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RITORNO ALLA TERRA

Lapo Mazzei

I giovani laureati e diplomati guardano a un lavoro antico con le tecnologie moderne.

Forse è l’abbinamento con il cibo. O, forse, è solo un vero e proprio ritorno alle origini. Perché, in fondo, questo Paese il cordone ombelicale con la terra non lo ha mai reciso. E la cosiddetta fase di industrializzazione è stata solo una parentesi all’interno della quale ci siamo illusi che l’acciaio potesse sostituire il grano. Alla fine non è andata così.

Alla fine il passato ha vinto sul presente, opzionando il futuro. Non è un caso, dunque, se nel 2013 l’agricoltura è stato uno dei pochi comparti dell’economia italiana ad essere cresciuto. Stando ai dati elaborati dall’Istat, il valore aggiunto prodotto dai campi è aumentato del 4,7% rispetto all’anno precedente, un segno positivo costante che, secondo associazioni di categoria, potrebbe trasformarsi in 100 mila posti di lavoro nei prossimi tre anni. Possibile? Tornare alla terra significa valorizzare di nuovo l’agricoltura creando sinergie con imprese, università, associazioni.
Sinergia, in effetti, è la formula che permette di trasformare un campo di grano in un asilo o in una scuola di formazione per giovani in cerca di lavoro. Coldiretti, ad esempio, ha avviato da un paio d’anni esperimenti di inserimento sociale e lavorativo che utilizzano le aziende agricole e le aree rurali dismesse come fulcro per il rilancio di settori economici, mestieri, servizi di welfare. Alla luce di queste esperienze l’agricoltura moderna si inserisce in una economia di mercato globalizzata che però ha avuto il difetto di ridurre la sostenibilità economica, ambientale e la coesione sociale, tipiche dell’agricoltura di un tempo. E questo, ovviamente, è uno dei nodi da sciogliere.
Proprio i giovani rappresentano una risorsa nuova per l’agricoltura. Le iscrizioni ad Agraria segnano un’impennata considerevole, con un +45% nell’ultimo anno. Inoltre, un’azienda su tre in Italia è guidata da imprenditori con meno di 35 anni. In pratica stiamo assistendo a un ritorno dei cervelli all’agricoltura, spiegano gli esperti del settore e docenti delle principali facoltà di Agraria. A Torino, per esempio, in cinque anni gli iscritti sono passati da 550 a 971 matricole e a 6 mesi dalla laurea la maggior parte degli studenti trova un impiego. Ad attirare sono soprattutto la consulenza e tutto il settore dei servizi che ruota attorno alle aziende. Dati che rispecchiano il quadro nazionale (+40% di iscrizioni ai dipartimenti di agraria in tutta Italia nel 2013) fatto di laureati che hanno voglia di ritornare alla terra e mettere a frutto le competenze per sviluppare sistemi sostenibili e idee di business vincenti. Ovviamente si è fatta stringente la necessità di puntare sul modello-azienda che fornisce prodotti e servizi. Chi si avvicina all’agricoltura lo fa spaziando in settori nuovi: le nuove tecnologie e le energie rinnovabili hanno infatti ampliato notevolmente il campo delle specializzazioni. Insomma, ritorno alla terra sì, ma guardando al futuro.
Alla luce degli effetti prodotti dalla crisi che blocca il nostro Paese, è del tutto evidente che vi sia più bisogno di contadini, che di poeti o fotografi. In questo terzo millennio, cominciato sotto l’ombra della crisi economica, coloro che hanno deciso di dedicarsi all’agricoltura in un modo nuovo, ma che profuma di passato, rappresentano una scommessa vinta. Un ritorno a un rapporto quasi passionale con la terra che si coltiva, si cura e dalla quale si trae sostentamento per la famiglia e per la società nel suo complesso. Il presupposto di partenza, ovviamente, è una rivalutazione della figura del contadino e della realtà rurale che esso rappresenta: un ruolo sempre più portatore di valori positivi da contrapporre a quello dell’imprenditore agricolo, proprio per rivendicare la distanza da una visione dell’agricoltura come industria.
All’interno di questo quadro generale, promuovere l’occupazione giovanile in agricoltura, non è solo una necessità determinata dall’offerta, ma una condizione essenziale di partenza: alla luce del dato sulla disoccupazione che supera il 42% nella fascia d’età 15-24 anni, sono sempre di più i ragazzi che decidono di tornare alla terra. E non si tratta più solo di figli che rilevano o continuano l’attività dei genitori, ma di diplomati o laureati che, a causa di una crisi che chiude le porte dei loro settori, scelgono di scommettere sulla vita dei campi.
A evidenziarlo è uno studio della Confederazione italiana agricoltori. D’altra parte le opportunità che il settore offre sono tante e stanno risvegliando l’interesse delle nuove generazioni: solo nel 2013 sono nate 11.485 imprese agricole, pari al 10% circa delle aziende neonate in Italia, e oltre il 17% di queste “new entry” ha un titolare di età inferiore ai 30 anni. Il 90% degli agricoltori “under 30” ha una scolarità medio-alta. E non ci sono più solo i laureati in Agraria, facoltà che dall’inizio della crisi ha avuto un picco di immatricolazioni (+40%) a fronte di una flessione delle iscrizioni all’Università (-12% in 5 anni). Cresce il numero di giovani “dottori” che decide di investire sulla campagna, ma partendo da percorsi formativi e familiari completamente estranei all’agricoltura, ci sono: educatori e psicologi che si dedicano all’agricoltura sociale e alle fattorie didattiche; esperti della comunicazione che gestiscono il marketing e la promozione dei prodotti sui mercati stranieri; economisti che amministrano l’azienda; erboristi e farmacisti che scommettono sulla fitoterapia e sulla cosmesi naturale; architetti che fanno “bio-edilizia” producendo mattoni artigianali di argilla e paglia completamente eco-sostenibili e riciclabili. Tutti esempi di una nuova idea di agricoltura, che non è più considerata un settore “vecchio”, ma un business innovativo e redditizio. Già oggi le 161 mila aziende, guidate da conduttori di età inferiore ai 40 anni, realizzano utili netti maggiori (il 23% del fatturato contro il 7% della classe d’età degli ultra 55) grazie anche a una maggiore attitudine al rischio e propensione all’export. Ma anche grazie a una più elevata sensibilità per le tematiche sociali e ambientali. Perché i giovani non si fermano solo agli agriturismi ma creano vere e proprie fattorie didattiche: in Italia le conducono il 4,7% degli “under 40” contro l’1,2% degli “over 40”. All’interno di questo contesto macroeconomico s’inserisce il capitolo relativo al credito. Anzi, al microcredito.
Il ruolo che il settore primario occupa nei Paesi in via di sviluppo, nonostante il suo contributo all’economia nazionale stia diminuendo, risulta essere ancora piuttosto cruciale. L’agricoltura, infatti, è ancora una delle maggiori fonti di impiego in questi paesi e costituisce una tra le più importanti voci della bilancia commerciale con l’estero. È bene, inoltre, sottolineare che la maggior parte della popolazione di questi Paesi vive in aree rurali ed è impiegata in agricoltura. Assumendo, però, la specificità concettuale di un’agricoltura che “imprime il movimento iniziale” a un’economia in nascita, essendo il settore capace di fornire a tutti gli altri un insieme di beni di sussistenza, non altrimenti producibili, che possono rappresentare la “quota parte” del capitale necessario all’avvio e alla continuazione di ogni processo produttivo, il microcredito (strumento di finanza etica) in agricoltura quindi può avere un ruolo centrale non solo nell’incremento di reddito degli addetti in agricoltura ma anche come volano per un più complesso processo di sviluppo economico. Ovviamente è necessario comprendere in che senso sia etica la finanza etica. È bene precisare però che non si vuole affermare che la finanza commerciale non sia etica, e quindi che tutti coloro che operano nel settore finanziario nei più diversi contesti abbiano un comportamento eticamente censurabile. Per dirimere tale questione è necessario evidenziare come la finanza etica faccia parte di quel fenomeno più ampio che è il consumo etico.
Dunque il microcredito è uno strumento di sviluppo economico. Esso consente l’accesso a servizi finanziari a persone in situazioni di povertà ed emarginazione, che altrimenti ne sarebbero escluse.
Secondo dati UNDP, il 20% della popolazione mondiale più ricco, accede al 95% del credito complessivamente erogato. La difficoltà di accesso ai canali bancari tradizionali è legata a: inadeguatezza o assenza di garanzie reali patrimoniali; dimensione ridotta delle microattività economiche (agricoltura, allevamento, produzione, commercio); impossibilità di liberarsi dai vincoli dell’usura. Grazie al credito, i beneficiari, hanno la possibilità di diversificare le loro fonti di reddito, questo è particolarmente importante per i poveri rurali che sono dipendenti dall’agricoltura e dalle variazioni del tempo.
Il reddito può essere diversificato con l’introduzione di attività agricole aggiuntive (es. nuove colture) o con attività non agricole. Insomma, per arare il campo occorre seminare in banca attraverso il credito.
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