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NEET: proposte educative per contrastare il fenomeno

Fabio Massimo Castaldo, Eurodeputato e membro supplente della Commissione Eon, già Vicepresidente del Parlamento Europeo

Come è noto, il termine “NEET”, acronimo di “Not in Education, Employment, or Training”, identifica individui, principalmente giovani, che non sono coinvolti in alcuna forma di istruzione, occupazione o formazione professionale. Un fenomeno che si è notevolmente ampliato a seguito della crisi economica e finanziaria del 2008-2014 e che, solo ultimamente, con la fine della pandemia, ha iniziato a invertire la rotta nonostante i numeri siano ancora troppo elevati.

Un’intera generazione di giovani - soprattutto in Italia - resta fuori dal mercato del lavoro. Dato, questo, che desta non poche preoccupazioni per gli Stati Membri dell’UE e dell’OCSE. Giovani destinati ad affrontare maggiori rischi di esclusione sociale, in particolare, la possibilità di condurre una vita in povertà, avere limitate opportunità di carriera e, quindi, di non avere un adeguato e dignitoso stile di vita. In ultima analisi, possiamo dire che - a livello macroeconomico - rappresentano una vera e propria perdita sia in termini di capacità produttiva inutilizzata, sia in termini di protezione e assistenza sociale, mettendo sotto pressione l’intero sistema del welfare.

Stando agli ultimi dati Eurostat a disposizione, nella UE l’Italia è seconda solo alla Romania per percentuale di NEET tra i 15 e 29 anni, attestandosi al 19% contro una media europea dell’11.7%. La fascia di età più rappresentata è quella tra i 25-29 anni con un percentuale pari al 25,2%, il 10,1% è compreso tra i 15 e i 19 anni e il 25,1% tra i 20 e 24 anni.

I dati a nostra disposizione dimostrano che le persone più esposte sono quelle con un basso livello di istruzione (la cosiddetta low-skills trap1 elaborata da Lynn van Vugt), le donne e chi vive fuori dai grandi centri urbani. Discriminanti che, come sappiamo, si presentano non solo osservando la popolazione più giovane ma anche a livello sistemico.

Se a questi dati uniamo l’inverno demografico in atto nel nostro Paese e, come evidenziato in uno studio di Cassa Depositi e Prestiti del 2023, il contestuale sbilanciamento della struttura della popolazione verso le fasce più anziane, si possono verificare importanti distorsioni nel mercato del lavoro rendendo più complesso il meccanismo dell’incontro tra la domanda e l’offerta.

In effetti, sempre secondo l’analisi che ha analizzato le dinamiche demografiche e della forza lavoro in Italia2, solo nel 2022 nel 41% delle assunzioni sono state riscontrate difficoltà nel reperire candidati, sia per quanto riguarda personale altamente specializzato sia per quello meno qualificato. Un fenomeno che risente dell’uscita dal mercato del lavoro di personale a bassa scolarizzazione che non può essere sostituito con giovani con analoghe caratteristiche, e contestualmente dalla diminuzione di ingresso dei giovani mediamente più qualificati. Ciò limita il rinnovo di competenze che dovrebbe essere naturale in un mercato del lavoro efficace e flessibile.

Nel mercato del lavoro dei Paesi membri UE, inoltre, si evidenzia una preferenza verso contratti temporanei, part-time o occasionali, che interessano una vasta platea di giovani che si trovano, così, a fronteggiare condizioni lavorative precarie. Contratti - spesso coincidenti con il primo impiego – che rendono i giovani particolarmente deboli, precari, esposti durante le inversioni del ciclo economico, viste le scarse tutele tipiche dei contratti a tempo indeterminato.

La Commissione Europea ha evidenziato, inoltre, una mancanza di competenze di base tra i più giovani, inclusa la capacità di comunicare, lavorare in gruppo e con scarse attitudini di problem solving. In presenza di un surplus di manodopera, dunque, nella maggior parte dei casi si privilegiano individui con livelli di istruzione più elevati o con esperienza lavorativa. Questo, può determinare una esclusione dal mercato del lavoro della popolazione più giovane o confinarla in lavori a bassa retribuzione con successive scarse opportunità di crescita professionale.

La crisi finanziaria e del debito sovrano che hanno investito l’UE nel secondo decennio del XXI secolo prima, così come la pandemia COVID-19 successivamente, hanno reso questo scenario ancora più complesso tanto da portare molti giovani laureati ad accettare lavori per i quali sono sovra qualificati, nel disperato tentativo di entrare a tutti i costi nel mondo del lavoro, o lavori non in linea con il loro percorso accademico, sprovvisti quindi delle competenze necessarie. La (giusta) istruzione rimane, dunque, un fattore cruciale per renderci resilienti agli shock interni ed esterni. Senza di essa, l’accesso al mercato, la crescita professionale dei nostri ragazzi e ragazze, nonché la loro emancipazione dal nucleo familiare sono messe duramente a repentaglio, specialmente in un contesto così globalizzato e animato da rapidi progressi tecnologici - pensiamo all’impatto che l’Intelligenza Artificiale ha già ora su molte professioni oggi esistenti - e dai mutamenti fuori dal nostro controllo come visto negli ultimi anni tra crisi sanitarie, economiche, energetiche e geopolitiche.

Occorre affrontare questa sfida con un approccio integrato, con un impegno continuo e coordinato, sia a livello europeo sia a livello nazionale garantendo a tutti i giovani l’accesso a un’educazione di qualità, tassello fondamentale per arrivare a una società più inclusiva. Le policies devono essere mirate e favorire programmi educativi e formativi pragmatici, volti a fornire competenze immediatamente impiegabili.

Un ruolo cruciale dovrà, però, essere svolto da enti di formazione certificati che possano garantire, da attori del settore, l’alta qualità dei servizi offerti. Una formazione di successo è quella che garantisce una istruzione di elevata qualità. Anche per questo, gli ITS, istituzioni con un’impronta tecnologica altamente specializzata, non possono restare indietro ma, anzi, devono tenere il passo con il progresso continuo dell’innovazione tecnologica, digitale e ambientale.

Un tema su cui Azione ha sempre dedicato il massimo impegno, specialmente in sede parlamentare, è proprio quello dell’istruzione. Nell’ambito della Legge di Bilancio 2024 abbiamo presentato alcune proposte di modifica che si concentrano su due fattori decisivi ai fini della presente analisi: la dispersione scolastica e le borse di studio per gli universitari.

Oltre a detenere il primato europeo per il numero di NEET, l’Italia registra purtroppo anche il triste primato di abbandono scolastico che supera del 2% la media europea. Nel 2022, l’11,5% dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni ha lasciato la scuola precocemente, rispetto al 9,6% della media UE. Un gap dovuto principalmente alle profonde disparità che l’Italia registra a livello regionale, sia in termini di opportunità formative sia lavorative. Un fallimento sistemico affrontabile solo con una profonda rivoluzione del sistema nazionale d’istruzione, dalla scuola primaria alle superiori di secondo grado. Una rivoluzione da portare avanti, passo dopo passo, sradicando criticità e disuguaglianze.

Per combattere la dispersione scolastica e garantire livelli di occupabilità maggiori nel lungo periodo, ad esempio, è stata proposta una sperimentazione di tre anni nelle aree di crisi sociale più complesse, estendendo il tempo pieno a 40 ore settimanali per le scuole primarie e medie, nonché il potenziamento del sistema di Istruzione e Formazione Professionale (IeFP) per gli studenti dai 14 anni in su.

L’aumento di 10 ore settimanali consentirebbe agli studenti di dedicarsi ad attività extracurriculari di arricchimento dell’offerta formativa - come la partecipazione a laboratori, workshop e approfondimenti - non fruibili nell’orario normale, consentendo contestualmente una valorizzazione degli spazi esterni alla scuola.

Una proposta che ha una forte evidenza empirica che conferma quanto sia correlato il tempo pieno alla dispersione scolastica. Più tempo è passato a scuola più basso è l’abbandono. La misura avrebbe effettivi positivi sul rendimento scolastico degli alunni, specialmente le bambine, e i più svantaggiati in termini economici. Secondo Save the Children, infatti, un istituto scolastico che offre corsi extracurriculari aumenta del 167% la probabilità per gli studenti di potersi emancipare da situazioni di disagio socioeconomico, sostenendo anche i genitori a conciliare vita di cura e lavoro.

Questa riforma comporterebbe ovviamente dei costi, sia per l’assunzione di personale qualificato aggiuntivo, sia per il potenziamento o la costruzione di infrastrutture adeguate, come, ad esempio, palestre e mense. Per finanziare, in parte, la sperimentazione triennale nelle aree con il più alto indice di vulnerabilità sociale e materiale (IVSM), è possibile ricorrere ai fondi europei di riferimento. Il Fondo sociale europeo (che ha stanziato 14 miliardi di euro per investimenti a favore dell’occupazione e della crescita nella programmazione 2021-2027) potrebbe, in questo senso, essere utilizzato per l’assunzione del personale scolastico aggiuntivo, mentre per la realizzazione di nuove infrastrutture sarebbe disponibile 1 miliardo dei fondi del PNRR, mentre 3,7 miliardi sarebbero reperibili dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale.

Una sperimentazione parallela potrebbe interessare la scuola superiore. Come sappiamo, al fianco dei licei e degli istituti tecnici e professionali, esiste il sistema regionale di Istruzione e Formazione Professionale (IeFP) i cui titoli sono validi su tutto il territorio nazionale e assicurano un’adeguata formazione culturale di base, ma privilegiano l’apprendimento pratico tramite laboratori e stage, con circa 230mila studenti l’anno coinvolti. È bene notare come questi programmi registrino un tasso di successo lavorativo molto elevato, difatti, secondo i dati pre-pandemici, il 72% dei diplomati era impiegato. Per colmare il divario di competenze - il c.d. skill mismatch - nel mercato del lavoro italiano è necessario attivare nuovi percorsi quadriennali per gli studenti attualmente a rischio dispersione scolastica. Ciò consentirebbe di superare l’attuale tetto di soddisfazione della domanda prevista dall’offerta formativa leFP per il quadriennio 2022-2026, ad oggi fissata al 68%. La sperimentazione potrebbe contare su investimenti pari a 830 milioni di euro in sei anni, da ripartire tra gli istituti coinvolti nelle 20 province italiane più vulnerabili, alla fine della quale sarà valutata l’efficacia del programma.

Non possiamo, infine, escludere da questa “rivoluzione” le università. La percentuale di laureati in Italia è ancora estremamente bassa, circa il 27% nella fascia 30-34 anni, fanalino di coda rispetto alla media europea che si attesta al 42%. Ahimè, un Paese senza laureati non può che giocare un ruolo secondario nell’economia internazionale. Incentivare le iscrizioni, anche attraverso un numero maggiore di borse di studio è senza dubbio uno strumento utile e di visione. Facilitare l’accesso allo studio universitario, oltre al riportarci in linea con l’andamento europeo, migliorerebbe indubbiamente la qualità dell’offerta sul mercato del lavoro, al contempo apportando un grande beneficio alla comunità in generale. Inoltre, ampliare il contributo base della borsa e rendere mensile anziché semestrale l’esborso da parte dell’ente promotore, consentirebbe, inoltre, una maggiore indipendenza economica dalle famiglie che attualmente si sobbarcano - se e quando possono - l’onere del mantenimento, soprattutto quando si tratta di studenti fuori sede.

È una rivoluzione sì, ma gentile che guarda al Paese di domani, attraverso la lente dei giovani. Ed è nostra responsabilità, con il nostro lavoro e il nostro impegno, fornir loro la cassetta degli attrezzi per un futuro migliore.

1 The low skill trap. The failure of education and social policies in preventirng young people from being long- term NEET – Lynn vun Vugt, 2022

2 Dinamiche demografiche e forza lavoro: quali sfide per l’Italia di oggi e di domani? https://www.cdp.it/resources/cms/documents/CDP_Brief_Demografia_e_evoluzione_della_forza_lavoro_22052023.pdf

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