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La trasformazione delle imprese con la partecipazione dei lavoratori. Il sogno di Moby Dick prende forma nelle aziende italiane
In una società sempre più complessa, in cui la piccola e media impresa rappresenta il motore indiscusso dell’economia nazionale, anche le forme societarie si stanno trasformando. Da un lato emergono nuovi modelli ispirati alla circolarità d’impresa, alla sostenibilità e alla produttività; dall’altro si afferma una crescente attenzione verso la partecipazione sociale del lavoratore, che contribuisce a ridefinire un rinnovato senso di appartenenza e di “corporativismo” inteso non in chiave storica, ma come strumento per valorizzare il ruolo attivo del dipendente. In questa prospettiva, il lavoratore non è più considerato soltanto un mezzo della produzione, bensì un fine: una misura concreta dell’efficienza e della capacità dell’impresa di generare valore condiviso. Anche la legislazione, come corpo vivo, si sta adeguando a questo nuovo paradigma, riflettendo le evoluzioni del tessuto economico e sociale.
Del resto, la partecipazione dei lavoratori non è un’invenzione recente. Già nel XIX secolo, sulle navi baleniere come quella resa immortale dal romanzo Moby Dick, l’equipaggio non era semplicemente un gruppo di salariati. Ogni marinaio, dal capitano all’ultimo mozzo, prendeva parte a una sorta di “società economica”: i proventi della caccia alla balena venivano divisi in “quote”, proporzionate al ruolo e alle responsabilità di ciascuno. La riuscita della spedizione non era dunque solo interesse dell’armatore, ma di tutto l’equipaggio, che condivideva rischi e benefici. Una forma primordiale di partecipazione, che oggi torna di grande attualità.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 26 maggio 2025 è entrata ufficialmente in vigore la Legge n. 76 del 15 maggio 2025, un provvedimento che molti osservatori hanno già definito “storico”. Non si tratta, infatti, di un semplice ritocco normativo, ma dell’avvio di una vera e propria stagione nuova per le relazioni industriali in Italia. L’ordinamento italiano compie un passo decisivo nell’attuazione dell’art. 46 della Costituzione, colmando un vuoto legislativo durato oltre settantacinque anni. Tale disposizione costituzionale, rimasta a lungo priva di concreta efficacia normativa e tradizionalmente qualificata come norma meramente programmatica, trova finalmente un’attuazione sistematica che riconosce ai lavoratori un diritto a partecipare, in forme differenziate, alla gestione dell’impresa.
L’intervento legislativo si colloca in un contesto profondamente mutato rispetto al dopoguerra: da un lato, il consolidamento nell’ambito dell’Unione europea di modelli partecipativi avanzati – in primis quello tedesco della Mitbestimmung – ha offerto riferimenti giuridici e istituzionali ormai consolidati; dall’altro, il dibattito contemporaneo sulla sostenibilità economico-sociale ha contribuito a ridefinire la concezione dell’impresa come centro di interessi plurali, tra i quali la posizione dei lavoratori assume un rilievo strutturale e non più meramente accessorio.
La legge n. 76/2025 introduce un sistema articolato di partecipazione, distinguendo quattro modalità di coinvolgimento: gestionale, economico-finanziaria, organizzativa e consultiva. Tali forme possono essere ricondotte, sul piano interpretativo, a due categorie fondamentali: quelle ex ante, che incidono sui processi decisionali relativi agli assetti organizzativi e strategici dell’impresa, e quelle ex post, che attengono alla ripartizione dei risultati economici dell’attività produttiva.
L’impianto normativo si caratterizza, inoltre, per una forte integrazione tra disciplina legislativa, autonomia statutaria e contrattazione collettiva: l’effettività delle nuove forme partecipative presuppone, infatti, l’intervento degli statuti societari e della contrattazione collettiva, chiamati a definire in concreto modalità, tempi e ambiti di esercizio dei nuovi diritti. In tal senso, la legge n. 76/2025 non si limita a introdurre singole misure, ma apre un nuovo capitolo del diritto societario e del diritto del lavoro italiano, ridefinendo il rapporto tra impresa e lavoratori in una prospettiva di democrazia economica e di governance partecipativa.
In sintesi la legge si articola su quattro forme di partecipazione:
PARTECIPAZIONE GESTIONALE
La legge consente, ma non impone, alle società di prevedere nei propri statuti la presenza di rappresentanti dei lavoratori negli organi di amministrazione e controllo, secondo il modello di governance adottato. Si apre così la possibilità di una partecipazione gestionale effettiva, da realizzare con modalità definite dalla contrattazione collettiva, che stabilisce le procedure di designazione e i criteri operativi. L’inserimento di rappresentanti dei lavoratori nelle sedi decisionali ha lo scopo di favorire una maggiore condivisione delle strategie industriali, prevenire i conflitti e sviluppare una cultura aziendale improntata alla cooperazione e alla responsabilità comune.
PARTECIPAZIONE ECONOMICA E FINANZIARIA
Sul piano economico e finanziario, la legge introduce misure di incentivo per favorire la partecipazione dei lavoratori ai risultati d’impresa e, in alcuni casi, al capitale stesso. Per l’anno 2025, nel caso di distribuzione ai lavoratori di almeno il 10 per cento degli utili complessivi, è previsto l’innalzamento da 3.000 a 5.000 euro del limite degli importi assoggettabili all’imposta sostitutiva del 5% ai sensi della legge n. 208/2015. Inoltre, i dividendi derivanti da azioni assegnate in sostituzione dei premi di risultato, per un importo non superiore a 1.500 euro annui, sono esenti dall’imposta sui redditi per il 50% del loro ammontare. La legge conferma la possibilità per le imprese di adottare piani di partecipazione finanziaria strutturati, anche attraverso l’attribuzione di azioni ai lavoratori in luogo dei premi di risultato, con vantaggi fiscali e contributivi. In questo modo si promuove un modello di redistribuzione equa e incentivante, che lega produttività, risultati aziendali e benefici per i lavoratori.
PARTECIPAZIONE ORGANIZZATIVA
Sul versante organizzativo, la legge favorisce l’attivazione, su base volontaria, di strumenti di collaborazione paritetica tra impresa e lavoratori. Le aziende possono costituire commissioni paritetiche composte da rappresentanti aziendali e dei lavoratori, con il compito di elaborare piani di innovazione dei prodotti, dei processi produttivi, dei servizi e dell’organizzazione del lavoro. È inoltre prevista la possibilità di individuare, nell’ambito della contrattazione aziendale, figure di riferimento per la formazione, il welfare, le politiche retributive, la qualità dei luoghi di lavoro, la conciliazione vita-lavoro, la genitorialità e le politiche di inclusione delle persone con disabilità e diversità. Questi strumenti, pur non obbligatori, rappresentano un terreno concreto di collaborazione e miglioramento continuo.
PARTECIPAZIONE CONSULTIVA
La legge valorizza anche la dimensione consultiva, prevedendo la possibilità di coinvolgere preventivamente le rappresentanze sindacali aziendali (RSA o RSU) o, in loro assenza, i rappresentanti dei lavoratori e le strutture territoriali degli enti bilaterali. Nell’ambito delle commissioni paritetiche può essere attivata una procedura di consultazione preventiva sulle scelte aziendali di rilievo strategico o organizzativo, senza sostituire o limitare le procedure già previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva. L’obiettivo è consolidare un metodo di confronto strutturato e tempestivo, in grado di prevenire conflitti e favorire decisioni condivise.
Un elemento qualificante della legge è la previsione di un diritto alla formazione per i rappresentanti dei lavoratori coinvolti nelle diverse forme di partecipazione. I membri delle commissioni paritetiche e i rappresentanti negli organi societari hanno diritto ad almeno dieci ore annue di formazione, anche in forma congiunta con l’impresa, finanziabili tramite enti bilaterali, il Fondo Nuove Competenze o i fondi interprofessionali. La formazione ha la funzione di rafforzare le competenze tecniche, specialistiche e trasversali necessarie per contribuire in modo qualificato ai processi decisionali aziendali.
È opportuno rimarcare che un passaggio decisivo è già stato compiuto: presso il CNEL è stata istituita e già insediata la Commissione nazionale permanente per la partecipazione dei lavoratori, che rappresenta il cuore operativo della riforma. La Commissione ha il compito di fornire pareri interpretativi sulle procedure di partecipazione, raccogliere e valorizzare le buone pratiche già sperimentate dalle aziende, redigere una relazione biennale sullo stato della partecipazione nei luoghi di lavoro e proporre misure per favorirne lo sviluppo. In questo modo, la legge non rimane un guscio vuoto, ma si dota fin da subito di un presidio istituzionale stabile, capace di monitorare e orientare le trasformazioni in corso.
Gli obiettivi dichiarati della legge sono ambiziosi: rafforzare la collaborazione tra capitale e lavoro, preservare l’occupazione, valorizzare le competenze dei dipendenti e promuovere la sostenibilità delle imprese. In un contesto segnato dalla transizione digitale e ambientale, dalla crescita della produttività e dalla necessità di maggiore inclusione, la partecipazione dei lavoratori può rappresentare un fattore decisivo.
Naturalmente non mancano le incognite: la reale efficacia del modello dipenderà molto dalla capacità delle parti sociali di declinare la norma nei contratti collettivi nazionali e aziendali. Senza un protagonismo attivo delle organizzazioni sindacali e una disponibilità convinta delle imprese, il rischio è che le nuove possibilità restino sulla carta.
Il vero banco di prova sarà ora nei nuovi contratti collettivi. Nelle intese aziendali. Ma attenzione: se non c’è un new deal tra sindacati e imprese, questa legge resterà lettera morta. In aggiunta c’è un altro elemento da non trascurare o, meglio, rischio: che il mondo imprenditoriale si metta di traverso.
Come evitarlo?
Bisogna abbandonare l’idea del modello tedesco, costruito su grandi imprese che in Italia non esistono. Dobbiamo cucirci addosso un modello nostro su misura per le PMI Italiane. Serve coraggio da parte dei sindacati e da parte degli imprenditori, serve una cultura della collaborazione e non diktat o ideologie novecentesche.
Il lavoro non si crea per decreto, né si difende con referendum simbolici su leggi che, pur con limiti, sono state le uniche riforme organiche in vent’anni. Il lavoro si crea con la produttività, con politiche industriali serie, con la formazione.
In definitiva, la Legge 76/2025 si propone di inaugurare un modello in cui l’impresa non è più soltanto “cosa del capitale”, ma una comunità dove capitale e lavoro collaborano per uno sviluppo sostenibile. È un cambio di paradigma che richiama, per certi versi, le riflessioni storiche di Adriano Olivetti e, più in generale, il dibattito sulla responsabilità sociale delle imprese.


