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Impresa: è necessario innovare “creando leader e non manager” il punto di vista di Giuseppe Russo
Il Nobel per l’economia è stato assegnato a ottobre 2025 a Joel Mokyr, Philippe Aghion e Peter Howitt per aver spiegato da un lato i prerequisiti di una crescita economica duratura attraverso il progresso tecnologico e dall’altro la funzione della distruzione creativa, un concetto alla base dell’economia secondo cui le innovazioni distruggono la conoscenza esistente per creare progresso e sviluppo economico. Nella creazione di quelle piccole e medie imprese, che ancora oggi rappresentano il motore di un’Italia produttiva e competitiva, l’analisi lucida delle necessità di reinventare un tool kit di conoscenze e strumenti digitali che possano essere funzionali al Sistema Paese passa attraverso un’educazione finanziaria che operi su un cambio di mentalità radicale. Questa l’idea di Giuseppe Russo, professore associato in Economia e Gestione delle Imprese dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale e Responsabile del Centro Studi di Confimprese Italia, che nell’intervista a Microfinanza esprime le sue convinzioni nel sostegno alla formazione di leader d’impresa in grado di governare i processi di innovazione per la realizzazione di progetti d’impresa attuali e altamente produttivi.
Professore, cosa pensa della microimpresa in Italia e qual è il vettore di un nuovo tessuto economico?
L’Italia si è sempre caratterizzata per avere un tessuto di microimprese molto evoluto e, soprattutto, di dimensioni notevoli. La nostra forza economica è sempre passata attraverso la piccola e media impresa. Il problema oggi, nella globalizzazione, è che purtroppo la piccola e media impresa ha difficoltà ad avere la massa critica, soprattutto per quanto riguarda le risorse finanziarie e la capacità di investimento. In un mercato globalizzato, l’accesso al credito diventa un po’ più complicato e soprattutto diventa difficile accedervi, non avendo numeri e una patrimonializzazione elevata. D’altro canto, oggi vediamo che il tessuto economico si sviluppa molto grazie alle start-up. Oggi, in Paesi come la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, nascono moltissime start-up innovative, piccole start-up che, purtroppo, vengono poi inglobate in grosse imprese.
Quindi, sicuramente, il tessuto delle piccole e medie imprese nei prossimi anni sarà comunque ancora un settore strategico per la nostra economia. Sicuramente sarà necessario cambiare le modalità di creare l’impresa, imparare a lavorare insieme, o comunque formare alleanze strategiche, massa critica, che possa consentire a queste piccole imprese anche di avviare percorsi di internazionalizzazione.
Come le microimprese possono diventare parte della grande filiera produttiva?
Le piccole e medie imprese devono essere altamente innovative. Oggi sviluppare una piccola o media impresa significa essere in grado di agganciarsi a una grossa realtà. Significa che devi essere in grado di proporre o di essere strumentale alla grande impresa per supportarla nello sviluppo di processi altamente innovativi.
Quali sono i processi di innovazione essenziali?
La digitalizzazione fondamentalmente è un processo in cui noi studiosi facciamo la distinzione tra conoscenza operativa e conoscenza creativa. Cioè, la conoscenza operativa è quella di “fare con le mani”. Un esempio emblematico sul nostro territorio è quello di un noto pastificio la cui produzione in dieci anni è aumentata di venti volte, mentre la forza lavoro si è progressivamente ridotta da centoquaranta persone a venticinque. Come è possibile produrre venti volte di più con un settimo dei dipendenti? Perché tutta la conoscenza operativa, l’impastare e il tagliare, è stata automatizzata, sostituita da software e algoritmi, quindi la conoscenza operativa viene fatta dalle macchine. Dunque all’impresa serve sempre più conoscenza creativa, cioè persone capaci di innovare costantemente, di alimentare questo processo di digitalizzazione e innovazione, perché le macchine, che lavorano con zero infortuni e senza fermarsi, hanno una produttività più elevata. Questo non avviene solo nel campo manifatturiero ma anche in quello professionale, si pensi al lavoro negli studi dei commercialisti dove l’emissione della fattura, della bolla, il pagamento con l’assegno, la contabilizzazione, sono tutte attività ormai digitalizzate.
Un altro discorso è l’intelligenza artificiale. Alcuni confondono l’intelligenza artificiale con qualcosa che si riproduce da sola. In realtà attraverso i super computer con elevatissima capacità di calcolo oggi si ha la capacità di raccogliere una marea di informazioni, processarle a velocità incredibili e ottenere risposte a tantissimi problemi.
Dove porterà l’intelligenza artificiale? Alcuni dicono che l’intelligenza artificiale porterà a un depauperamento della conoscenza, perché attraverso gli strumenti digitali si arriva velocemente all’informazione necessaria senza approfondire quindi si ha una minore ritenzione della conoscenza. Oggi uno studente ha già la sintesi di un qualsiasi studio creata da ChatGPT, non legge più e non si sviluppa capacità di analisi e sintesi. Questo potenzialmente può far perdere la capacità di risolvere i problemi. Altri studi, però, dicono che l’intelligenza artificiale migliora l’efficacia nel raggiungere la soluzione di un problema, anche se non conosciamo più tutta la base o i passaggi intermedi, basta utilizzare lo strumento idoneo. Socrate si scagliò contro la scrittura perché a suo avviso avrebbe fatto perdere conoscenza. Personalmente, credo che l’essere umano si adatti sempre. Il processo di innovazione non può essere arrestato e, sicuramente, l’intelligenza artificiale porterà benefici, come abbiamo visto in medicina, ad esempio, dove dieci anni fa un intervento chirurgico richiedeva una grande incisione, mentre oggi viene fatto in laparoscopia e in due giorni si torna a casa.
Con l’innovazione e l’Ai ci sarà perdita di occupazione?
Gli studi dicono che non ci sarà una perdita di occupazione, ma ci sarà una perdita di occupazione per quelle figure professionali che non riusciranno a fare quel passo avanti nell’utilizzo della tecnologia.
Quanto conta l’educazione finanziaria?
Il problema è culturale. Bisogna educare i giovani agli strumenti finanziari, che sono fondamentali per l’avvio di una nuova attività. Ma soprattutto, bisogna cambiare la mentalità. Faccio un esempio. Negli Stati Uniti, se un giovane apre un’impresa e questa fallisce, il fallimento non viene visto come in Italia, dove il giovane è etichettato come un “fallito”. Lì, invece, quella persona è considerata intraprendente, perché ha avuto il coraggio di avviare un’impresa, anche se non ha avuto successo. È una persona vista in modo positivo, come qualcuno che ha provato a fare qualcosa di nuovo. Finché non cambiamo questa mentalità e non si darà spazio a chi osa, a chi sperimenta, a chi prova a fare cose nuove, non avremo possibilità. Dovremmo incoraggiare la mentalità di chi si mette in gioco, di chi crea imprese e nuovi posti di lavoro, anziché ambire solo al posto fisso. È una visione che i giovani italiani dovrebbero rivedere e aggiornare.
Qual è il ruolo dello Stato in questo contesto?
Io non sono mai stato favorevole all’idea che lo Stato debba intervenire direttamente. Lo Stato deve creare le condizioni infrastrutturali favorevoli allo sviluppo delle imprese, ma poi è il mercato che deve alimentare questi processi. Per esempio, negli Stati Uniti, il Nasdaq è un esempio di come un’impresa innovativa possa essere supportata dal mercato. Se un progetto è valido, viene presentato e se giudicato interessante, riceve investimenti. In altre parole, bisogna spingere le persone a presentare idee valide, e se queste idee sono solide, devono essere finanziate. In Italia, invece, c’è ancora l’idea che il finanziamento debba venire dalle banche o dallo Stato. In altri Paesi, invece, il mercato, i fondi di investimento, fanno questo lavoro.
Ritiene il microcredito uno strumento utile?
Il microcredito è sicuramente uno strumento utile. In Italia, oggi, se una persona vuole avviare un’attività e non ha accesso al credito, nessuna banca gli concederà un prestito se non ha garanzie solide. Il problema è che non abbiamo ancora un mercato dei capitali che favorisca l’innovazione come accade in altri Paesi. Questo è uno dei principali ostacoli per lo sviluppo delle start-up.
Quali sono le caratteristiche di un manager d’impresa?
Qui vorrei fare una distinzione. Oggi, più che di un “manager”, bisognerebbe parlare di “leader”. Il manager è un esecutore: gli vengono dati dei compiti e li esegue. Ma oggi le imprese hanno bisogno di leader, persone che si facciano carico del processo di innovazione, che motivino le persone e portino l’impresa verso il cambiamento. Il manager tradizionale è statico, mentre il leader è dinamico, è colui che guida l’innovazione. Le imprese devono essere orientate al cambiamento continuo, all’innovazione, alla creazione di vantaggi competitivi. La competitività oggi non si costruisce su processi rigidi e statici, ma sull’innovazione costante. Se ci si basa solo sull’esecuzione, non si esplorano mai nuovi orizzonti.
Deregulation e burocrazia stritolano le imprese?
Questo è un altro aspetto in cui le imprese italiane spesso si trovano in difficoltà. In Paesi all’avanguardia, gli imprenditori conoscono fin da subito tutte le regole: normative sulla sicurezza, privacy, ambiente. In Italia, invece, spesso si apre un’impresa senza avere una chiara consapevolezza di tutte le normative che regolano l’attività. Per esempio, la sicurezza sul lavoro, la gestione dell’impatto ambientale… tutte queste sono preoccupazioni che si affrontano solo dopo, quando si scopre che sono obbligatorie. Ma è normale preoccuparsi di questi aspetti fin dall’inizio.
Quali sono le caratteristiche che oggi rendono competitiva un’azienda?
Oggi un’impresa sopravvive solo se ha un vantaggio competitivo rispetto ai suoi concorrenti. Questo può tradursi in una maggiore redditività, grazie a costi più bassi o a un prodotto differenziato. Ma non basta. Un’impresa deve saper innovare continuamente per rispondere ai bisogni del mercato. La creatività e l’innovazione sono le chiavi del successo. Se non si innovano i prodotti, i processi o i servizi, si rischia di diventare obsoleti. Tuttavia, in certi settori, la produzione a basso costo in altri Paesi rende difficile competere. Per questo, i Paesi industrializzati come l’Italia devono puntare sui servizi, sull’innovazione e sul trasferimento delle conoscenze, piuttosto che continuare a fare produzione a basso costo. Un esempio positivo è quello del distretto di Prato, dove l’industria tessile ha saputo evolversi, creando un centro di eccellenza nella ricerca sui materiali. In questo caso, non si produce più solo tessuti, ma si è diventati leader nella tecnologia e nella ricerca per la produzione di macchinari. L’Italia, per esempio, potrebbe concentrarsi su queste nicchie, dove il valore aggiunto sta nell’innovazione e nella ricerca, piuttosto che nella produzione manuale. In un mondo globalizzato, dove i costi di produzione nei Paesi emergenti sono più bassi, i Paesi industrializzati non possono più competere solo sui costi, ma devono investire in competenze, conoscenze e innovazione.


