzo a superare impegni e strategie meramente tecnocratiche per fornire risposte efficaci alle esigenze di democratizzazione e giustizia sociale nei PVS, oltre alla volontà di porre rimedi effettivi alle emergenze umanitarie
.12 In questo contesto, la tematica del cibo come elemento caratterizzante lo sviluppo sostenibile globale risulta essere la questione centrale. Accelerare sui programmi di accesso al credito per i soggetti non bancabili al fine di sostenere le microimprese nel settore agricolo come in quello alimentare, potrebbe offrire maggiori opportunità di crescita nelle zone rurali dove si concentrano gli strati di popolazione più poveri. Puntare su uno sviluppo più attento alle esigenze regionali, in stretta collaborazione con organizzazioni locali governative e non, evitando di proporre sterili programmazioni tecniche che a stento rispondo alle esigenze di base dell’ “ultimo milione”.
N< >OTE
< >1 Per approfondire: Dambisa Moyo, La carità che uccide, Rizzoli, 2010
< >2 Paul Collier, L’ultimo miliardo. Perché i paesi più poveri diventano sempre più poveri e cosa si può fare per aiutarli, Laterza, Roma-Bari, 2009
< >3 Jeffrey Sachs, Il prezzo della civiltà. La crisi del capitalismo e la nuova strada verso la prosperità, Codice Edizioni, Torino 2012.
< >4 Per approfondire il tema del rapport tra microfinanza e cambiamento climatico: Agrawala Shardul e Maelis Carraro, Assessing the role of Microfinance in fostering adaptation to climate change, OECD Environmental Working Paper No. 15, 2010; Anna Hammil, Richard Mattew e Elissa McCarter, Microfinance and Climate Change Adaptation, Institute of Development Studies (IDS) Bulletin, Volume 39, Numero 4, Settembre 2008
< >5 Gulsan Ara Parvin, Role of Microfinance Institutions to Enhance Food Security in the Climate Change Context: Gender based analysis of rural poor community of Bangladesh, Technical Progress Report #1, Pathikrit – Social and Human Development Organization, Aprile 2012
< >6 IFAD, Islamic Microfinance: Unlocking new potential to fight rural poverty, Novembre 2014
< >7 Abhijit V. Banerjee e Esther Duflo, Poor Economics: A Radical Rethinking of the Way to Fight Global Poverty, PublicAffairs, 2011
< >8 Esther Duflo, Microcrédit: Miracle ou Désastre?, Le Monde, 11 Gennaio 2010
< >9 Neil Renwick, Millennium Development Goal I: Poverty, Hunger and Decent Work in Southeast Asia, in “Third World Quarterly” n°32 issue 1, pp. 3-8, 2011
< >10 Nana Poku e Jim Whitman, The Millennium Development Goals: Challenges, Prospects and Opportunities, in “Third World Quarterly” n°32 issue 1, pp.65-89, 2011
< >11 Andy Sumner, Meena Tiwari, After 2015: What Are the Ingredients of an ‘MDG-Plus’ Agenda for Poverty Reduction?, in “Journal of International Development”, numero 21 issue 6, pp. 834-843, 2009
< >12 Si veda il Revised Target Document del 7 maggio 2015 proposto alla Intergovernmental Negotiation on the post-2015 development agenda:sustainabledevelopment.un.org/content/documents/7109maypost2015agenda.pdf
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SERVIZI AUSILIARI
il traguardo dell'assistenza: uno sviluppo equilibrato del Microcredito
Lucia CAVOLA | * Esperta in monitoraggi e valutazioni
Nel corso degli anni 2011-2013 il microcredito si è dimostrato in forte crescita, tanto sul versante sociale che su quello produttivo. I risultati del monitoraggio condotto dall’Ente Nazionale per il Microcredito fanno registrare, infatti, ben 22.600 utenti nel triennio, suddivisi tra una maggioranza (63%) che ha ottenuto un prestito socio-assistenziale e una minoranza (37%) che ha conseguito un sostegno finalizzato all’impiego (grafico 1). Negli stessi tre anni ammontano a oltre 223 milioni di euro le risorse complessivamente anticipate a tali beneficiari (grafico 2), destinate per il 70% alla creazione di lavoro e per il restante 30% a coprire bisogni sociali, con importi medi evidentemente molto diversi: meno di 5mila euro nel caso del microcredito sociale, contro quasi 19mila in ambito produttivo. Una mole di finanziamenti, mobilitata da operatori sempre più attivi come quelli monitorati, che attraverso lo strumento del microcredito ha arginato l’esclusione finanziaria e sociale di un numero rilevante di persone. Contestualmente, cresce anche la domanda esplicita di microcredito (grafico 3), che si dimostra 2,3 volte più consistente del numero dei prestiti effettivamente erogati, segnalando che l’offerta disponibile non è attualmente ancora in grado di soddisfare le lievitanti richieste, in special modo quelle per il microcredito produttivo che trovano una risposta solo nel 36,4% dei casi.
Il trend positivo del microcredito si inserisce in una fase economica in cui la crisi sta pesantemente investendo il mercato del lavoro, come testimoniano i recenti dati (Istat, marzo 2015) sull’innalzamento del tasso di disoccupazione, che ha raggiunto il 13%, portando la quota della disoccupazione giovanile al 43,1%. Contemporaneamente, va aggravandosi il fenomeno del credit crunch: il numero di imprese, soprattutto di piccole dimensioni, che lamentano di essere penalizzate è in continuo aumento e i tassi di variazione dei prestiti bancari sono ampiamente negativi. Nel 2013, secondo la Relazione annuale della Banca d’Italia (maggio 2014), i prestiti a residenti erogati dalle banche operanti in Italia sono diminuiti del 3,7% (-0,2% nel 2012). La riduzione dei prestiti ha interessato soprattutto quelli destinati alle imprese (-5,0%), mentre è stata molto più contenuta per i mutui e gli altri finanziamenti alle famiglie consumatrici (-0,9%). In tale congiuntura, che sta facendo aumentare velocemente la platea di persone o microimprese che non ottengono il credito tradizionale perché non riescono a fornire adeguate garanzie di solvibilità, o perché, per le dimensioni contenute, i crediti richiesti non risultano interessanti per le banche, il microcredito si dimostra capace di fornire una risposta, di rappresentare un’alternativa significativa alla crescente domanda di credito.
Ciò grazie all’iniziativa di diversi attori, pubblici e privati, che da soli o più spesso riuniti in articolate partnership, concretizzano i diversi programmi di microcredito oggi all’opera in Italia. L’ultima edizione del monitoraggio sulle iniziative in corso (dati 2013) conferma che le esperienze di microcredito sono condotte per lo più da una pluralità di attori (grafico 4): solo nel 3% dei casi si registra la presenza di un unico soggetto che da solo gestisce il programma, mentre sono ben più numerosi e pari a quasi un terzo del totale i progetti condotti da due attori diversi, come pure quelli che vedono la presenza di tre diversi agenti (27,6%); nel complesso, sono il 38% le iniziative di microcredito fondate su partnership ancora più articolate, formate da almeno 4 soggetti. Le numerose sperimentazioni e varietà di pratiche che vanno diffondendosi in Italia ricevono la meritata attenzione da parte del legislatore italiano sin dal 2010, attraverso il Decreto 141 del 13 agosto 2010 che, nel riformare il TUB agli articoli 111 e 113, introduce alcune disposizioni relative ai soggetti beneficiari e agli organismi che lo erogano.
Nello specifico, l’articolo 111 fissa i caratteri oggettivi del microcredito (importi e servizi accessori), quelli soggettivi (beneficiari e intermediari abilitati all’erogazione) e le condizioni economiche (tassi di interesse e garanzie); l’art. 113 definisce il quadro di vigilanza degli operatori e del mercato. Nel 2012, con il Decreto Legislativo n. 169 del 19 settembre 2012, sono state apportate alcune modifiche e integrazioni al Decreto 141/2010, ma è solo di recente, con il Decreto Ministeriale 17 ottobre 2014 n.176, che il Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentita la Banca d’Italia, emana le disposizioni attuative dell’art.111 del TUB.
Con l’approvazione della normativa di settore, l’Italia si pone all’avanguardia in materia di inclusione finanziaria e sociale, collocandosi quale terzo Paese europeo che si dota di una legge sul microcredito, dopo la Francia e la Romania e compie un passo importante verso uno sviluppo regolamentato del mercato microcreditizio, per assicurare comportamenti trasparenti e corretti da parte degli intermediari. La nuova regolamentazione prevede anche l’obbligo che alle attività finanziarie si accompagnino da parte dell’operatore, sia nella fase istruttoria che nel periodo di ammortamento del prestito, servizi ausiliari di assistenza e monitoraggio dei soggetti finanziati. E’ opinione condivisa, infatti, che il microcredito per essere efficace debba prevedere necessariamente tali attività collaterali, finalizzate in ultima analisi alla regolare restituzione del prestito.
Il regolamento di attuazione emanato con il DM 176/2014 chiarisce, all’art. 3, che nell’ambito del microcredito per l’avvio o lo sviluppo di iniziative imprenditoriali e per l’inserimento nel mercato del lavoro i servizi ausiliari di assistenza e monitoraggio dovranno essere almeno due dei seguenti: a supporto alla definizione della strategia di sviluppo del progetto finanziato e all’analisi di soluzioni per il miglioramento dello svolgimento dell’attività; b formazione sulle tecniche di amministrazione dell’impresa, sotto il profilo della gestione contabile, della gestione finanziaria, della gestione del personale; c formazione all’uso delle tecnologie più avanzate per innalzare la produttività dell’attività; d supporto alla definizione dei prezzi e delle strategie di vendita, con l’effettuazione di studi di mercato; e supporto per la soluzione dei problemi legali, fiscali e amministrativi ed informazioni sui relativi servizi disponibili sul mercato; f supporto alla definizione del percorso di inserimento nel mercato del lavoro (se il finanziamento ha questa finalità); g supporto all’individuazione e diagnosi di eventuali criticità dell’implementazione del progetto finanziato. Le modalità con cui l’operatore di microcredito fornisce al soggetto finanziato i servizi ausiliari di assistenza sono disciplinati dal contratto di concessione del finanziamento che deve essere stipulato in forma scritta. Tali servizi possono essere erogati da una struttura interna dell’organizzazione dell’operatore di microcredito oppure possono essere da questo affidati ad altri soggetti specializzati (anche senza scopo di lucro, non solo imprese o lavoratori autonomi), sulla base di un contratto che obbliga questi ultimi a riferire periodicamente all’operatore di microcredito sull’andamento delle attività svolte e sui risultati conseguiti dai soggetti finanziati (2° comma).
Per quanto riguarda invece i finanziamenti destinati a promuovere progetti di inclusione sociale e finanziaria, i contratti di finanziamento specificano espressamente la destinazione dei fondi erogati e stabiliscono le forme e le modalità di svolgimento dei servizi ausiliari di assistenza dei soggetti finanziati nella gestione del bilancio familiare. Tali servizi devono in particolare fornire ai debitori informazioni utili a migliorare la gestione dei flussi delle entrate e delle uscite e realizzarsi durante l’intera durata del piano di rimborso del finanziamento. Anche in questo caso tali servizi possono essere prestati direttamente dall’operatore di microcredito ovvero affidati ad altri soggetti specializzati (come all’art. 3, comma 2). E’ opportuno a questo punto domandarsi se e quanto gli operatori di microcredito sono pronti ed attrezzati ad affrontare la sfida delle attività ausiliarie di assistenza e monitoraggio previste dal legislatore, fermo restando che le norme regolamentari appena esposte sono intervenute solo negli ultimi mesi e si attende ancora che la Banca d’Italia disciplini modalità, termini e procedure con riferimento a: a) l’iscrizione e la gestione dell’elenco dei soggetti abilitati di cui all’articolo 111, comma 1, t.u.b.; b) la comunicazione di dati e notizie da parte degli operatori di microcredito con riferimento, tra l’altro, ai finanziamenti concessi e alla tipologia di servizi ausiliari prestati (art. 15, DM 176/2014).
La questione è ancora più stringente se si considera che è ai nastri di partenza anche l’intervento del Fondo centrale di garanzia mediante la concessione di una garanzia pubblica sulle operazioni di microcredito. Alla sezione dedicata alla garanzia del microcredito il Ministero dello Sviluppo Economico ha destinato 30 milioni di euro, cui si aggiungono i versamenti volontari effettuati da enti, associazioni, società o singoli cittadini, stimati in ulteriori 10 milioni. Anche in questo caso, i soggetti che erogano un’operazione di microcredito sono tenuti a prestare, a pena di inefficacia della garanzia, in fase di istruttoria e durante il periodo di rimborso, almeno due dei servizi ausiliari di assistenza e monitoraggio dei soggetti finanziati come previsto dal DM 176/2014. Le analisi quantitative e qualitative condotte nell’ambito del monitoraggio realizzato dall’ENM sulle iniziative di microcredito in corso sul tema dei servizi ausiliari, mostrano che i diretti protagonisti esibiscono approcci alquanto diversificati in tema dei servizi ausiliari, facendo emergere una realtà affatto fissa e invariabile quanto piuttosto in costante divenire, ancora in via di strutturazione, trasformazione e consolidamento. I dati quantitativi (grafico 5) indicano che nel 2013 le attività di supporto ex-ante sono certamente le più diffuse, presenti cioè in circa il 90% dei programmi di microcredito; un po’ meno capillari appaiono le attività di supporto ex-post, vale a dire i servizi di accompagnamento e tutoring offerti ai beneficiari dopo l’avvenuta erogazione del microcredito, offerti nei 3/4 dei casi circa; decisamente più rara appare invece l’offerta di servizi di formazione (formale o informale), presente nel 27,4% delle iniziative di microcredito. Negli ultimi due anni si registra anche un leggero ampliamento della diffusione di tali attività, sia di quelle ex-ante, sia di quelle ex-post, sia dei servizi formativi. Le evidenze empiriche mostrano, quindi, l’esistenza di una minoranza di iniziative di microcredito che operano in assenza di servizi ausiliari e che evidentemente dovranno per il futuro attrezzarsi per essere in regola con la nuova normativa.
L’analisi qualitativa ha permesso poi di rilevare diversi approcci adottati per realizzare le attività non finanziarie collegate al microcredito, così riassumibili: • un primo approccio, definito “essenziale”, concentrato cioè esclusivamente sull’erogazione di servizi finanziari e sull’accompagnamento alla redazione della domanda, senza attività di assistenza successive alla concessione del microcredito; • un secondo approccio, per così dire “autosufficiente”, basato sulla presenza di attività di tutoraggio post erogazione, ma svolte però dall’ente gestore, delegato dal promotore, con proprie risorse interne; • un terzo approccio “reticolare”, più diffuso e che assume diverse declinazioni, che fa leva sulle reti associative e di volontariato presenti sul territorio affidando e delegando soprattutto ai principali nodi di tali reti lo svolgimento di attività di assistenza; • un quarto approccio “esperto”, che offre servizi di supporto tecnico all’attività svolta dai beneficiari attraverso professionisti specializzati e reclutati sul mercato; • un quinto approccio “comunitario”, fondato sulla presenza massiccia e diffusa di animatori di comunità operanti in centri di ascolto che accompagnano i soggetti più deboli e vulnerabili nella ricerca di soluzioni a problemi non tanto e non solo finanziari; • infine, un approccio “in profondità”, piuttosto raro ma imperniato su attività individualizzate e di gruppo con accompagnamento personalizzato, costruito sui bisogni della persona. L’elemento che emerge con più evidenza dall’analisi qualitativa è che il supporto ai beneficiari di microcredito è molto spesso basato sull’opera di volontari, riuniti o meno in nodi formali, che non rappresentano una voce di costo se non in misura limitata, senza la quale difficilmente le iniziative di microcredito sarebbero sostenibili. Sono le reti sociali con diversi soggetti, sia pubblici sia del no profit, che magari già operano sul territorio a sostegno delle imprese, delle famiglie, dei soggetti più svantaggiati, che molto spesso reggono l’attuale impalcatura dei servizi di supporto e rappresentano un elemento costitutivo caratteristico degli interventi di microcredito, una componente quasi sempre costante e permanente. L’approccio reticolare è infatti molto diffuso e tende a caratterizzare soprattutto la fase precedente il conseguimento del microcredito, quella di animazione, ascolto e selezione della domanda, ma anche la fase successiva di accompagnamento e tutoring. Tale rete è talvolta sostenuta da accordi formali e convenzioni, ma anche da relazioni informali, originate dal comune obiettivo di venire incontro alle esigenze di soggetti in difficoltà sociale ed economica.
In termini più specifici, i principali protagonisti, in base all’esperienza fin qui compiuta, avvertono l’esigenza di attività ancora più vicine ai beneficiari di quelle fin qui realizzate, come ad esempio il “mentoring”, ma anche la necessità che esse siano condotte da soggetti che integrino competenze tecniche (hard skills), pur necessarie nei servizi di accompagnamento e tutoring connessi al microcredito, con soft skills, vale a dire con quelle competenze trasversali di tipo relazionale, abilità o qualità definite soft poiché intangibili, proprie della sfera personale e delle caratteristiche individuali del singolo. Si tratta di sfide molto impegnative che difficilmente possono essere affrontate se non disponendo evidentemente di specifiche risorse economiche da impegnare per l’erogazione dei servizi ausiliari, anche per scopi formativi dei volontari coinvolti.
A ciò si aggiunge la difficoltà di risolvere il problema tutto aperto del monitoraggio ex post dei beneficiari, un compito troppo spesso proclamato ma raramente realizzato dagli attori impegnati nel campo, che non dispongono di risorse economiche da dedicare allo scopo, sebbene sia sempre da considerarsi strategico per la valutazione dell’efficacia. Tutto questo induce a suggerire la necessità e l’urgenza di una funzione di compliance, che potrebbe essere assolta dall’Ente Nazionale per il Microcredito, per rafforzare un presidio organizzativo e di supporto volto ad assicurare l’osservanza delle prescrizioni riguardanti le attività di servizi ausiliari, in un’ottica prevalentemente preventiva di presidio dei rischi di carattere regolamentare e reputazionale.
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SPORTELLI SUL TERRITORIO
Sfida “Micro-Work”: “retemicrocredito” e autoimpiego
Alessandra MORI | Responsabile Comunicazione Progetto “Micro-Work” - ENM
"Micro-Work: rete per il microcredito e l’occupazione”. Un titolo “forte” per richiamare l’essenza e la mission del nuovo Progetto Ue messo in campo dall’Ente Nazionale per il Microcredito per creare un’innovativa “rete pubblico-privata” al servizio del cittadino-utente del microcredito. Una rete ripetutamente invocata in primis dai variegati soggetti del microcredito e da autorevoli giornalisti economici che sul tema microcredito indicano in essa il punto di arrivo per fare sistema attorno alle politiche per l’accesso al credito e per l’autoimpiego. L’ENM si fa interprete di questa esigenza attraverso un progetto sfidante che coniuga il nuovo e l’utile in tempo di crisi per le microimprese, lanciando la nuova “retemicrocredito” a servizio dei non bancabili, le fasce più deboli alle quali si rivolge. “La rivoluzione delle microimprese, oggi, viaggia in rete. L’Ente Nazionale per il Microcredito, impegnato da sempre per una costruttiva sinergia delle varie forze in campo a sostegno dei non bancabili- spiega il presidente dell’ENM Mario Baccini- attraverso il Progetto Micro-Work esporta la “retemicrocredito”, la piattaforma di servizio attivata nelle regioni del centro-nord. “Abbiamo creato”- continua- un grande aggregatore informativo, istituzionale, che riunisca la complessa macchina del microcredito, con i suoi molteplici attori anche nella direzione di una moderna ed efficiente pubblica amministrazione”.
Il nuovo Progetto, cofinanziato dai due PON del Fondo sociale europeo 2007-2013 nell’ambito di un accordo di collaborazione istituzionale tra Ente e Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, ha preso il via lo scorso novembre e si sviluppa nel solco del modello di intervento di rete pubblico-privata già attuata e sperimentata dall’ENM attraverso il “Progetto Microcredito e Servizi per il Lavoro”, che tra il 2013 e il 2014 ha realizzato i servizi informativi di orientamento e di accompagnamento sullo strumento del microcredito d’impresa e sugli incentivi per l’autoimpiego presso 95 amministrazioni locali ed enti pubblici di Campania, Calabria, Puglia, Sicilia. Forte del know-how della precedente azione, “Micro-Work” si pone ora l’obiettivo di valorizzare il modello sperimentato ampliando la portata territoriale alle regioni del Centro-Nord e migliorando gli aspetti qualitativi del servizio. Ripercorre il presidente Baccini: “Nella passata azione di sistema oltre 1000 cittadini non bancabili sono stati orientati dai 120 operatori degli Sportelli (dipendenti pubblici specializzatisi nella consulenza) anche grazie alla “retemicrocredito”, un unicum nel suo genere”. E aggiunge: “
È sulla base dei risultati ottenuti dunque che Ministero del Lavoro ed Ente hanno stabilito di proseguire l’intenso percorso avviato che conferma un trend positivo a giudicare dal boom di adesioni pervenute per l’iscrizione alla manifestazione di interesse. Un iter, lo diciamo con soddisfazione, che si arricchisce ancor di più dopo l’approvazione da parte del ministro Federica Guidi, del decreto di finanziamento del fondo di garanzia, in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, consultabile sul sito microcreditoitalia.org insieme ad un video esplicativo che guida gli utenti verso le opportunità e le modalità di accesso.
È il fondo che permette un prestito fino ad un massimo di 25mila euro, per aiutare chi ne fa richiesta a sviluppare la propria idea imprenditoriale, senza garanzie reali. Con la legge del 24 dicembre 2014 - prosegue - Mise ed ENM stabiliscono le tipologie delle operazioni, le modalità di concessione, i criteri di selezione e l’ammontare del fondo di garanzia, uno strumento pubblico di lotta alla povertà e all’esclusione sociale e finanziaria”. Dunque, la rete, asse portante del Progetto. Si configura come una rete “fisica” di sportelli sul territorio che sarà potenziata nel Centro-Nord e una rete virtuale che viaggia su retemicrocredito.it, la piattaforma informatica posta a sostegno dei servizi di consulenza, la quale agisce in sincronia gli altri due canali di informazione/ comunicazione: la homepage “Micro-Work” consultabile sul sito istituzionale dell’Ente (www.microcreditoitalia.org) e la newsletter diretta a Sportelli, operatori, amministratori locali, enti erogatori, servizi di accompagnamento.
La piattaforma invece consente di fornire info utili su programmi di microcredito e incentivi all’autoimpiego nei vari territori, raccogliere dati su consulenze erogate e caratteristiche degli utenti, mettere in contatto gli utenti con i soggetti/enti erogatori, garantire l’autoaggiornamento degli operatori grazie alla Fad. Un servizio innovativo che offre nuovo slancio allo strumento microcredito.
“Perché il microcredito- sottolinea il presidente Baccini- riguarda l’85% della forza lavoro del nostro Paese. Porta all’equilibrio tra mercato e economia sociale, includendo e rispondendo alle esigenze di chi non potrebbe accedere ai crediti bancari. Secondo il rapporto del nostro monitoraggio ogni beneficiario di microcredito riesce a sviluppare un effetto leva di 2,5 posti di lavoro. Con questo strumento siamo riusciti a creare in Italia 20mila posti di lavoro con 20 milioni di investimento”. Un mezzo che, se ben attuato, diviene prezioso veicolo per l’autoimpiego.
Ed è questo il fulcro della proposta “Micro-Work”. Una proposta colta dalle regioni del Centro-nord che scommettono sulla “retemicrocredito”. Lo dimostrano i numeri delle adesioni registrati in seguito alla pubblicazione della Manifestazione di interesse per la selezione delle amministrazioni, enti e università che ospiteranno gli Sportelli informativi sul microcredito e l’autoimpiego nelle regioni degli Obiettivi Competitività regionale e occupazione e Convergenza. Apertasi a fine gennaio, con scadenza fissata per il 28 febbraio, la manifestazione di interesse ha avuto un boom di richieste e a causa del grande afflusso sono stati prorogati i termini fino al 6 marzo scorso. Le manifestazioni di interesse pervenute alla scadenza dell’Avviso sono 136: 92 nuove adesioni, per oltre l’80% ricadenti nell’Ob. CRO, e 44 “rinnovi”di adesione da parte delle amministrazioni del Sud che hanno attivato uno Sportello tra il 2013 e il 2104 con il Progetto “Microcredito e Servizi per il Lavoro”. Micro-Work offrirà alle amministrazioni selezionate, con le quali sono stati sottoscritti i Protocolli di intesa, l’assistenza necessaria per l’avvio dello Sportello e l’offerta del servizio, sia attraverso specifici percorsi formativi in presenza sia grazie al supporto della piattaforma retemicrocredito.it.
Pone in evidenza il coordinatore Francesco Verbaro: “È interessante segnalare il notevole numero delle richieste ricevute in seguito alla pubblicazione della manifestazione di interesse per la selezione delle amministrazioni, enti e università che ospiteranno gli Sportelli informativi sul microcredito e l’autoimpiego nelle regioni degli Obiettivi Competitività regionale e occupazione e Convergenza. Una crescente attenzione che ha comportato la proroga dei termini della manifestazione di interesse.
Un dato importante, un segnale che conferma l’elevata esigenza da parte delle amministrazioni di fornire risposte al tema dell’occupazione anche attraverso il microcredito nelle diverse regioni italiane seppur nelle differenti necessità e difficoltà. S’intende in tal modo coinvolgere quei soggetti che già svolgono, o sono autorizzati a svolgere, attività di orientamento e accompagnamento al lavoro ai sensi di dell’art. 6 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n.276, affinché possano essere sviluppate nuove competenze in materia di orientamento al microcredito e agli incentivi per il lavoro autonomo e l’autoimpiego rivolti a coloro che sono alla ricerca di un’occupazione. Seguono le fasi della sottoscrizione dei protocolli di intesa e dei seminari formativi”.
Ed è proprio sulla informazione/formazione che il Progetto punta. Dopo la conferenza stampa di presentazione del 27 gennaio scorso a Roma presso il Campidoglio e il convegno di apertura a Milano del 5 febbraio presso la Camera di Commercio, l’attività esterna prosegue con i seminari formativi, in calendario tra il 25 maggio e il 19 giugno nelle città delle regioni italiane. Sono diretti a coloro che saranno incaricati di gestire gli sportelli informativi ed è per questa ragione che rappresentano una parentesi di fondamentale aggiornamento, un investimento nel capitale umano per i funzionari coinvolti, un’occasione che l’ENM offre per approfondire nel merito questioni dirimenti e complesse. I corsi nascono per trasferire ai funzionari indicati dagli enti: le conoscenze tecniche, le conoscenze tematiche, le conoscenze di analisi. Rappresentano in sintesi il primo momento di creazione di reti di discussione e confronto a livello locale e, in futuro, nazionale. Il percorso è concepito nella convinzione di comunicare tre idee chiave: innovazione, qualità dell’offerta informativa, servizio. “Perché - conclude il presidente Baccini - è nel servizio che risiede l’azione dell’ENM. La sfida è ambiziosa, coinvolgente, e va nella precisa direzione di una finanza che includa, finalmente”.
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