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Sergio Bellucci

Giornalista e saggista

Keywords: jobs, Artificial Intelligence, Transition, crisis, startups

Abstract

Il passaggio storico che stiamo attraversando non è descritto dalla categoria di crisi ma da quella della Transizione. Il passaggio descritto dalla Transizione è definito come quello che indica il l’avvento di un nuovo modo di produzione del valore. Nuovi fattori produttivi crescono e si affermano, e nuove forme di tutela degli interessi rivendicano il loro ruolo all’interno della società. Nei nuovi settori di produzione del valore si contraddistingue un incessante laboratorio di startup ove vengono sperimentate soluzioni, prodotti e servizi che sempre più basano la loro innovatività sulle tecnologie digitali dell’Intelligenza Artificiale, dei Big Data, della Blockchain. Queste innovazioni sembrano spingersi solo verso la strada classica della produzione di “merci” mentre la società dei prossimi anni necessiterà di soluzioni in grado di attivare direttamente i corpi sociali nella generazione del soddisfacimento di bisogni individuali e collettivi. Proprio per la qualità della Transizione, l’intervento pubblico a sostegno deve poter guardare ad entrambe le necessità.

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The historical passage we are going through is described not by the category of crisis but by that of Transition. The transition described by Transition is defined as one that indicates the advent of a new mode of value production. New factors of production grow and become established, and new forms of interest protection claim their role within society. New areas of value production are distinguished by a ceaseless laboratory of startups where solutions, products, and services are being experimented with that increasingly base their innovativeness on digital technologies of Artificial Intelligence, Big Data, and Blockchain. These innovations seem to be pushing only toward the classic path of “commodity” production while the society of the coming years will need solutions that can directly activate social bodies in generating the satisfaction of individual and collective needs. Precisely because of the quality of the Transition, public intervention in support must be able to look at both needs.

L’assunto dal quale prende spunto questa riflessione è che la storia umana non stia attraversando una crisi ma una Transizione. Non si scambi questa affermazione inseguendo il linguaggio giornalistico o politico della fase per cui “tutto” è “transizione” (digitale, ecologica, sociale, ecc…). Transizione, dal punto di vista dottrinale, vuol dire che l’umanità ha iniziato (e ora è nel bel mezzo) di un passaggio storico, uno di quelli che accompagnano il mutamento generale che deriva dal passaggio di “modo di produzione” del valore.

La Storia umana ne ha vissuti alcuni e, in genere, si sono accompagnati a vere e proprie destabilizzazioni generali, rotture sotto ogni profilo, culturale, sociale, istituzionale e “rivoluzionarie”, sempre nel senso dottrinale di un cambio delle classi al potere, un passaggio che comporta la riscrittura dei “patti” fondativi dello stare insieme, delle logiche di relazione tra individuo e società e tra società umana e ambiente in cui vive. Questi passaggi così profondi si determinano sempre quando una quantità di nuovi fattori produttivi emergono dal fare della società e, man mano che prendono corpo e consapevolezza della loro “forza”, pongono il tema della propria centralità, della propria “egemonia” sull’intera società, sul mondo. Le trasformazioni profonde che attraversano questo tornante della Storia umana - incomprese e spesso ancora incomprensibili per via delle loro dinamiche complesse - contengono al loro interno sia fattori distruttivi sia fattori propulsivi e, al centro dei processi, si instaurano le potenzialità “ricombinanti” degli assetti sociali, del fare umano, delle sue regole, dei suoi stessi fini che rendono disponibile alle società umane cambiamenti epocali. La storia umana uscirà irriconoscibile agli occhi attuali entro un tempo brevissimo.

La fase di transizione, con le sue “rotture” di senso, ci impone di vedere le cose in modo diverso dal passato perché la natura e la forma delle stesse cose è differente. Il processo di rottura, a mio avviso, è evidenziabile a partire dalle trasformazioni del lavoro (e del senso umano connesso) e dalle conseguenze che ciò determina. Fenomeni inediti, come quello dei cosiddetti Neet – i giovani che in sostanza non chiedono più nulla alla loro vita e la attraversano solo in termini di “consumo” – o degli inoccupati – quelli che non hanno mai incontrato la possibilità di un lavoro salariato - o dei disoccupati, infatti, si incrociano con fenomeni come quello della Great Resignation, il fenomeno che vede, su scala mondiale, la rinuncia ad una occupazione salariata, un fenomeno che va ricercato nella “perdita di senso” della relazione tra il lavoro e la vita e che, nel nostro Paese fra aprile e giugno 2021, ha riguardato quasi mezzo milione di persone che hanno dato le dimissioni, secondo le rilevazioni del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Fenomeni che hanno diversi punti di innesco ma convergono nell’indicare la profondità degli elementi di rottura dei vecchi equilibri. La successione della crisi del 2008 e, successivamente quella del 2020, infatti, segnalano la fine di una storia secolare e l’inizio di una nuova fase che, proprio perché complessa e in divenire, è indefinita e indefinibile nei suoi esiti. Lo scoppio della Guerra Russia-Ucraina accelera e approfondisce fenomeni già in atto e apre, addirittura, nuove faglie. Ignorare la profondità degli smottamenti in atto significa esserne travolti. Per questo occorre essere consapevoli della qualità dei processi in atto per poter attuare scelte che, pur in una struttura complessa e in divenire, cerchino di orientare gli esiti verso una ipotesi di soluzione. Anche se in mezzo ad una tempesta, la barca non può essere lasciata senza una guida. Il timone va indirizzato e la rotta adeguata, istante per istante, verso l’approdo desiderato.

Uno dei fenomeni maggiormente percepiti e dibattuti durante la crisi pandemica del 2020 è stata l’accelerazione introdotta nell’organizzazione del lavoro dalla inoculazione, improvvisa e massiccia, del cosiddetto “smartworking”. In realtà, molti e complessi sono i processi di trasformazione del ciclo produttivo che vanno molto più in profondità rispetto ai “corni” che vengono rappresentati nel dibattito pubblico e che simboleggiano, in maniera troppo semplificatoria, le trasformazioni in atto e cioè lo smartworking, da un lato, e i riders, dall’altro. L’accelerazione del processo di digitalizzazione del flusso organizzato del ciclo produttivo (che fa parlare anche nei settori industriali, investiti dalla cosiddetta ‘industria 4.0’, quello legato alla realizzazione del cosiddetto ‘gemello digitale’ dell’impresa, cioè la sua rappresentazione in scala 1:1 dell’intero processo produttivo in termini di informazioni, della loro gestione e della capacità predittiva che da ciò ne deriva) prepara alla sostituzione prossima futura di intere filiere di professioni attraverso lo sviluppo di soluzioni di Intelligenza Artificiale. Ogni mansione (manuale o meno) che sia la gestione di un flusso decisionale “pre-organizzato” (dal e nel ciclo della produzione), infatti, sarà oggetto di una smaterializzazione progressiva e di un inglobamento nel ‘capitale fisso della macchina digitale’ attraverso lo sviluppo di ‘sistemi esperti’ (a partire dai cosiddetti machine learning1). Il processo della cosiddetta “robotizzazione”, oggi, non riguarda solo le mansioni “operaie” ma tutti i processi ciclici e le professioni che applicano “procedure”.

Le nuove condizioni relazionali, che sviluppano esigenze soddisfatte attraverso il “tempo impiegato nei social” hanno consolidato tendenze già potenti: la forza delle piattaforme dei social network, l’accelerazione delle piattaforme di vendita online, l’accelerazione delle soluzioni informatiche legate all’Intelligenza artificiale, della robotica e della Blockchain2, producono una trasformazione profonda sia del valore estratto (in genere legato all’informazione estraibile dal “consumo digitale”) sia delle forme produttive e delle professionalità legate al suo sviluppo. Intorno a queste tecnologie si sono consolidate forme di lavoro non salariato, come il lavoro implicito, e fanno capolino prime modalità di ‘lavori sociali 2.0’ che alludono alla possibilità di produrre direttamente “valore d’uso” senza passare per il famigerato “valore di scambio”.

Il cambio di scenario diviene sempre più profondo e necessita di una cultura nuova per essere compreso e utilizzato per i vecchi e nuovi bisogni umani. Anche le opportunità dei nuovi lavori (e i finanziamenti pubblici al loro sostegno) devono, a mio avviso, accompagnare i processi innovativi (non solo nuove aziende o startup) ma nuove forme di soddisfacimento dei bisogni attraverso le relazioni sociali che è possibile generare con le tecnologie digitali e la loro ubiquità applicativa. Le opzioni di intervento a sostegno e indirizzo dei processi (la barra di navigazione della barca nella tempesta) devono muoversi almeno lungo tre direzioni: la prima è il contenimento degli effetti della digitalizzazione del lavoro salariato (perdita occupazionale e salariale); la seconda è nello sviluppo di nuove società che necessitano al processo di digitalizzazione della produzione e dei servizi (in genere sono le classiche startup); la terza è legata allo sviluppo di soluzioni digitali che accompagnino l’emersione di forme sociali di produzione del soddisfacimento di bisogni e necessità, individuali o collettive, attraverso la produzione diretta di valore d’uso.

Una delle condizioni che evidenziano la natura della Transizione in atto, quindi, sono le trasformazioni del “Lavoro”. Il tema del lavoro (intendendo, almeno al momento, quello del lavoro salariato), oggi, non è semplicemente caratterizzato dalla sua incapacità a garantire la dignità umana e la stessa sussistenza e la sua difficile ‘redistribuzione’ ma della sua trasformazione ‘genetica’ che evolve verso una duplice possibilità: o come forma di dominio assoluto o come quella di una sua condizione e natura post-capitalistica o post-salariata.

Per poter intervenire con strategicità, allora, occorre osservare il quadro in evoluzione con occhi ipermetropi e inquadrare le tendenze nel medio periodo. Evitare le soluzioni a breve che non inglobino un pensiero “strategico”, anche quando sembrano poter tamponare una “emergenza”, può portare la barca fuori rotta o contro scogli inattesi.

Il processo di digitalizzazione ha accompagnato, in questi anni, sia la riduzione dei livelli salariali reali sia di quelli occupazionali. Il sistema basato sulla logica monetarista ha ridotto, progressivamente, la sua capacità di raggiungere il suo punto di ‘stabilità’ dell’equazione economica del sistema: l’equilibrio tra domanda e offerta. Quell’agognato ‘punto di equilibrio’ del sistema macroeconomico complessivo (e sempre più anche nella singola transazione economica, il livello microeconomico) sembra sempre più una chimera e forse pone la domanda fondamentale: in una economia che valorizza l’informazione può ancora essere il rapporto tra domanda e offerta a poter regolare il punto di equilibrio del sistema?

A livello macroeconomico, infatti, l’aumento della produttività non è stato accompagnato da un aumento dei salari analogo. Produrre più “pezzi” e avere meno salari in grado di comprarli (confidando sull’espansione dei mercati che venivano globalizzati) ha costruito le fondamenta di una crisi strutturale alla quale la qualità dell’impatto dell’Intelligenza artificiale sta producendo un fattore moltiplicativo. Alla crisi verticale del vecchio modo di produzione del valore si sta sommando la potenza che l’innovazione tecnologica digitale sta producendo. Sono note le analisi svolte da innumerevoli centri di ricerca che segnalano come l’arrivo di tali tecnologie comporterà la fine di intere filiere lavorative e il cambiamento di tutte le mansioni dei profili professionali.

Ovviamente, l’avvento di una nuova tecnologia, “centrale” ed ubiqua, nel processo produttivo genererà nuove professioni e un aumento degli occupati su tale comparto ma l’effetto globale sarà difficile da arginare. I posti di lavoro che nei settori verranno ad essere cancellati non potranno essere rimpiazzati, almeno per un periodo di tempo socialmente congruo, da quelli creati nelle professioni necessarie alla trasformazione in atto e da quelle aziende nuove che nasceranno intorno a nuovi bisogni prodotti dal cambiamento. Questo non toglie che le nuove frontiere dell’impresa e del lavoro saranno caratterizzate da una collocazione tutta generata nelle filiere della nuova informatica dell’Intelligenza Artificiale, dei Big Data, della Blockchain e di tutte le tecnologie connesse, come gli NFT.

Su questi territori specifici del mondo delle startup occorre alzare una allerta importante. Da un lato non basta avere una idea per generare una impresa (e qui segnaliamo la mancanza di cultura d’impresa nel corpo della nostra società). Dall’altra parte lo Stato e il settore pubblico non possono limitarsi a produrre bandi per distribuire 20 o 50 mila euro a fondo (più o meno) perduto e sentirsi assolti dal compito di promuovere l’innovazione. Servono capacità di lettura dei processi e di indirizzare lo sviluppo del settore digitale. Quello che serve al nostro Paese e all’Europa, non è semplicemente un capitolo di spesa (pubblica o nel bilancio della impresa) ove allocare i giustificativi di spesa per dei computer o degli smartphone o la creazione di un sito di e-commerce. Quello che servirebbe è la capacità di indicare che le nuove catene del valore non si generano con la produzione automatizzata di merci, con l’apertura di locali alla moda, casomai informatizzati, o con piccole attività artigiane digitali. Tutte attività anche interessanti ma le catene del valore che potranno consentire al nostro Paese di intraprendere una nuova stagione imprenditoriale e lavorativa riguardano la produzione del valore centrale nelle società digitali: l’informazione.

La crisi non è nel sistema ma del sistema. Se questo assunto viene condiviso, la successiva affermazione coerente è che non esista una ‘soluzione interna’. Questo, a prescindere dalle volontà soggettive e dagli sforzi che vengono profusi. È il ‘motore’ interno che si è rotto e il suo blocco rischia di portare con sé tutto l’impianto delle società del welfare che, faticosamente, avevamo costruito nel ‘900. Di fronte a tali scenari apparrebbe evidente a tutti che la soluzione possibile non è ricercabile né in nuovi meccanismi di immissione di liquidità nel sistema, né in una mera distribuzione più equa delle risorse. Queste due opzioni possono essere utili se e solo se sono utilizzate per ‘organizzare in maniera diversa’ il fare umano, la sua produzione, la sua logica di funzionamento. Per questo la fase che stiamo vivendo è fondamentale: dobbiamo utilizzare l’immensa leva finanziaria del PNRR per cambiare il motore, non per mettere benzina a quello che, ormai, si è inceppato.

1 Il Machine learning è la capacità di un software di “apprendere” (di modificare la propria risposta e quindi sé stesso) direttamente dai risultati del suo agire nell’ambiente dato, sia esso un ambiente informatico sia esso un ambiente fisico se il software presiede al funzionamento di un sistema robotizzato.

2 La Blockchain è la tecnologia informatica a base delle criptovalute. Il suo utilizzo, però, si presta ad ogni transazione, potendo garantire l’incorruttibilità del dato registrato. Si ipotizzano infinite applicazioni non solo in campo finanziario e bancario (già largamente usate) ma anche nei settori della vita comune. Garantendo la certificazione di una transazione alcuni parlano direttamente della possibilità di sviluppare il “tecno-baratto” potendo associare direttamente un valore (leggibile e trasferibile) all’oggetto che si vuole scambiare. Valore e merce connessi in un connubio totalmente nuovo (o antichissimo).

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